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Il Britannia di Letta

di Marco Valerio Lo Prete - 31/01/2014


Chi sale a bordo delle nuove privatizzazioni. Gli interessi bancari (fondazioni) paiono sicuri. Le convenienze a breve del governo anche. Quelle di mercato, di governance e concorrenza, molto meno

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Per ogni privatizzazione che si rispetti c’è un Britannia al largo delle coste italianedove manager pubblici, investitori stranieri e advisor vari discutono di assetti societari futuri e possibili guadagni in arrivo. E’ andata così negli anni Novanta, quando si sprecarono i resoconti più o meno leggendari su una minicrociera di Grand Commis de l’Etat e locuste finanziarie a bordo del panfilo della Corona d’Inghilterra (il Britannia appunto). In realtà, fuori da ogni complottismo, tra il 1985 e il 2005 l’Italia ha alienato gioielli di famiglia per 147,5 miliardi di euro (stima l’economista Alberto Quadrio Curzio), ed era normale che con i possibili beneficiati si discutesse e ci si confrontasse. Ventidue anni dopo, il governo Letta ha annunciato il primo sostanzioso round di vendite del patrimonio pubblico da qualche anno a questa parte. Obiettivo: recuperare 12 miliardi di euro entro la fine dell’anno. E chi c’è questa volta sul Britannia? L’equipaggio per ora è in via di formazione (in attesa di leggere i decreti del presidente del Consiglio dei ministri sulla cessione di quote di Poste ed Enav annunciata in Consiglio), sicuramente è un equipaggio variegato, non ancora zeppo di finanzieri mefistofelici ma piuttosto – per usare le parole poco felpate dell’editoriale del Corriere della Sera di ieri, a firma Francesco Giavazzi – affollato da “interessi particolari”. E italianissimi.

Sulla vendita del 40 per cento di Poste, da cui ricavare 4-5 miliardi, s’appuntano le critiche maggiori. Il governo sostiene che l’azienda, nella forma di “conglomerato” di servizio postale, banca e assicurazione, sarà più appetibile agli occhi degli investitori. Numerosi analisti replicano che l’insieme delle attività, di cui alcune sussidiate dallo stato, sarebbe invece indigesto per i compratori: “Come può un investitore comprendere se le attività bancarie e assicurative sono gestite in maniera efficiente?”, si chiedeva ieri Giavazzi. Aggiunge Ugo Arrigo, economista dell’Università Bicocca di Milano: “Di fatto il governo congela la redditività attuale dell’azienda, redditività che però dipende dal rapporto con il settore pubblico. E visto che a eventuali investitori non offri la possibilità di contendersi il controllo aziendale, ecco che cristallizzi tutto lo status quo aziendale, con annessi intrecci anomali”. Intrecci generati dai sussidi pubblici, ma anche dallo “strapotere sindacale” in Poste, e soprattutto della Cisl “che non a caso Beniamino Andreatta chiamava ‘l’azionista di riferimento di Poste’”. E così, per un Enrico Letta che auspica per il futuro una rappresentanza dei lavoratori “negli organi della società”, c’è un Raffaele Bonanni (segretario generale della Cisl) che sul Sole 24 Ore loda “la rivoluzione silenziosa delle Poste, con la scelta positiva del governo Letta di cedere gratuitamente ai dipendenti una quota delle azioni”. In attesa di leggere il decreto – il comunicato del governo parla di “incentivazione”, non specificatamente di cessione gratuita – c’è chi teme una “delega di fatto” del potere di voto al sindacato (Carlo Stagnaro sul Foglio). Conclusione di Giavazzi: il governo sembra operare in base a “due princìpi”, “far contenti i sindacati concedendo loro un implicito diritto di veto su qualunque modifica del contratto di lavoro”, e “non contrapporsi a un management che si è abilmente conquistato la benevolenza del governo rischiando 70 milioni della propria cassa per coprire le perdite di Alitalia”. Un riferimento alle scelte dell’ad di Poste, Massimo Sarmi, intervenuto dopo che la Cassa depositi e prestiti (Cdp) aveva fatto capire di non voler entrare nell’operazione di sistema per salvare la compagnia aerea.

Cdp invece è tra i protagonisti di questa fase privatizzatrice. Il governo infatti ha annunciato la cessione di Sace (credito alle esportazioni, al 100 per cento di Cdp), Fincantieri (cantieristica, controllata da Fintecna, al 100 per cento della Cdp), e in qualche forma anche delle reti (Cdp Reti). L’esecutivo, almeno nel caso di Sace, intende cedere quote di controllo. Piena privatizzazione, dunque. Tuttavia i più maliziosi avanzano un dubbio: il Tesoro, per far quadrare rapidamente i conti pubblici, cedette Sace alla Cdp alla fine del 2012; oggi dunque sarà la Cdp a vendere. La Cdp è partecipata all’80 per cento dal Tesoro ma anche dalle fondazioni bancarie (al 18 per cento): “Dopo questo passaggio di proprietà, oggi, nel caso la Cdp riuscisse a vendere a un prezzo maggiore dell’acquisto e distribuisse un dividendo straordinario come risultato dell’operazione, il Tesoro dovrebbe spartire i proventi anche con le fondazioni – nota Arrigo – e da contribuente non sarei così contento”. Stefano Sansonetti, sul quotidiano la Notizia, ha scritto che il magistrato della Corte dei conti addetto al controllo sulla Sace, negli scorsi giorni, avrebbe sollevato obiezioni. Sintetizza Sansonetti: “Non è che l’operazione è stata in qualche modo approntata per avvantaggiare anche le fondazioni bancarie riunite nell’Acri di Giuseppe Guzzetti?”. D’altronde lo stesso Letta, nelle scorse settimane, aveva lasciato intendere che le privatizzazioni sarebbero servite sì ad abbattere il debito, ma anche per rafforzare il capitale della Cdp. Infatti in ballo non c’è solo l’eventuale dividendo straordinario ai soci di Cdp: in un momento in cui Tesoro e fondazioni difficilmente si possono permettere un aumento di capitale per garantire tutta la copertura prudenziale per gli investimenti di 95 miliardi pianificati dalla Cdp fino al 2015, la cessione delle quote di Sace e Fincantieri (per esempio) potrà servire a rafforzare il patrimonio sgravando il Tesoro, cioè lo stato, e le fondazioni private.

Il governo poi sostiene che Enav va privatizzata per ricavarne 1 miliardo circa, senza cederne il controllo, ma che il servizio di controllo del traffico aereo non si può liberalizzare. La senatrice Linda Lanzillotta (Scelta civica), già consigliere d’amministrazione di Enav, non la pensa così: “Si potrebbe fare una gara per la concessione del servizio. Invece l’obiettivo non è la crescita economica o la ristrutturazione più efficiente delle aziende interessate. Senza liberalizzare e senza abbandonare il controllo, solo per fare poca cassa, il governo cede partecipazioni di un monopolio, oggi gestito da Enav e dalle società che con esso collaborano in maniera stabile, Selex Sistemi Integrati del Gruppo Finmeccanica e Vitrociset”. Se si pensa che anche di Eni ed Enel saranno cedute piccolissime quote, si capisce perché boiardi di stato, sindacalisti e fondazioni siano saliti – senza ritrosie – sul Britannia di Letta.

Con loro c’è Olli Rehn, arcigno commissario Ue, contabile che non bada troppo alle strategie di lungo termine, ma al rapporto debito pubblico/pil che deve scendere qui e ora, altrimenti via con le sanzioni all’Italia. E allora “privatizzare per finta” (copyright Giavazzi) è sufficiente a dare slancio all’immagine del governo, a far passare forse l’esame Ue, senza scomodare per esempio migliaia di municipalizzate, sperando che sul panfilo molto italiano alla fine salga almeno qualche danaroso investitore.