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Quando la Marina italiana progettava l’attacco di New York

di Francesco Lamendola - 13/01/2015

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

Riesce oggi difficile pensare che in pieno 1943, quando già le ombre del tradimento e della disfatta si profilavano minacciose sul nostro Paese, e una intera classe dirigente era pronta ad accogliere a braccia aperte i nemici, chiamandoli “liberatori”, vi erano, nelle nostre Forze Armate, degli uomini che non solo continuavano a fare il loro dovere, sacrificandosi ogni giorno per difendere l’integrità della patria,  ma andavano anche più in là, e, privi di qualsiasi complesso di inferiorità verso gli Alleati e la loro forza industriale e militare soverchiante, progettavano operazioni sempre più audaci, per portare la guerra nella tana stessa dell’avversario.

Perfino dopo che la Sicilia era caduta, invero poco gloriosamente per il nostro esercito, nelle mani delle armate  anglo-americane, e dopo che Badoglio aveva preso il posto di Mussolini come capo del governo, avviando subito, in segreto, trattative di armistizio con il nemico, mentre però i capi dell’esercito e della marina continuavano a esortare ufficiali e soldati a battersi fino all’estremo sacrificio per ricacciare l’invasore, perfino allora c’era chi, dopo le spettacolari e gloriose imprese dei nostri uomini-rana contro la flotta inglese del Mediterraneo, studiava e metteva a punto, anche con una intensa e difficile serie di esercitazioni, obiettivi ancora più lontani e strategici di quanto lo fosse stata Alessandria d’Egitto: Malta, Gibilterra, Freetown sulla costa occidentale africana (base della squadra navale britannica dell’Atlantico Meridionale)  e perfino New York.

L’azione contro New York, presa in esame, a suo tempo, anche dall’aviazione, avrebbe dovuto aver luogo all’inizio di dicembre 1943; la sua ideazione nasceva da un disegno di guerra psicologica, più che per gli effetti materiali che avrebbe causato (che sarebbero stati scarsi o minimi) e la sua preparazione era già in fase piuttosto avanzata allorché, come un fulmine a ciel sereno, annuncio dell’avvenuto armistizio, dato via radio, e non mediante una doverosa comunicazione interna del Comando supremo, o del governo, o del sovrano, gelò quei valorosi e mise la parola fine ai loro audacissimi progetti.

L’operazione avrebbe dovuto svolgersi così: un sommergibile oceanico avrebbe trasportato presso la foce del fiume Hudson un sommergibile d’assalto, e questo sarebbe penetrato nel grande porto americano, per attaccare il naviglio ivi presente e provocare il massimo del disorientamento e della confusione in un nemico che, sicuro di sé e delle proprie inesauribili riserve di uomini e materiali, non aveva mai dovuto affrontare la guerra sul proprio territorio, né mai aveva subito l’esperienza di vedersi aggredito in casa propria (se si eccettua l’occupazione degli isolotti di Attu e Kiska, all’estremità delle Aleutine, in Alaska, da parte dell’esercito giapponese; e senza tener conto degli attacchi portati dai sommergibili tedeschi e italiani, contro le navi e i convogli statunitensi, al largo delle coste atlantiche del Nord America).

Il fatto che, nell’Italia stremata da tre anni di guerra durissima e di privazioni inaudite, vi fossero ancora gli uomini e i materiali per pensare e attuare simili piani di operazione; che vi fossero, cioè, tanto le risorse materiali, sia pure in misura limitatissima, quanto la volontà di proseguire la lotta e di portarla verso il cuore della potenza nemica, suggerisce quali risultati avrebbero potuto ottenere le nostre Forze Armate, sin dal giugno del 1940 - quando la situazione strategica complessiva, in Europa e in Africa, era tanto diversa, e nettamente favorevole all’Asse – se fossero state impiegate con decisione e un briciolo di audacia dai nostri alti comandi, profittando del crollo della Francia e delle gravissime difficoltà in cui versavano l’esercito e la flotta britannici.

In particolare, la mancata occupazione di Malta – che, al principio dell’estate 1940, era pressoché sguarnita – ebbe conseguenze incalcolabili per l’andamento successivo delle operazioni: senza esagerare, si può affermare che da essa ebbe origine la sconfitta finale delle forze italo-tedesche nella campagna del deserto nordafricano, sconfitta che, nell’estate del 1943, aprì le porte della Sicilia, e del’Italia stessa, all’invasione anglo-americana e segnò il destino politico e militare del nostro Paese.

È possibile che, nella decisione di non attaccare né Malta, né alcun altro obiettivo sensibile inglese, nei mesi che vanno dal giugno al dicembre del 1940, quando ebbe inizio la controffensiva inglese di Sidi el Barrani (la cosiddetta Operazione Compasss), che segnò, per noi, la perdita della Cirenaica e la fine delle velleità mussoliniane di condurre una “guerra parallela” alla Germania, ma autonoma rispetto a quest’ultima; è possibile, dicevamo, che, nella sciagurata e incomprensibile decisione di entrare in guerra, senza però volerla combattere sul serio, semplicemente aspettando che il nemico si arrendesse per merito dei successi altrui, vi sia stato non solo un calcolo politico sbagliato, ma qualche cosa di più e di peggio. È possibile, insomma, che, dietro le quinte della diplomazia ufficiale, vi sia stata la richiesta britannica di non passare all’attacco, né in Africa Orientale, né in Libia, né nello scacchiere navale del Mediterraneo, facendo balenare a Mussolini la prospettiva di un tacito consenso all’annessione delle colonie francesi e promettendo che le forze inglesi, a loro volta, non avrebbero attaccato le nostre posizioni, in vista di una pace negoziata da raggiungere in un secondo tempo. Certo delle trattative in tal senso furono aperte dagli Inglesi nello scacchiere dell’Africa Orientale, ove essi erano più vulnerabili (si calcola che avessero qualcosa come 3.000 uomini in tutto il Sudan, contro i 300.000 che avevamo noi in Etiopia); ed è altrettanto certo che il viceré Amedeo di Savoia cadde in pieno nel tranello tesogli dal suo vecchio amico d’infanzia Lord Rennell, quando gli venne proposto di rimanere con le armi al piede in cambio di una neutralizzazione “de facto” dell’Impero, le cui sorti sarebbero state decise solo a guerra finita, al tavolo della pace. La folle decisione di non attaccare il Sudan quando la superiorità italiana era così schiacciante, e, in seguito, di andarsi a rinchiudere nel “ridotto” indifendibile dell’Amba Alagi, si spiega solo così: e non si tratta di elucubrazioni più o meno fantasiose, ma di dati di fatto ormai acclarati, soprattutto per merito di studiosi anticonformisti come Franco Bandini, i quali hanno ricostruito tutti i risvolti di quella “guerra psicologica”, fatta di adescamenti, false promesse e tradimenti da una parte, macroscopiche ingenuità (perlomeno) dall’altra.

Può essere, dunque, che la decisione italiana di non cogliere il momento propizio, nell’estate del 1940, sia stata la conseguenza di queste trame occulte; così come è più che probabile che, in essa, abbia pesato anche la presenza attiva di un partito di traditori, ammiragli e capi politici e militari filo-inglesi, per niente intenzionati a condurre la guerra sul serio e, al contrario, desiderosi di favorire la sconfitta della propria patria, onde provocare un rivolgimento politico e “liberarsi” della dittatura fascista; così come è possibile, se non probabile, che il famoso carteggio segreto fra Churchill e Mussolini, che lo statista inglese si diede poi tanto da fare per recuperare, contenesse materiale estremamente scottante su tale questione. Sta di fatto che, da quell’inizio infelice del 1940, tutti compresero, amici e nemici, che l’Italia era entrata in guerra senza la determinazione necessaria per farla davvero; un ammiraglio della marina giapponese, per esempio, ebbe a dire: «Quando l’Italia dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, noi ci aspettavamo che le sue Forze Armate si impadronissero subito, con una operazione fulminea, di Malta, onde neutralizzare la presenza della flotta inglese del Mediterraneo; e restammo alquanto stupiti nel constatare che nulla del genere ebbe luogo, ma che l’operazione di sbarco, rimandata continuamente, alla fine fu accantonata»; e questo anche quando i bombardamenti aerei dell’Asse e il blocco navale avevano praticamente ridotto a zero le possibilità di difesa della sua modesta guarnigione.

Così, fra ambiguità, tradimenti e oblique trattative sottobanco, si trascinarono le cose per tre anni, mentre i nostri soldati, aviatori e marinai, scrivevano pagine gloriose in tutti i teatri d’operazione, riportando, però, sconfitte cocenti a causa dell’inettitudine degli alti comandi; e mentre il sacrificio di uomini come Carmelo Borg Pisani, un patriota maltese che venne impiccato dagli Inglesi perché aveva lottato per favorire la conquista italiana dell’isola, restava misconosciuto, allora e anche in seguito, in Italia, ben diversamente da quanto era accaduto per Filzi, Battisti e Chiesa durante la prima guerra mondiale. Eppure sembra difficile sostenere che Malta, nel 1940, fosse una terra italiana meno “irredenta” di quanto, nel 1915, lo fossero Trento e Trieste, che non avevano MAI fatto parte della Repubblica di Venezia (mentre Malta aveva fato parte, almeno nominalmente, del Regno delle Due Sicilie). Ciò, a nostro avviso, dimostra che, se gli obiettivi di guerra italiani, nella seconda guerra mondiale, comprendevano il completamento dell’unità nazionale (lo stesso discorso di Malta vale per Nizza, la Savoia, la Corsica e la Dalmazia) e la messa in sicurezza di un’area strategica, i cui capisaldi avrebbero dovuto essere Gibilterra, Suez, le Isole Ionie, Gibuti, Tangeri, essi non vennero però spiegati adeguatamente alla popolazione, non vennero resi “popolari” come lo erano stati quelli del 1915, e ciò, appunto, forse anche perché le nostre classi dirigenti, o una parte significativa di esse – finanzia, industria, diplomazia, esercito – o non credevano alla vittoria, o addirittura non la desideravano, ma si auguravano e perseguivano, per la tutela dei loro particolari interessi e dei loro privilegi, un rovesciamento politico come effetto della sconfitta militare.

È tanto più notevole, dunque, che in un contesto generale così desolato e scoraggiante, in mezzo a tanta inefficienza, viltà e tradimento (si pensi al generale Graziani che era rimasto ad aspettare la controffensiva inglese di Sidi el Barrani, per molte settimane, prudentemente rinchiuso nel suo comando interrato a prova di bomba; oppure a quegli ammiragli che, nell’estate del 1943, consegnarono al nemico prima l’isola di Pantelleria, poi la piazzaforte di Augusta, senza sparare un solo colpo di cannone), vi fossero, fino al’ultimo, uomini come Junio Valerio Borghese, che pensavano a tutt’altro che alla resa, e che si impegnavano anima e corpo per rendere dura l’avanzata al nemico sul suolo della patria. Il fatto che Borghese, dopo l’8 settembre, abbia scelto di aderire, con la sua X Flottiglia Mas, alla Repubblica Sociale, e che abbia partecipato alla repressione del movimento partigiano, ha fatto pesare su di lui un giudizio politico totalmente negativo, nel clima dell’Italia post-bellica, democratica e antifascista, che ha fatto passare sotto silenzio i suoi meriti di combattente e la sua fede nelle sorti della patria, quando il nemico non era la Germania, ma lo schieramento alleato. E questo allorché l’intera cultura “ufficiale” italiana, storiografia compresa, aveva deciso, dopo il 1945, che il popolo italiano e le Forze Armate italiane, fin dal giugno del 1940, non si erano mai identificati con quella guerra; che non ci avevano mai creduto, né mai l’avevamo sentita come legittima; e che solo la guerra antifascista e antitedesca (che per decenni si sono rifiutati di chiamare col suo vero nome di guerra civile), incominciata dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, era stata veramente sentita e realmente meritoria.

Insomma: il cambio di fronte dell’8 settembre divenne una leggenda, la leggenda dell’Italia tradita da Mussolini che ritrovava, con il generoso e disinteressato aiuto dei “liberatori” angloamericani, la propria fierezza e la propria dignità; mentre tutti quei soldati e quei cittadini che non avevano accettato quel cambio di fronte, e avevamo continuato a combattere contro quelli che, fino all’ultimo, lo stesso governo Badoglio, prima di gettare la maschera, aveva chiamato “nemici” ed “invasori”, nella ricostruzione mitizzata di quelle vicende divennero dei disgraziati manutengoli del tedesco occupante, dei biechi sgherri del fascismo in agonia, gente senza onore e senza gloria, combattenti di una causa non solo perduta, ma condannata dal giudizio della storia. Perché se si fosse riconosciuto il loro eroismo, o almeno la loro coerenza, allora sarebbe caduto il mito auto-assolutorio dell’8 settembre e quello auto-celebrativo della Resistenza; sarebbero emerse la realtà della guerra civile, in tutto il suo orrore, e dell’infeudamento volontario alle potenze anglosassoni; e il velo di menzogne e ipocrisie che aveva pudicamente nascosto gli intrallazzi e i tradimenti di una intera classe dirigente, o di una buona parte di essa, sarebbe stato strappato.

Scriveva, dunque, il principe Junio Valerio Borghese nel suo libro di memorie «Decima Flottiglia Mas» (Milano, Garzanti, 1950, 1965, pp. 347-50):

 

«Al comando Flottiglia, ignari di quanto a Roma si andava manovrando [cioè le trattative segrete con gli Alleati che portarono ala firma dell’armistizio di Cassibile del 3 settembre 1943, reso noto alla radio il giorno 8], intensa proseguiva l’attività diretta ad arrecare al nemico il massimo danno. Due motosiluranti da 100 tonn., assegnate alla Decima, in costruzione nei cantieri di Monfalcone, stavano per entrare in servizio; munite dell’attrezzatura idonea al trasporto dei mezzi d’assalto, erano destinate a missioni contro i porti del Mediterraneo orientale, ormai preclusi ai nostri trasportatori di base a La Spezia, essendo lo Stretto di Messina sotto dominio nemico. Per il loro allestimento ed impiego era stata costituita una base della Decima a Venezia, al comando del capitano di corvetta Baffigo; vi erano già affluiti uomini e mezzi, ed era in corso la preparazione di una prima azione. Gruppi di nostri sabotatori navali, compiuto il faticoso tirocinio, erano in viaggio per raggiungere i porti neutrali a cui erano assegnati; alcuni, che già vi si trovavano, stavano organizzando, con ogni cura per non tradire la copertura sotto cui erano celati, le azioni di offesa al traffico navale nemico, in settori in cui questo era stato finora indisturbato. Dopo un anno di prove ed esperienze condotte sul lago d’Iseo dal sottotenente di vascello Massano, ad alcune delle quali avevo partecipato, era stato messo a punto il sommergibile d’assalto, il “CA”, adattandolo alle sue nuove funzioni; contemporaneamente a Bordeaux, ove frattanto il comando della base dei nostri sommergibili atlantici era stato assunto dal capitano di vascello Enzo Grossi, si erano concretizzate le possibilità, da noi sperimentate, di servirsi di un sommergibile oceanico per il trasporto del “CA” in vicinanza della base nemica. Due operazioni erano in preparazione con questo mezzo: un attacco contro New York, risalendo col “CA” l’Hudson fino al cuore della metropoli; l’effetto psicologico sugli americani, che non avevano ancora subito alcuna offesa bellica sul loro territorio, superava di gran lunga, nel nostro proposito, il danno materiale che si sarebbe inflitto (ed il nostro fu, a quanto mi risulta, l’unico piano praticamente realizzabile progettato per portare la guerra negli Stati Uniti. L’altra operazione  prevedeva un attacco contro l’importante piazzaforte inglese di Freetown (Sierra Leone), sede della squadra navale del Sud-Atlantico. Le indubbie difficoltà che tali operazioni a vasto raggio presentavano erano in gran parte compensate dalla completa sorpresa; la comparsa dei mezzi d’assalto della Marina italiana, i quali avevano fino allora limitato la loro azione al settore Mediterraneo, non era certo prevista: misure difensive contro tale inatteso tipo d’attacco non erano presumibilmente in atto. L’azione contro New York, in fase di avanzata preparazione, era stabilita per il mese di dicembre. Imminente era invece un’operazione completamente nuova contro Gibilterra. Tre sommergibili di 11.000 tonn.  Circa, muniti di 4 cilindri pel trasporto dei mezzi, erano stati assegnati alla Decima: “Murena”, “Sparide” e “Grongo”. Dei tre, nuovissimi, il “Murena” era pronto. Pure pronto era il nuovo siluro pilotato, il “SSB”, di caratteristiche notevolmente superiori ai tipi precedenti. Per sconvolgere le difese avversarie, il piano d’azione si discostava totalmente dalle modalità da noi fino allora seguite.  I nostri attacchi si erano sempre svolti di notte, e anzi, nelle notti senza luna, cioè col favore del buio più assoluto. Ebbene: il “Murena” (comandante Longanesi), dalle coste spagnole dello Stretto di Gibilterra, avrebbe, a notte inoltrata, rilasciato 4 barchini esplosivi “MTR” che, risalita silenziosamente la rada di Algesiras tenendosi sotto la costa neutrale, si sarebbero portati sul lato settentrionale della baia. Qui, avvalendosi delle loro minime dimensioni, si dovevano celare fra i canneti esistenti alle foci dei fiumi. Alle 11, in pieno giorno, i barchini sarebbero scattati dai loro nascondigli e, puntando su quattro piroscafi ormeggiati in rada, lo avrebbero decisamente attaccati. L’esperienza ci aveva insegnato che, in conseguenza dell’allarme in rada, L’OSTRUZIONE DELLA PORTA NORD DELLA PIAZZAFORTE DI GIBILTERRA VENIVA APERTA, per permettere a vedette, torpediniere e rimorchiatori di salvataggio di uscire in soccorso alle navi colpite. Un nostri siluro pilotato di nuovo tipo, partito dall’”Olterra” alle otto di mattina, avendo attraversato tutta la rada in immersione (6 miglia – 3 ore) si sarebbe trovato all’imboccatura del porto nel momento in cui le ostruzioni venivano aperte. Sarebbe così entrato nel porto A MEZZOGIORNO e, approfittando del disordine creato dagli avvenimenti della rada e dalla conseguente distrazione della vigilanza interna, avrebbe effettuato l’attacco alla massima nave da guerra presente. La preparazione di questa audace azione era molto avanzata: il tenente pilota Scardamaglia, capo gruppo degli “MTR”, era già fornito del biglietto per l’aereo che il 9 settembre doveva portarlo in Spagna, per fare, dall’”Olterra”, un sopralluogo nella zona dell’operazione; mentre il tenente di vascello Jacobacci ed il sergente palombaro Forni, destinati al forzamento del porto, vi si preparavano da mesi, compiendo col siluro pilotato percorsi in immersione pari e superiori a quello di guerra. L’attacco doveva aver luogo il 2 ottobre. A questi compiti eravamo intenti quando, la sera dell’8 settembre, trovandomi al comando della Flottiglia a La Spezia, apersi la radio per captare il bollettino di guerra; come un fulmine a ciel sereno la notizia dell’avvenuto armistizio piombò sui nostri progetti, sulle nostre attività, sulle nostre speranze. In tal modo io, comandante della X Flottiglia Mas, capo militare di combattenti su tutti i fronti d’Europa, depositario di importanti segreti e di armi nuovissime, responsabile davanti al Re e al popolo delle funzioni militari conferitemi e della vita degli uomini che i erano stati affidati, appresi dalla gracchiante voce della radio (che avrei anche potuto non aprire, come casualmente l’avevo aperta) che il paese, per il quale eravamo in armi e combattevamo, era entrato in stato armistiziale. Nessuno dei miei numerosi superiori diretti o indiretti aveva ritenuto necessario darmene, sia pure riservatamente, preventiva comunicazione. Mi sembrò strano.»

 

Sono pagine che fanno uno strano effetto al lettore dei nostri giorni, abituato, come lo sono ormai tutti gli Italiani, a considerare gli Stati Uniti d’America come il “naturale” e “disinteressato” alleato del nostro Paese, al quale andiamo debitori della nostra liberazione dal fascismo e contro il quale sarebbe follia schierarsi, così come lo fu settant’anni fa, tale è la sua strapotenza e tale la nostra sudditanza psicologica, fatta non solo di sincera ammirazione, ma anche, almeno da parte di molti giornalisti e opinionisti, di vero e proprio servilismo.

Recentemente, alla televisione, un noto storico ha ricordato quale pazzia sia stata l’aver osato sfidare la potenza americana, da parte dei nostri governanti di allora, per misurare la quale, egli ha detto, basterebbe immaginare che l’Italia, oggi, piccola e insignificante com’è, dichiarasse guerra un’altra volta al colosso americano. A quel signore non è venuto in mente che la dignità di un popolo non si misura solo dalla sua prudenza, ma anche dal suo coraggio, magari nell’affrontare un nemico assai superiore e nell’andare incontro a una sconfitta quasi certa, ma cadendo con onore e dando al mondo un esempio di fierezza e di abnegazione. Se le cause giuste si dovessero combattere solo quando, per parafrasare Napoleone, si dispone dei battaglioni più grossi, allora la storia umana non sarebbe che un triste gioco a chi è più svelto nell’offrire i propri omaggi servili alla potenza egemone di turno («che sia Franza o Spagna, purché se magna»).

È questo modo di pensare che ha contrassegnato il comportamento delle nostre classi dirigenti, dall’Unità a oggi, e che ha caratterizzato i loro mille girotondi, intrallazzi, inganni e giochi sporchi, fatti sulla pelle del comune cittadino e del soldato semplice, lasciato all’oscuro di tutto e, anzi, gettato avanti come carne da cannone, in attesa di negoziare, sottobanco, qualche accomodamento con le forze anti-nazionali che hanno sempre voluto l’Italia piccola, debole e impotente. Forze anti-nazionali che sono tutt’ora all’opera, si chiamino esse banche, società multinazionali o governi stranieri, alle quali i nostri politici odierni, da destra a sinistra, e passando per i cosiddetti “tecnici”, sono miseramente infeudati e alle quali sono pronti a consegnare il Paese, come bottino di una guerra silenziosa, combattuta sul terreno della speculazione finanziaria: sempre pronti, a cose fatte, a vantare le loro miserabili benemerenze, per ricevere la “meritata” ricompensa.

Queste riflessioni, è appena il caso di dirlo, non vogliono avere niente di bellicoso, perché, grazie al Cielo, i cittadini di mezzo mondo, specialmente in Europa, hanno ormai ripudiato l’idea che si possano risolvere le controversie internazionali a suon di bombe e d’invasioni militari. Ma il fatto è che tale idea non è stata affatto ripudiata dai padroni occulti della Terra, quei banchieri e quegli industriali che oggi, come nella prima e nella seconda guerra mondiale, puntavano alla distruzione di qualunque forza che fosse potenzialmente capace di opporsi ai loro tenebrosi disegni; solo che il mutato corso delle coscienze li costringe ad agire con una sempre più massiccia dose d’ipocrisia, sicché essi decidono, ancora e sempre, di fare le guerre, ma senza chiamarle tali: chiamandole, anzi, “operazioni di pace” contro qualche dittatura o per la salvaguardia dei diritti umani, e grazie alle quali si aspettano di ricevere le lodi e la riconoscenza universali…