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Lenin attacca l’empiriocriticismo perché lo giudica un idealismo travestito

di Francesco Lamendola - 09/04/2014

 

 


 

Lenin detesta l’empiriocriticismo perché lo giudica un idealismo travestito da positivismo; e siccome, per lui, non vi sono che due grandi tendenze nella storia del pensiero, il materialismo e l’idealismo, progressista il primo, reazionario il secondo, ne deduce che l’empiriocriticismo è una filosofia reazionaria, tanto più detestabile e tanto più pericolosa in quanto non ha la franchezza di presentarsi come tale, ma si traveste da quel che non è, insinuandosi in quegli ambienti che l’accolgono, ingenuamente, con favore, non rendendosi conto della sua vera natura e delle sue vere finalità… di classe.

Lenin è ossessionato dall’idea che al mondo esistano solo le due categorie degli amici e dei nemici; più conseguente di Carl Schmitt e più dualista dei manichei, ha deciso di consacrare la sua intelligenza e la sua opera al duro compito di smascherare i nemici,  cioè i reazionari, ovunque si nascondano e sotto qualunque spoglia di travestano. Perciò si prende la briga, nel 1909, a Zurigo, di confutare la pericolosa eresia dell’empiriocriticismo, lui così avaro del suo tempo da non ricevere nessuno, tranne i suoi più stretti collaboratori, scrivendo un “pamphlet” di ben trecento pagine: si direbbe che la filosofia di Ernst Mach e Richard Avenarius lo ossessioni quasi quanto la presenza dei menscevichi all’interno della socialdemocrazia russa. Somiglia, in questo, al suo maestro Marx, così ossessionato da «L’unico e le sue proprietà» di Max Stirner, da dedicare alla sua stroncatura, ne «L’ideologia tedesca» (scritta nel 1845, ma pubblicata postuma solo nel 1932), un numero di pagine maggiore di quante ne contenga il pur grosso volume dello stesso Stirner. Evidentemente, dietro il livore e l’aspra ironia di Marx contro Stirner, dietro il suo disprezzo ostentato per questo filosofo “individualista” e, perciò, “borghese”, vi è la preoccupazione di mettere in guardia i socialisti dal lasciarsi sedurre dalle sue pericolose teorie: riconoscimento indiretto del valore del’avversario che intende demolire ad ogni costo. La stessa sensazione si ha leggendo il saggio di Lenin contro l’empiriocriticismo: non gli avrebbe dedicato un così ampio spazio, se non lo avesse considerato sommamente pericoloso – dal suo punto di vista, ben s’intende.

Ora, il vero bersaglio del libello di Lenin non è tanto Mach, e nemmeno Avenarius, ma Bogdanov, suo compagno di partito e scienziato di un certo nome: tutti e tre hanno il peccato originale di essersi ispirati, magari inconsapevolmente, alla filosofia “idealista” di George Berkeley, di cui Lenin si occupa nelle prime pagine del suo lavoro e che presenta esplicitamente come un tentativo di “far passare per realista” una visione del mondo che è, invece, profondamente idealista, e, dunque, intrinsecamente reazionaria. In effetti, a Lenin – assolutamente negato per la speculazione pura, che del resto disprezza – non interessa il valore intellettuale di una filosofia, ma solo e unicamente il suo riflesso pratico, la sua incidenza nel mondo della “praxis”; e, dal momento che la sua visione del mondo si fonda sul materialismo dialettico, non può che giudicare fuorvianti e deleterie tutte le concezioni imparentate con l’idealismo.

A Lenin, in alte parole, non interessa quale sia il valore di verità del mondo esterno e in quale rapporto si trovi con il soggetto che lo percepisce; quel che gli importa sono le conseguenze “politiche” che scaturiscono dalla negazione di esso, come nel caso di Berkeley: negando la realtà materiale del mondo esterno, si svaluta tutto il mondo della storia e dell’economia, si rende secondaria o superflua la lotta di classe, si pone in dubbio il significato della rivoluzione e dell’instaurazione della società comunista. Bisogna, perciò, essere materialisti. Non perché il materialismo sia filosoficamente più “vero” dell’idealismo – questo è affare che lo riguarda poco o punto e, del resto, egli non possiede nemmeno la cultura e il tipo di intelligenza necessaria per occuparsene -, ma perché solo dal materialismo discende una filosofia pratica che vada nella direzione “giusta”: quella della lotta di classe, della rivoluzione, dell’instaurazione della società comunista. In una concezione idealista, viceversa, c’è troppo spazio per i preti, per il misticismo, o anche semplicemente per la metafisica: tutte cose che non capisce, ma di cui istintivamente diffida: non è forse vero che la religione è l’oppio dei popoli? E che altro è la metafisica, se non una forma di religione travestita, come già aveva intuito lo stesso Kant, mettendola al bando delle indagini serie? E il positivismo, non ha dimostrato una volta per tutte che l’unica vera scienza è quella che si fonda sul più rigoroso materialismo? Lenin ha un eccezionale intuito per annusare tutte quelle forme di pensiero che rappresentano un pericolo per le prospettive rivoluzionarie del proletariato; e, in particolare, per quelle che gli appaiono più pericolose di tutte, proprio perché possono presentare qualche analogia con il “realismo” e con il “progressismo” e, pertanto, sedurre gli ingenui e togliere potenziali aderenti alla causa del marxismo rivoluzionario. Per lui, come è noto, i socialisti moderati, o i socialisti “patrioti”, sono più meritevoli di disprezzo, e più seriamente pericolosi di quanto non lo siano gli aperti reazionari: perché si camuffano da rivoluzionari e contaminano il gregge dei veri credenti con le loro subdole eresie di derivazione borghese.

È significativo il fatto che Lenin concentra la sua critica a Berkeley non sulla sua concezione fondamentale dell’”esse est percipi”, dell’essere come essere percepito, ma sulla affermazione di Berkeley che la sua filosofia non nega le cose del mondo, ma “solo” – ed egli sottolinea, ironicamente, il “solo” – la pretesa che tali “cose” si trovino fuori della mente, in un mondo materiale esistente al di fuori dell’intelletto che lo percepisce. Secondo lui, questa affermazione è il cavallo di Troia che permette al vescovo Berkeley di insinuarsi nelle file dei “realisti”, rivendicando di essere, anch’egli, un “realista”, mentre invece il suo scopo è solamente quello di demolire le idee dei liberi pensatori e degli atei e di ripristinare una concezione platonica del mondo, basata sul dualismo e, soprattutto, sulla trascendenza. È questo che non gli va giù, è questo ciò che vuole confutare una volta per tutte: che si possa essere dei “veri” materialisti se si aderisce al sofisma berkeleiano, ossia se si ammette che quanto noi conosciamo del mondo  consiste unicamente delle nostre percezioni, ossia di una serie di processi che avvengono dentro la nostra mente, non fuori.

In un certo senso, la filosofia di Berkeley gli avrebbe dato meno fastidio se si fosse limitata a negare che esista qualsiasi cosa al di fuori della nostra mente: sarebbe stata un semplice solipsismo, e non l’avrebbe giudicata una concezione pericolosa. Ma Berkeley si pone il problema di spiegare donde giungano, alla mente del soggetto, le percezioni di quel mondo esterno che materialmente – ma solo materialmente - non può esistere, perché, se pure esistesse, essa non ne saprebbe, né potrebbe saperne, assolutamente niente; e giunge alla conclusione, la più logica e naturale, che tale origine non può che essere nella mente infinita di Dio, autore della conoscenza dei singoli spiriti finiti. E tale conclusione è semplicemente intollerabile, per Lenin: perché reintroduce il teismo, la metafisica e tutte le fisime religiose, proprio là dove meno ci si sarebbe aspettati: in una visione del mondo “realista”, che aveva proclamato di basarsi unicamente sulla conoscenza sensibile, sul dato sensibile puro e semplice: il caldo e il freddo, il colore, l’odore e così via.

Comunque, il “pamphlet” di Lenin è essenzialmente un attacco contro il “deviazionismo” di Aleksandr Bogdanov: poco gli importa di quel che speculano Mach e Avenarius; ma Bogdanov è un “compagno”, e un compagno assai conosciuto e rispettato, perciò bisogna rimetterlo sulla retta via, o, almeno, suonare la campana d’allarme ai suoi seguaci e ammiratori, prima che il virus dilaghi e produca danni irreparabili. Di nuovo: al mondo non vi sono che amici e nemici: bisogna distruggere i secondi e mettere sull’avviso i primi; altro compito non c’è, per un intellettuale rivoluzionario (e Lenin, appena tre anni prima, aveva approvato le estersioni a mano armata per finanziare il partito, tanto era convinto della bontà di una filosofia della prassi portata fino alle estreme conseguenze). Le discussioni accademiche non lo interessano; gli interessa solo la rivoluzione; o meglio: gli interessa solo la “sua” rivoluzione: perché le altre – quella del 1905, indi quella del Febbraio 1917 – non lo interessano se non come preambolo alla rivoluzione “vera”, cioè la sua.

Scrive, dunque, Lenin a conclusione di «Materialismo ed empiriocriticismo. Note critiche su una filosofia reazionaria» (in: «V. Lenin. Opere scelte in sei volumi», Editori Riuniti, Roma - Edizioni Progress, Mosca, 1973, vol. III, pp. 295-96):

 

«Il marxista deve giudicare l’empiriocriticismo sotto quattro aspetti.

In primo luogo, e innanzitutto, è necessario confrontare i principi teorici di questa filosofia con quelli del materialismo dialettico. Questo confronto, al quale sono stati dedicati i primi tre capitoli, mette in luce, in tutta la serie delle questioni gnoseologiche, il carattere interamente reazionario dell’empiriocriticismo che nasconde, con nuovi raggiri, nuove parole e nuovi stratagemmi, i vecchi errori dell’idealismo e dell’agnosticismo. Soltanto quando si ignora completamente ciò che è la filosofia materialistica ingenerale e ciò che è il metodo dialettico di Marx e di Engels, si può parlare di ‘unione’ dell’empiriocriticismo col marxismo.

In secondo luogo, è necessario determinare il posto che occupa l’empiriocriticismo – minuscola scoletta di filosofi specializzati – tra le altre scuole filosofiche moderne. Sia Mach che Avenarius, partendo da Kant, si sono incamminati non verso il materialismo, ma nella direzione opposta, verso Hiume e Berkeley. Avenarius, che immaginava di ‘epurare l’esperienza’ in generale, in realtà epurò soltanto l’agnosticismo dal kantismo. Tutta la scuola di Mach e di Avenarius, strettamente unita con una delle scuole idealistiche più reazionarie, il cosiddetto immanentismo, si orienta sempre più decisamente verso l’idealismo.

In terzo luogo, bisogna prendere in considerazione il nesso evidente che esiste fra il machismo e una certa scuola di una branca determinata delle scienze naturali contemporanee. La schiacciante maggioranza degli scienziati, sia un generale che nella branca particolare della fisica, è decisamente dalla parte del materialismo. Sotto l’influenza del crollo delle vecchie teorie in seguito alle grandi scoperte degli ultimi anni, sotto l’influenza della crisi della fisica moderna, la quale ha messo in luce, con particolare evidenza, la relatività delle nostre conoscenze, una minoranza di fisici moderni è scivolata, per ignoranza della dialettica, nell’idealismo attraverso la strada del relativismo. L’idealismo fisico in voga ai nostri giorni esercita un’attrattiva altrettanto reazionaria e altrettanto effimera quanto l’idealismo fisiologico di moda in un non lontano passato.

In quarto luogo, dietro lo scolasticismo gnoseologico dell’empiriocriticismo, non si può non vedere  la lotta dei partiti in filosofia, lotta che in ultima analisi esprime le tendenze e l’ideologia delle classi nemiche della società moderna. La filosofia contemporanea  ha un carattere di parte, come l’aveva la filosofia di duemila anni fa. In sostanza, i partiti in lotta sono il materialismo e l’idealismo , anche se si nascondono dietro nuove etichette escogitate da pedanti o da ciarlatani, o dietro una stupida indipendenza dalle parti. L’idealismo soltanto una forma affinata e raffinata di fideismo, il quale resta in armi, dispone di una formidabile organizzazione continua senza  interruzione a esercitare la sua influenza sulle masse, approfittando di ogni minima oscillazione del pensiero filosofico a suo vantaggio. La funzione obiettiva, di classe, dell’empiriocriticismo si riduce tutta a servire i fideisti nella loro lotta contro il materialismo in generale e contro il materialismo storico in particolare.»

 

Come si vede, in Lenin bisogna apprezzare almeno la franchezza: se il suo ragionamento è di una rozzezza quasi intollerabile sul piano speculativo, è però di una estrema coerenza e linearità, e quasi commovente nella sua brutale franchezza, sul piano pratico. A Lenin non interessa la filosofia, semmai la scienza, perché la filosofia è roba per pochi ciarlatani o perditempo, mentre la scienza rappresenta il futuro del mondo, e da essa dipenderanno gli orientamenti delle masse. Egli vede nell’empiriocriticismo una chiave di lettura fuorviante per gli scienziati e per la scienza, una maniera fraudolenta di reintrodurre l’idealismo, contaminando una sana concezione materialista del mondo, che il positivismo ha fondato una volta per tutte. Di più: lo vede come la quinta colonna della borghesia; come lo strumento mediante il quale la subdola reazione si insinua fra le masse, risospingendole verso le aberranti fantasie del soprannaturale e verso la detestata fede religiosa, nemica per antonomasia della rivoluzione. Dunque, lotta senza quartiere contro il nemico di classe...