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Il mondo favoloso di Andersen si spalanca sull’eterna magia del quotidiano

di Francesco Lamendola - 22/07/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

Vostro figlio o vostra figlia sono lì, nel lettino, che aspettano la storia della buonanotte: vi sforzate di pensare, vi vengono in mente draghi e principesse, cavalieri e castelli incantati, ma sapete che la sera prima avevate già attinto a quel repertorio, e così anche quella precedente… e vorreste cambiare.

Vorreste raccontare qualche cosa di più semplice, ma solo in apparenza di più dimesso: intuite, pur senza fare un vero ragionamento, che il segreto della fantasia non è nel “cosa”, ma nel “come”: dunque, che anche le cose più banali, anche gli oggetti della vita d’ogni giorno possono prestarsi benissimo allo scopo desiderato. Ed ecco, provate a fermare l’attenzione sul primo oggetto che vi cade sotto lo sguardo: un foglio di carta; e incominciate a raccontare: «C’era una volta un foglio di carta. Il bambino vi aveva disegnato una casetta, con l’alberello e due nuvolette; poi l’aveva lasciato sul tavolo, perché la mamma lo aveva chiamato a pranzo. Intanto si era levato un forte vento; e, dalla finestra aperta, dal tavolino il foglio era volato fuori, dapprima in terrazza, poi sul ramo dell’albero in giardino, e infine ancora più lontano… Povero foglio di carta, col suo bel disegno colorito a pastello! Dove lo avrebbe portato ora il vento? Il suo cuoricino batteva forte, forte…».  Ecco, la magia è iniziata: il bambino vi guarda ad occhi spalancati, anche lui è stato afferrato dalla storia del foglio di carta, soffre con lui, spera con lui, si identifica con le sue inaspettate avventure, con la pioggia che lo sgualcisce, con il sole che lo asciuga, con il gattino che se lo rigira fra le zampe tette, lo annusa e cerca di capire cosa sia…

Ebbene, probabilmente non ci avete pensato, ma è verosimile che quella repentina ispirazione vi sia venuta da una reminiscenza di Andersen, il grande amico dei bambini: è stato lui a scoprire che la dimensione del fantastico non è una cosa a parte, ma che essa si apre proprio nel bel mezzo del quotidiano; a scoprirlo come l’ha scoperto, e mostrato, anche Lewis Carroll, l’autore di «Alice nel Paese delle meraviglie», ma assai prima e assai meglio dello scrittore inglese, con il suo pesante e a volte un po’ lezioso intellettualismo vittoriano.

Chi, fra quanti sono nati negli anni precedenti il “boom” economico, non si è entusiasmato, da bambino, ascoltando o leggendo le avventure  Soldatino di piombo? E chi non si è intenerito alla storia della Sirenetta? Chi, poi, non è rimasto profondamente commosso e turbato fino alle lacrime dalla sconsolata vicenda della Piccola fiammiferaia? E chi non ha provato un moto di gioia nello scoprire che il Brutto anatroccolo, in realtà, altri non era che un grande, meraviglioso cigno, semplicemente incompreso dalla famiglia delle anatre?

Il mondo di Andersen è un mondo favoloso, straordinario, pervaso di animismo, come lo è il mondo di tutti i bambini prima della riflessione cosciente: un mondo nel quale non solo gli esseri viventi non umani, ma anche le cose, gli umili e comuni oggetti quotidiani, possono animarsi, vivere di vita propria, provare sentimenti e ed emozioni in tutto simili a quelle che proviamo noi. Ciò crea un effetto sorprendente, di dilatazione e di sospensione della realtà ordinaria, come quando le quinte di un teatro di spalancano e si scopre che oltre di esse c’è un altro teatro, ancora più grande e misterioso, del quale noi pure siamo parte viva e pulsante.

Un soldatino di piombo, ad esempio, può innamorarsi di una ballerina, e affrontare per lei, impavido, le avventure più pericolose, per giunta con una gamba sola, perché il piombo era venuto a mancare al momento della fabbricazione ed egli era stato messo dentro la scatola così, senza una gamba, insieme ai suoi compagni che indossavano la stessa uniforme ma due gambe ciascuno, mentre lui doveva appoggiarsi al fucile per stare in equilibrio. E in quel soldatino di piombo noi ci immedesimiamo, non possiamo non vivere con lui, della sua stessa strana, insospettata vita; non possiamo non stupirci ed emozionarci, proprio come accade a lui, e sentirci battere il cuore più in fretta quando la ballerina gli è vicina, trasferendo su di noi, dentro di noi, quel che egli vede, quel che egli prova.

Anche noi ci sentiamo soldatini con una gamba sola, impegnati in quella grande battaglia, anzi, in quella guerra incessante che è la vita; anche noi ci troviamo costretti, magari senza le armi adatte e senza il necessario equipaggiamento, ad affrontare difficoltà impreviste, contro le quali nessuno ci aveva messo in guardia; anche noi, talvolta, proviamo la sensazione di essere parte di una realtà impalabile, bella e strana, di una trama evanescente, nella quale, però, siamo immersi interamente, e in cui ci giochiamo la nostra vita, le nostre speranze, i nostri sogni. Anche noi, infine, sentiamo che una vita senza sogni è indegna di essere vissuta.

Ha osservato Gianna Chiesa Isnardi (in: «Le letterature della Scandinavia», sulla enciclopedia «Tutto sapere», Edizioni Paoline/Editrice Saie, vol. 2, p. 84):

 

«La perfetta fusione degli elementi romantici e realistici, delle esigenze della fantasia e degli stimoli della quotidianità, si ritrova senza dubbio nell’opera di Hans Christian Andersen che ha lasciato nelle sue “Favole”(“Eventyr”, pubblicate in serie successive a partire dal 1835) il mirabile esempio di una narrazione che, fondendo in perfetto equilibrio la ricchezza dell’immaginazione e la riflessione sulla vita, le tempera con una giusta dose di umorismo distaccato. Scrittore di umili origini che era riuscito a farsi strada grazie alla vivacità del suo ingegno, Andersen aveva tentato la fortuna letteraria anche con altre opere, quali poesie, romanzi, opere teatrali, resoconti di viaggio.

Questi generi però non si confacevano al suo talento, che egli esprime invece pienamente nelle favole: l’accostamento a questo mondo, suggeritogli dalla lettura della raccolta (1812-1822) dei fratelli Jakob e Wilhelm Grimm, doveva produrre frutti copiosi. Andersen infatti si impadronisce dello spirito che anima quei racconti e lo trasferisce nel mondo del reale, il quale appare così al lettore sotto una prospettiva nuova e inattesa, partecipe della vita interiore di ogni uomo. Nelle favole di Andersen non solo gli animali o le piante, ma persino gli oggetti più semplici e quotidiani parlano e agiscono come esseri umani, mostrando di possedere uguale intensità e varietà di sentimento.

Questa concezione, che rende il mondo circostante compartecipe dell’esperienza di ogni uomo e lo anima della sua stessa vita, fa delle favole di Andersen una lettura prediletta dei bambini (ai quali, come specifica il titolo della prima raccolta, esse sono principalmente dedicate). I bambini infatti, come l’autore danese mostra di avere perfettamente compreso, si riconoscono istintivamente nell’universo che li circonda, cercandovi il riflesso di sé. Andersen racconta le favole come i bambini vogliono che esse siano narrate; il suo stile è vivo, quotidiano ma mai banale; le osservazioni, solo apparentemente incidentali, sono dettate da tante esperienze personali, spesso tristi, ma che mostrano i frutti di una profonda riflessione. Le favole di Andersen non sono tuttavia rivolte solo ai bambini. Nel costante, difficile gioco di equilibri tra fantasia e realtà, che proprio grazie a un misurato senso dell’umorismo mantiene la narrazione su un tono uniforme ma mai monotono, Andersen sa offrire anche al lettore adulto un approccio nuovo alla vita. Insegnando a riconoscere nel reale il fantastico e nel fantastico il reale, senza mai eccedere nell’una o nell’altra direzione, egli riesce altresì a proporre, senza cadere in un fastidioso pedagogismo, suggerimenti di intento didattico e sociale.»

 

Andersen ha capito, o semplicemente si è ricordato – ma è la semplicità dei grandi, dei grandissimi – che il bambino ha BISOGNO di sognare, anche in una società materialista, dove tutti corrono dietro alle cose pratiche e al profitto; ma che, per sognare, non sempre gli sono necessari ingredienti esotici e spettacolari, isole tropicali, pirati all’arrembaggio, streghe e incantesimi, principi e regine; ma che gli bastano anche le piccole, semplici cose d’ogni giorno.

Il bambino, infatti – o meglio il bambino posto in condizioni normali: non ancora guastato, cioè, da genitori impazziti di superficialità e da un ambiente sociale ubriacato dal consumismo – non aspira a ricevere giochi costosissimi, ma desidera giocare in condizioni ove possa sfogare pienamente il proprio mondo fantastico; non è avido di storie a tinte forti, piene di mostri spaziali, di astronavi, di guerre stellari, ma di vicende commoventi, entusiasmanti, “vere” quanto alle motivazioni e ai sentimenti dei personaggi , sia che questi ultimi siano fatati oppure no, che scorrazzino per il cielo a bordo di fantastici apparecchi o che vivano nella stessa città e nello stesso quartiere in cui vive lui, apparentemente confusi in mezzo a tutti gli altri; sia che si tratti, infine, di personaggi umani, oppure che siano pesci rossi, bambole, soldatini, o magari… fogli di carta.

Questa è la straordinaria intuizione di Andersen e per questo le sue favole sono diventate dei classici fin da subito, entrando a far parte di quella letteratura che non subisce gli alti e i bassi delle mode culturali, perché affonda le proprie radici nelle profondità dell’anima umana. Questa è la ragione per cui generazioni di europei, e anche di non europei, le hanno amate intensamente da bambini e, diventando adulti, le hanno lette o raccontate ai loro figli, tanto che non sono molte le case in cui manca il volume che le contiene.

Ora, però, le cose stanno cambiando. La causa non è un venir meno della perenne attualità del mondo fantastico di Andersen, ma va ricercata piuttosto in una sorta di mutazione antropologica che, partendo dall’età adulta, si è ripercossa sull’infanzia. Gli adulti della tarda modernità, sazi di consumismo e tuttavia sempre protesi alla ricerca di nuove sensazioni, possibilmente forti, hanno perso l’incanto del mondo e, di riflesso, lo hanno fatto smarrire anche ai loro figli. Hanno smesso di raccontar loro delle fiabe – non solo quelle dello scrittore danese -, hanno smesso di aiutarli a sognare, si sono affrettati a spiegar loro che Babbo Natale non esiste e che nessun angelo scende a dissetarsi, la vigilia del giorno dei morti, approfittando del bicchiere lasciato la sera prima sul tavolo della cucina. In compenso, questi nuovi genitori hanno cominciato a sommergere i loro figli di regali costosi, dapprima meccanizzati, poi di tipo elettronico; e, in questo modo, hanno recato loro un duplice, gravissimo danno: abituandoli a ignorare l’attesa per la realizzazione dei loro desideri, e sostituendo le macchine che giocano ai bambini stessi, come creatori e protagonisti dei propri giochi.

L’abbandono della fiaba è stata anche una conseguenza del venir meno dell’abitudine alla lettura: la lettura che gli adulti facevano ai bambini, ad esempio la sera prima della nanna, ma anche di quella che i bambini incominciano a fare da soli, allorché imparano a leggere e a scrivere. Si tratta di un fenomeno socioculturale  di vasta portata e assai generalizzato, che riguarda anche lo scrivere (chi ha conservato ancora l’abitudine di scrivere delle lettere a mano, a parte le persone anziane?) e che ha a che fare con il dilagare dell’informatica, dei social network e soprattutto della telefonia cellulare; un fenomeno che non è questa la sede né per descrivere, né per analizzarne le cause o prospettarne un possibile superamento.

Sta di fatto che il bambino dei nostri giorni, pur conservando le potenzialità creative e fantastiche che appartengono al suo statuto ontologico, in pratica ne viene espropriato velocemente e inconsapevolmente: gli viene offerta della moneta falsa, ma luccicante, al posto della moneta buona, che lo aiuterebbe a sviluppare le sue facoltà interiori; e ciò vale anche per altri ambiti di queste ultime, primo fra tutti quello della vita spirituale e religiosa. Ai bambini non si insegna più a pregare, a ringraziare, a rivolgere lo sguardo dell’anima verso l’alto; e ciò contribuisce a quell’impoverimento e a quell’inaridimento della sua interiorità, che farà di lui – o, comunque, che potrebbe fare di lui - un adulto miope, materialista, limitato, proteso unicamente alla ricerca del piacere sessuale e del vantaggio economico.

Hanno ancora qualcosa da dire, a questi bambini precocemente invecchiati della tarda modernità, le favole di Hans Christian Andersen? Noi crediamo di sì: perché esse scaturiscono da una dimensione reale della vita interiore del fanciullo e fanno appello a qualcosa che appartiene alla sua natura. Quando le ubriacature della modernità avranno ceduto il passo a una visione più responsabile e matura della vita, fenomeno che si sta già delineando per un numero crescente di persone e di famiglie, ci sarà di nuovo chi leggerà e ascolterà quelle fiabe con cuore vergine, colmo di stupore…