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Ma è proprio vero, come dice Max Stirner, che il singolo può vivere senza alcuna vocazione?

di Francesco Lamendola - 11/12/2013

 

 

 

 

 

L’uomo può vivere senza alcuna vocazione; può vivere solo e unicamente per se stesso; può vivere come se la sua storia personale sia una storia mondiale e come se il resto della storia mondiale sia una sua proprietà?

Queste sono le domande che caratterizzano l’uomo moderno e che sono state poste, con una chiarezza e con una lucidità di cui bisogna dargli atto, da Max Stirner (alias Johann Caspar Schmidt, 1806-1856), riconoscendogli la qualifica di “filosofo” e non solo quella, come velenosamente hanno fatto Marx ed Engles, di semplice “Kuriosum”, per giunta prendendolo in giro come “San Max” (ma per loro quella di dare patenti a destra e a manca era un’abitudine inveterata: come quando definivano Proudhon uno che in Francia passa per un grande economista tedesco e in Germania per un grande filosofo francese; oppure quando definivano il loro socialismo come “scientifico” e quello di tutti gli altri come “utopistico”).

Il libro «L’unico e la sua proprietà» apparve nel 1845 e, per certi aspetti, si può considerare come una esasperazione della teologia cristiana di Kierkegaard (e di Sant’Agostino), nel suo porre l’accento sulla drammaticità della solitudine umana davanti al mistero di Dio; ma una esasperazione in senso puramente laico ed immanente, perché, nella visione di Stirner, l’uomo non è solo davanti a Dio, né davanti ai suoi simili:è solo davanti a se stesso, e basta. Il suo discorso antropologico, pertanto, finisce là dove quello di Kierkegaard incomincia: per il filosofo danese l’uomo scopre, nella propria finitezza, l’angoscia e la disperazione, dalle quali può uscire mediante il “salto” verso Dio; per il filosofo tedesco, l’uomo non scopre nient’altro che la propria unicità, la propria singolarità, la propria orgogliosa contrapposizione a tutto ciò che è al di fuori del proprio io, e reagisce a qualsiasi tentativo di inglobarlo, di assimilarlo, di uniformarlo, di dargli un senso che trascenda il proprio senso individuale.

La rivolta di Stirner è legittima, se raffrontata ai tentativi di ridurre il singolo essere umano a rotella di un meccanismo impersonale, sia esso lo Spirito assoluto o, magari, lo Stato (prussiano e non), come, di fatto, avviene nel sistema hegeliano – e Stirner può essere considerato, a buon diritto, come un pensatore post-hegeliano, peraltro più “moderno” di Feuerbach, che resta ancora legato a un antropocentrismo astratto, e più simile, appunto, a Kierkegaard, il quale ha avuto il grande merito di riportare la filosofia dal terreno astratto dell’universale a quello concreto della vita di ciascun singolo individuo, alla sua urgenza personale, unica e irripetibile.

Ma questa reazione è destinata a naufragare nel nichilismo, nel soggettivismo e nel relativismo più radicali, conducendo l’uomo non vero se stesso, ma ancora più lontano da se stesso; anticipando, alcuni temi di Pirandello, Stirner immagina di poter “liberare” l’uomo dalle costrizioni che la società gli impone, ma non si rende conto che l’uomo, senza la società, è nulla, non esiste, non è neppure pensabile o immaginabile; e che, quand’anche lo fosse, sarebbe ugualmente condannato alla nullificazione, perché al di sotto di quelle costrizioni con c’è il suo “vero” io, il suo io autentico e finalmente posto i condizioni di esprimersi, ma il vuoto.

Ripensare la domanda essenziale di Max Stirner è, quindi, una operazione importante e addirittura necessaria per l’uomo d’oggi; perché da quella domanda, e dalla possibilità di correggerne l’impostazione e di modificarne le premesse e la prospettiva, dipende la sopravvivenza di un orizzonte di speranza, oppure la definitiva acquisizione di un orizzonte di angoscia e di morte, come, di fatto, è stato per il “primo” Heidegger (quello esistenzialista), per Sartre e per tanti altri.

Scrive, dunque, Max Stirner a conclusione della sua opera più famosa, «L’unico e la sua proprietà» (titolo originale: «Der Einzige und sein Eigentum», Leipzig, Reclam, 1893; trad. di L. Marchetto e C. Berto, a cura di G. Penzo, Bologna, Pàtron, 1982, pp. 364-5):

 

«Il cerchio magico del cristianesimo sarebbe infranto se il contrasto tra l’esistere e il tendere, cioè tra il mio io così com’è ed il mio io come dovrebbe essere, venisse a cessare; esso esiste solo come nostalgia dell’idea verso la sua corporeità e cessa allorché sparisce il contrasto tra le due dimensioni: solo se l’idea – resta idea, proprio come l’uomo o l’umanità restano un’idea priva di corporeità, continua ad esistere il cristianesimo. L’idea corporea, lo spirito corporeo o “perfetto” si agita davanti agli occhi del cristiano e rappresenta per lui “la fine dei giorni” oppure “il fine della storia”; non è per lui una realtà presente.

Al singolo è solo permesso di partecipare alla costruzione del regno di Dio, oppure, secondo la concezione moderna dello stesso concetto, allo sviluppo e alla storia dell’umanità, e solo a seconda della sua partecipazione gli si riconosce un valore cristiano o, in termini moderni, un valore umano, per il resto è polvere o fango.

Che il singolo sia per se stesso una storia mondiale e che il resto della storia mondiale sia sua proprietà, è cosa che supera la concezione cristiana. Per il cristiano la storia mondiale è una cosa superiore, perché essa è la storia di Cristo o “dell’uomo”; per l’egoista solo la SUA storia ha un certo valore, perché egli vuole sviluppare solo SE STESSO, non l’idea dell’umanità, non i disegni di Dio, non le intenzioni della provvidenza, non la libertà ecc. Egli non intende se stesso come uno strumento dell’idea o un vaso di dio, non riconosce alcuna vocazione, non si fa illusioni sul fatto di esistere per lo sviluppo dell’umanità e di dovervi portare il proprio contributo, ma vive l’essere se stesso, incurante del fatto che questo possa essere un bene o un male per l’umanità. Se non venissi frainteso, come se volessi esaltare lo stato di natura, potrei ricordare i “Drei Zigeuner” “Tre zingari”) di Lenau. Io sono al mondo per realizzare l’idea? Forse per realizzare l’idea “stato” nella mia qualità di cittadino, o per dare esistenza, con il matrimonio, nella mia qualità di sposo o di padre, all’idea della famiglia? Che m’importa di una tale vocazione? Io vivo tanto poco per una vocazione quanto poco il fiore cresce e profuma per una vocazione.

L’ideale “l’uomo” è REALIZZATO solo se l’intuizione cristiana si trasformerà nella tesi: “Io, questo unico, sono l’uomo”. La questione concettuale: “Che cos’è l’uomo?” – si è trasformata in quella personale: “Chi è l’uomo?”. Nel “che cosa” si cercava il concetto per realizzarlo; nel “chi” non c’è più alcuna questione, ma la risposta è data in modo personale già da colui che interroga:  la risposta a quella domanda viene da sé.

Si dice di dio: “Non ci sono nomi per definirti”. Ciò vale per me stesso: nessun CONCETTO esprime l’essere me stesso, nessuna cosa  che sembra essere la mia essenza esaurisce  l’essere me stesso; sono solo nomi. Si dice inoltre di dio che è perfetto e che non ha alcuna vocazione di aspirare alla perfezione. Anche questo vale per me.

Io sono PROPRIETARIO della mia forza, e lo sono quando so di essere UNICO. Nell’UNICO il proprietario ritorna nel suo nulla creatore, dal quale è nato. Ogni essere sopra di me, sia dio, sia l’uomo, indebolisce il senso della mia unicità e impallidisce al sole di questa coscienza. Se io ripongo la mia causa su me stesso, l’unico, essa poggia sul passeggero e mortale creatore di sé, il quale consuma se stesso, e io posso dire: Io ho riposto la mia causa su nulla.»

 

Dunque, partiamo dall’inizio: secondo Stirner, per il cristiano la meta finale è una sorta di corporeizzazione dell’idea spirituale del proprio destino, che nasce dallo iato esistente fra il mio io così com’è e il mio io come dovrebbe essere; e conclude che l’idea finale cui tende il cristiano non è nella storia, non è realizzabile nel presente, è sempre qualcosa che gli fugge davanti.

Ebbene, Stirner ha compreso l’idea cristiana solo a metà: quello iato, quella distanza tra il reale e l’ideale, tra la contingenza e la necessità, non è una voragine aperta su qualcosa che non esiste, non è un principio di alienazione, ma la garanzia della sua autentica vocazione, il richiamo costante alla vera sorgente del suo essere e al suo ultimo destino. Così pure, è inesatto affermare che il fine della storia non è, per il cristiano, una realtà presente; perché se è vero che esso si compie fuori dalla storia stessa, è però altrettanto vero che il Regno di Dio incomincia qui, ora, come annunciato da Gesù nel Discorso della montagna; e che la Città celeste è mescolata, agostinianamente, alla Città terrena, almeno fino a quando l’uomo è immerso nella dimensione del provvisorio e del finito. Certo che il compimento, la realizzazione dell’uomo si attua in Dio: e, in questo senso, l’uomo non trova, né potrebbe mai trovare la propria dimensione autentica, cercando solo in se stesso, facendo di se stesso non una creatura, ma un essere autonomo e autosufficiente.

Passiamo all’affermazione secondo cui l’uomo deve cercare la propria realizzazione e il proprio compimento non in un’idea che stia al di fuori e al di sopra di lui, come Dio o come lo Stato, ma precisamente in se stesso, nel singolo “io”; e che la storia mondiale non è che la storia di questo “io”, o, se pure ne avanza qualche altra cosa, che questo “avanzo” è soltanto una sua proprietà. Stirner si preoccupa di non vedere l’uomo, l’uomo singolo, strumentalizzato e manipolato da forze che lo riducano a mero strumento di incomprensibili disegni e che, intanto, neghino e reprimano il suo bisogno potente e prepotente di essere se stesso, di affermare la sua essenza. Ma qual è l’essenza dell’uomo?, questo è il punto. Se l’essenza dell’uomo fosse la sua propria finitudine, allora il ragionamento di Stirner potrebbe anche indirizzarsi nella direzione giusta. Ma se la sua essenza non esiste in lui stesso, ma risiede in qualche cosa che, pur essendo in lui, non è lui, non coincide totalmente con lui; se la sua essenza non è quella di essere se stesso nel finito, perché egli può essere molte cose, sublimi o terribili, fra loro assolutamente incompatibili; se la sua essenza equivale a scoprire la voce della chiamata che lo invita al ritorno all’Essere, dal quale proviene e nel quale consiste pure la sua essenza: allora la prospettiva di Stirner è radicalmente sbagliata e non può che condurre l’uomo verso il precipizio dell’angoscia e della disperazione senza sbocchi.

L’uomo non può far coincidere la storia universale con la propria storia individuale, a meno di ricadere nel delirio solipsistico dell’idealismo, nel vaneggiamento e nelle fumisterie di Hegel, secondo il quale non l’essere crea il pensiero, ma il pensiero crea l’essere. Perché una cosa è dire che l’uomo può conoscere il mondo solo attraverso il prisma del proprio pensiero, che può farne esperienza solo all’interno del proprio “io” e delle sue categorie concettuali (Berkeley docet); e un’altra cosa, e ben diversa, è negare, puramente e semplicemente, che esista un mondo, che esista una storia, che esista una qualsiasi realtà al di fuori del proprio “io”, e pretendere che l’”io” risolva in se stesso il mondo, la storia ed il reale.

Quanto alla rifiuto sdegnoso di Stirner davanti all’idea che io sia qui per realizzare un’idea, forse egli non ha tenuto conto del fatto che l’idea può realizzarsi attraverso di noi anche se noi non lo vogliano o se, addirittura, non ne sappiamo nulla; ma che un’idea si realizzi in noi, questo è innegabile: si tratta solo di vedere se dobbiamo prendere la cosa come una violenza contro la nostra unicità, come una forma di strumentalizzazione o di negazione dei nostri diritti, o non piuttosto come l’occasione preziosa che ci viene offerta per realizzare pienamente noi stessi, riconducendoci verso il centro della nostra vita, che è poi il centro del mondo stesso: l’Essere. E che noi siamo l’espressione di una idea, lo prova il fatto che il nostro essere non viene da noi, non ce lo siamo dato da soli: e dunque che noi partecipiamo dell’essere, però non siano l’essere. Ma se il nostro essere non viene da noi stessi, ma da qualcos’altro, allora c’è un’idea che si esprime attraverso di noi, c’è un’idea che in noi si manifesta e che chiede, forse, la nostra partecipazione, o quanto meno il nostro ascolto, per potersi attuare; diversamente, la nostra vita diventa un’occasione sprecata.

Stirner, a un certo punto, gioca un po’ con le parole quando afferma che io non sono chiamato ad essere sposo, marito e a risolvermi interamente in queste figure sociali: perché nessuno, e tanto meno il cristianesimo, può pretendere una cosa del genere. Certo, è importante svolgere bene il proprio ruolo sociale; ma non è tutto: bisogna anche, prima di tutto, essere se stesi. Però non si può essere se stessi, se si ignora chi realmente si è: e l’uomo che crede di essere esclusivamente un “unico”, compie una astrazione; sogna, vaneggia. Basta domandargli: e da dove vieni tu, con tutta la sua singolarità: dal nulla o da qualche cosa? Se vieni da qualche cosa, allora hai una storia, hai delle relazioni, hai dei doveri: e non è affatto vero che la storia universale ti è indifferente, non è affatto vero che non ha alcuna importanza se il tuo “io” sia un bene o un male per gli altri. O per te stesso..