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Mandela e la sfilata degli ipocriti

di Fabrizio Casari - 11/12/2013

Fonte: irib


 
 
Una calata di big di proporzioni stellari per i funerali di Nelson Mandela. Da ogni dove del pianeta giungono infatti conferme alla presenza di potenti o presunti tali che il prossimo 15 Dicembre saranno ad omaggiare il loro bisogno di apparire più che l’eroe del Sudafrica appena deceduto. Sfileranno in favore di telecamere, distribuendo dosi massicce di melassa e frasi di circostanza ipocrite e sapientemente costruite dai loro uffici e impavidamente pubblicate dai taccuini squadernati nell’opera quotidiana di vassallaggio.

Una sola cosa ci sarà sapientemente evitata: la verità storica, cioè i rispettivi ruoli e le rispettive responsabilità che molti degli invitati hanno avuto nella vicenda politica di Nelson Mandela, nella storia dunque del Sudafrica.
Se la presenza cotonata dovrà testimoniare la vicinanza in morte dei potenti al guerriero indomabile della causa del suo popolo, sarà però opportunamente soppressa dai discorsi e dai titoli di coda la distanza abissale da Madiba di molti dei paesi i cui rappresentanti calcheranno il carpet solenne dell’ultimo addio.

Perché Nelson Mandela, che da Presidente prima e in morte ora annovera il mondo intero nella lista degli amici e degli ammiratori, da guerrigliero e da prigioniero, da leader dell’African National Congress ebbe in molti dei paesi che oggi gli rendono il tributo dovuto, avversari implacabili, nemici decisi. Inserito ora nel pantheon dei migliori, fino agli anni ’90 si trovava nella lista dei “terroristi comunisti” stilata dai governi di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Israele e altri paesi europei che appoggiavano apertamente il Sudafrica di Botha, putrida enclave razzista e fascistoide che aveva nell’apartheid l’elemento caratterizzante del suo dominio di classe.

Ai funerali di Mandela sarà presente, tra gli altri, anche George W. Bush, il cui padre, vicepresidente degli Stati Uniti nell’Amministrazione guidata da Ronald Reagan, si adoperò in ogni modo per fornire assistenza ai mercenari africani e sostenne oltre ogni decenza il regime dell’apartheid. Solo dopo la sua uscita dalla Casa Bianca, nel 1988, Mandela uscì dalla lista dei “terroristi” stilata dagli USA.
Il Sudafrica che imprigionò per 27 anni Nelson Mandela era infatti sostenuto politicamente, finanziariamente, diplomaticamente e militarmente da uno schieramento di potenze occidentali che cercava di limitare in ogni modo l’ormai inevitabile avanzata della democrazia in Africa, tentando di limitare il processo di decolonizzazione.

Erano gli stessi governi che non solo appoggiavano il regime razzista di Pretoria, ma che affidavano alle cure degli specialisti israeliani e sudafricani le guerriglie filo-occidentali dell’Unita e della Renamo, finanziati ed aiutati contro i legittimi governi di Agostino Neto in Angola e Samora Machel in Mozambico. Nell’indifferenza generale da parte delle socialdemocrazie e nel sostegno diretto o indiretto al regime segregazionista da parte degli USA e dei suoi alleati europei, le nuove democrazie africane vennero attaccate da terroristi e mercenari.

A difendere l’Angola liberatasi grazie alla guerriglia vincitrice contro i regimi locali e alla rivoluzione dei garofani, che nel 1974 cambiò il regime portoghese, chiudendo l’epoca della dittatura salazarista, furono però solo i cubani.
L’impegno di Fidel Castro fu infatti decisivo per sostenere Luanda contro le organizzazioni terroristiche etero dirette da Pretoria. Fu l’intervento davvero eroico dei combattenti cubani, culminato nella storica battaglia di Cuito Canavale, a far indietreggiare una volta e per sempre il poderoso esercito sudafricano, giustamente considerato rilevante nelle elites castrensi internazionali.

Le truppe segregazioniste, insieme all’esercito dell’allora Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo) e di altre due bande mercenarie (la più importante era l’Unita di Jonas Savimbi), avevano infatti sferrato una offensiva militare enorme, condotta con 100.000 uomini ed erano riusciti a isolare e circondare le truppe angolane, aiutate dai cubani. L’intento era quello di sfondare le linee angolane e poi procedere verso Luanda per rovesciare l governo del MPLA.
Ma Fidel Castro decise di ribaltare la situazione e organizzò un poderoso ponte aereo da Cuba fino a Cuito Canavale, nel nord-est dell’Angola, a più di 1000 chilometri dalla capitale. Le truppe cubane, con artiglieria e carri armati, appoggiate dall’aviazione, riuscirono a rompere l’assedio e diedero il via alla controffensiva che non solo ripulì l’Angola, ma liberò la Namibia, fino a quel momento sotto il dominio militare del Sudafrica, che l’utilizzava come retroterra logistico per l’aggressione all’Angola.

Cuba pagò un prezzo significativo scegliendo di appoggiare i rivoluzionari angolani nella guerra contro il regime di Pretoria e i suoi alleati. Lo fece in nome di una concezione dell’internazionalismo che non lasciava dubbi quanto a coerenza e determinazione e che, dall’Africa all’America latina, ha sempre rappresentato una delle caratteristiche fondamentali della rivoluzione cubana. A Cuito Canavale cominciò la fine del regime sudafricano, sconfitto per la prima volta sul terreno militare. Fu l’esito di quella battaglia e della controffensiva cubana e angolana che obbligò il regime segregazionista a sedersi al tavolo degli accordi di pace privo di ogni baldanza.

Come riportano i documenti storici, il capo negoziatore cubano, Jorge Risquet, rivolgendosi alla delegazione di Pretoria disse: “Dovete capire che l’epoca delle avventure militari, delle aggressioni impunite, dei massacri dei rifugiati, è finita per sempre. Il Sudafrica attua come se fosse un esercito vincitore, invece di quello che in realtà è: un esercito aggressore colpito e in discreta ritirata. Il Sudafrica deve capire che non otterrà a questo tavolo di negoziati quello che non ha potuto ottenere sul campo di battaglia”.

Illuminanti furono le parole di Chester Crocker, sottosegretario statunitense per gli affari africani, quando si rivolse al Segretario di Stato Usa George Shultz per informarlo della situazione: “Scoprire cosa pensino i cubani è una forma d’arte. Sono preparati tanto per la guerra come per la pace. Siamo stati testimoni di una raffinata tattica e una vera creatività al tavolo dei negoziati. Lo sfondo è quello di idee fulminanti di Castro e nello schieramento senza precedenti dei suoi soldati sul terreno”. Insomma, nonostante gli sforzi di Washington e dei suoi alleati europei, Cuba aveva cambiato la storia dell’Africa australe.

Fu proprio Nelson Mandela che volle sottolineare come l’esito della battaglia di Cuito Canavale fu decisivo per la ritirata delle truppe segregazioniste e per l’apertura del serraglio attraverso il quale poterono cominciare i negoziati che portarono alla fine del regime di Pretoria. E, ricordarlo non fa male, lo stesso Mandela ebbe a scontrarsi con la Casa Bianca, rappresentata da Al Gore e Hillary Clinton, al suo insediamento come Presidente del Sudafrica, quando il presidente statunitense fece presente la difficoltà di trovarsi nel corso della cerimonia vicino a Fidel Castro, visto il clima tra Washington e L’Avana, velatamente minacciando che la presenza di Castro poteva rendere difficile la sua.

Madiba, che considerava Castro come un suo fratello e i cubani come gli unici amici che ebbe quando l’Occidente appoggiava il regime segregazionista di Botha mentre definiva lui e la sua ANC come terroristi, rispose che il Sudafrica era libero anche grazie a loro, che considerava i cubani come fratelli di sangue e riteneva ogni segno di ostilità nei loro confronti una manifestazione di ostilità nei confronti del Sudafrica. Al Gore dovette abbassare la testa e preparasi alle foto di rito alla presenza di Fidel Castro.

D’altra parte, nel 1995, Mandela precisò bene il suo sentimento verso Cuba: “I cubani vennero nella nostra regione come dottori, maestri, soldati, esperti di agricoltura, ma mai come colonizzatori. Divisero le stesse trincee nella lotta contro il colonialismo, sottosviluppo e apartheid. Non dimenticheremo mai questo imparagonabile esempio di disinteressato internazionalismo”.

Lo ricordava nel 2005 Thenijwe Mtintso, ambasciatrice sudafricana a Cuba, nel corso di una celebrazione per il ventennale della battaglia di Cuito Canavale: “Oggi il Sudafrica ha molti nuovi amici. Ieri, questi amici definivano i nostri leader e i nostri combattenti come terroristi e ci perseguitavano dai loro paesi mentre aiutavano il regime dell’apartheid. Questi stessi amici oggi vorrebbero che denunciassimo ed isolassimo Cuba. La nostra risposta è molto semplice: è il sangue dei nostri martiri cubani e non quello dei nostri nuovi amici quello che scorre profondamente nella terra africana e nutre l’albero della libertà nella nostra patria”.