Eutopia
di Franco Cardini - 21/04/2015
Fonte: Eutopia
Sono un europeista convinto, per quanto ben conscio di esser partito col mio europeismo, oltre mezzo secolo fa, col piede sbagliato. Più di cinquant’anni fa ero disperatamente ossessionato dallo 'spirito di Yalta': avevo capito perfettamente che il piano congiunto del presidente Roosevelt e del maresciallo Stalin, alla conferenza che nel febbraio del 1945 aveva dichiarato 'l’Europa liberata', era d’impedire per sempre – quanto meno per il 'per sempre storico', vale a dire per alcuni decenni – qualunque possibile unione politica del continente europeo, che a tale fine era stato diviso in due aree d’influenza.
Avevo d’altronde scarsa stima e scarsa fiducia nel progetto dell’Unione europea occidentale quale si era andato definendo nel triennio 1951-54 e la proposta federalista mi sembrava debole e superficiale, incapsulata comunque in quell’'obbedienza' alla superpotenza occidentale, gli Stati Uniti d’America, che mi apparivano i corresponsabili di quella divisione dell’ecumène in un 'mondo libero' e un 'mondo socialista' tesi entrambi a rendere definitiva la sparizione dell’Europa come prospettiva politica.
Sognavo allora un domani in cui un’Europa unita, libera e forte potesse proporsi come ago della bilancia tra i due blocchi contrapposti; un’Europa comunitaria, in grado di elaborare una via mediana tra capitalismo e socialismo e di gestire in termini equilibrati anche il rapporto con quelli che allora si definivano i 'popoli in via di sviluppo'.
Era una generosa illusione che non teneva in alcun conto delle effettive forze in presenza e della nostalgia per la mancata realizzazione dalla quale non riesco ancora a guarire. Il che è tanto più grave in quanto, com’è noto, la nostalgia di quel che non è mai stato è ben peggiore di quel che bene o male è accaduto.
Da allora, non sono granché migliorato. E oggi dichiaro, a scanso d’equivoci, di aderire per quanto mi riguarda al parere espresso dal collega Gérard Dussouy, professore emerito dell’Università di Bordeaux, nel suo recente libro Contre l’Europe de Bruxelles, fonder un État européen.
In altri termini, condivido l’opinione di Dussouy secondo il quale l’Europa, se vuol continuar a significare qualcosa negli affari e nei destini del mondo, è 'condannata' a superare il quadro nazionale e a respingere le tentazioni 'sovraniste' che, dopo le elezioni europee del 2014, si sono riaffacciate prepotenti.
Cercherò di spiegarmi meglio, partiamo dalle considerazioni dello studioso americano Robert Gilpin, che in War and change in world politics (Cambridge 1981) individua tre cicli che caratterizzano la dinamica della politica internazionale. Anzitutto quello 'degli imperi', conclusosi con i trattati di Westfalia e dei Pirenei del 1648-1659.
Quindi quello 'degli stati-nazione', avviato già nel secolo XVII, maturato e teorizzato alla fine del XVIII con le due grandi 'rivoluzioni nazionali', americana e francese, con le quali la sovranità è passata dalla 'Grazia di Dio alla Volontà della Nazione'; il successivo secolo XIX ha visto l’affermarsi del principio secondo il quale il popolo, cioè la comunità politica, e la 'nazione', cioè la comunità etnoculturale, si univano e avevano il diritto-dovere imprescindibile di unirsi in un solo stato, cioè in un solo apparato istituzionale e amministrativo, fino a coincidere con esso (lo Stato-nazione, lo Stato nazionale). Tale ciclo si è esaurito con le due guerre mondiali, cioè con la Guerra dei Trent’anni 1914-1945.
Infine quello 'delle egemonie', avviato con la vittoria degli statunitensi e dei sovietici nel 1945 e quindi con l’avvio della sfida tra liberismo e collettivismo, è stato in genere oggetto di molti equivoci da parte di osservatori politici, di studiosi e di manipolatori dei media. Tali errori si sono perpetrati nella cosiddetta 'opinione pubblica' mondiale, omologata e appiattita in un dogma ottimistico: la liberazione dal 'Male Assoluto' e quindi l’avvio di un’era in cui le guerre sarebbero progressivamente scomparse.
Sviluppatesi all’inizio del ciclo 'delle egemonie', anche le differenti forme di europeismo – tutte – sono nate vecchie, in ritardo, alimentate per giunta da utopie pacifiste e umanitarie che erano incentrate su un invecchiato determinismo analogico: così com’era accaduto nei processi di unificazione nazionale dell’Ottocento o nel caso specifico degli Stati Uniti d’America, allo stesso modo si pensava che i popoli d’Europa avrebbero trovato la via di una unità che avrebbe al tempo stesso salvaguardato le loro diversità.
L’illusione storicista e umanitaria degli europeismi è presente tanto nell’europeismo mazziniano, in quello giacobino-bonapartista, in quello conservatore e massonico, in quello federalista e antifascista del Manifesto di Ventotene e in quello cattolico e conservatore di Schumann, De Gasperi e Adenauer.
Ma oggi, nessuno di questi europeismi è in grado di rispondere alle esigenze del momento. Quanti hanno fatto di tutto, da quel 9 maggio del 1950 nel quale Robert Schumann annunziò il suo piano per la costituzione della Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio sancita nel trattato di Parigi del 18 aprile 1951, per evitare la nascita di un’effettiva unione politica, hanno avuto fino ad oggi un successo che la situazione attuale non sembra per nulla in grado d’intaccare
Da allora, infatti, la dinamica dei successivi trattati e della successiva fondazione di realtà istituzionali quali Commissione europea, Parlamento europeo e Consiglio d’Europa si è mossa nella prospettiva di un’invasiva attenzione per le faccende finanziarie, economiche e fiscali gestite da una tecnocrazia burocratica che da Bruxelles e da Strasburgo si è rivelata tanto invasiva nel piano del quotidiano quanto inesistente sul piano intellettuale, storico e geopolitico.
La mancanza cronica e sistematica di una politica volta a fondare nei differenti paesi dell’Unione quanto meno le premesse per una scuola europea, creatrice di futuri cittadini, nella quale si insegnassero le linee di un comune passato continentale; l’identificazione della storia europea in un’astratta e grottesca linea ininterrotta della 'civiltà occidentale' dall’antica Grecia alla Modernità; la sostanziale mancanza di articolazione espressa nell’ignoranza della concezione e dell’elaborazione di una cultura europea comune (diciamo pure di un senso identitario europeo) che ha condotto a una vera e propria 'afasia costituzionale', come si è visto quando non si è riusciti a superare l’impasse di un 'preambolo' che introducesse un progetto di costituzione europea: queste le tappe dello stallo di un’Unione europea ormai arrivata a ventotto Stati, ai quali altri magari se ne aggiungeranno, ma tuttavia succube non più tanto della potenza statunitense, che sembra ormai a sua volta consapevole di aver esaurito il suo ruolo, quanto dei 'poteri forti' finanziari ed economici mondiali che non s’identificano né si esauriscono all’interno degli stati, bensì vanno molto al di là di essi riducendo le classi politiche dei singoli Stati europei a loro 'Comitati di Affari'.
E siamo con ciò pervenuti al centro del problema. Dopo il 1945, la vera natura dei tempi che si stavano preparando sfuggì ai politici che, salvo quelli fino da allora impegnati nell’elaborazione, con leggi adeguate, scenari sempre più favorevoli alle varie lobbies, si lasciarono attrarre tutti dal fantasma della Guerra fredda e su questa base pretesero un allineamento antagonistico del mondo senza curarsi né del fatto che la politica statunitense e quella sovietica, anziché opposte, erano in realtà complementari.
Ma qualcuno s’era accorto di qualcosa. Come il presidente Eisenhower che nel 1961, alla vigilia della sua uscita di scena, avrebbe denunziato con forza – inatteso, incompreso, frainteso – il legame intricatissimo e letale di interessi militari, civili, industriali, i gestori del quale stavano già spartendosi il dominio del mondo.
Oggi il loro potere è cresciuto in maniera tanto esponenziale che è evidente quanto i singoli governi siano incapaci di gestire la politica se non in funzione degli interessi lobbistici. La distruzione dei continenti africano e latino-americano, l’impoverimento di massa, il flusso di migranti in Europa: questi sono i mali ai quali l’Unione europea non ha saputo porre rimedio.
L’esperienza di oltre un sessantennio ci ha insegnato che gli stati nazionali 'sovrani' ( la sovranità dei quali lascia molto a desiderare)non sono in grado di gestire né di regolamentare le pressioni delle lobbies, che al parlamento di Bruxelles/Strasburgo ammettono perfino l’aperta attività dei CEO – 'chief executive officers' – ufficialmente stipendiati dal popolo europeo per presentare gli interessi delle rispettive aziende agli europarlamentari, cioè per corromperli.
Occorre quindi cambiare rotta: abbandonando anzitutto con decisione la prospettiva 'sovranista', che ha condotto a una Commissione Europea espressione dei governi degli Stati anziché dei popoli e delle nazioni, e adottare sul serio una politica 'unitarista'. In altri termini, è necessario battere in breccia, superare anzi rinnegare il dogma dello stato-nazione 'sovrano'.
È evidente che gli stati, in quanto appunto apparati di inquadramento istituzionale e amministrativo di società e comunità, non hanno alcun legame intrinseco e naturale con i popoli e le 'nazioni'.
Lo stato-nazione è il risultato dello sviluppo di un’ideologia giacobina divenuta tra Otto e Novecento 'dogma civile', ma che non trova alcun riscontro necessitante né sul piano storico né in quello del diritto internazionale.
Se esistono per esempio una nazione còrsa, una nazione provenzale, una nazione bretone e una nazione, non si vede perché oggi, nel quadro di un’Europa unitaria, a tali nazioni dovrebbe venir ancora negato il diritto di accedere alla creazione di propri istituzioni statali.
Quello che manca all’Europa per potere nel futuro costruire una vera potenza unitaria è un’istituzione normativa e costitutiva comune che ne sia il centro regolatore e propulsore.
Tale autorità potrebbe venir concepita in termini federali, com’è avvenuto per gli United States of America e Los Estados Unitos de Mejico, o in termini confederali, come è avvenuto per la Conféderation Helvétique.
Quest'ultima forma, anzi, sarebbe più adatta a garantire il massimo delle libertà statali e nazionali sulla base però di un principio inderogabile: la rinuncia di parte degli stati costituenti la federazione alla sovranità per quanto riguarda i quattro fondamentali diritti di governo.
D’altronde, uno stato o un’unione di stati, aspirando a quella sovranità che gli è necessaria per vivere, ha bisogno della pienezza dei suoi quattro diritti fondamentali: quello 'di bandiera', cioè di governo; quello 'di toga', cioè di sovranità giurisdizionale e legislativa; quello 'di spada', cioè di organizzazione della difesa; quello 'di moneta', cioè di gestione della sovranità monetaria. Essi vanno assicurati all’istituzione centrale; gli altri - dalla sanità alla sicurezza, dalla politica delle comunicazioni a quella scolastica - possono restare a a quelle periferiche.
Ma oggi, dei quattro pilastri della perfetta società inquadrata in una realtà istituzionale credibile, l’Europa di Bruxelles/Strasburgo - l’Europa della 'falsa partenza', o se volete la falsa Europa che c’inganna da oltre sessant’anni -, ne ha soltanto due, e imperfetti: la 'spada' che però è in mani altrui (Usa-Nato) e la 'moneta', anch’essa in mani altrui (i privati nominati che gestiscono la Banca Centrale Europea).
La 'bandiera' è solo formale (ne è simbolo quella concreta, la bandiera stellata associata allo schilleriano-beethoveniano Inno alla Gioia che manca però di nuove parole adeguate). Quanto alla 'toga', essa è embrionale e priva di strumenti effettivi.
Siamo dunque, realisticamente, all’anno zero. O rinunziamo tout court, sciogliendola, alla falsa, burocratica e macchinosa Europa della quale disponiamo, affrontando un caos di portata e dalle conseguenze imprevedibili; o ripartiamo cominciando con il pretendere la convocazione su base ancora (per l’ultima volta) statale-nazionale di una Costituente europea che fondi e legittimi una realtà nuova, esprimendo un organo di governo federale o confederale effettivo, dotato di reali poteri, in grado d’imporre ai singoli stati di cedergli parte della loro sovranità negli ambiti che ora ho descritti e proceda battendo in breccia il 'sovranismo' nazionale per sostituirlo con un 'comunitarismo' in grado di gestire le diversità e le differenze.
Per tutto ciò, mancano attualmente tutti i presupposti storici: mentre l’alternativa che potrebbe sembrare concreta, l’Unione degli stati nazionali esistenti in una realtà sovrastatale dotata di effettivi poteri – insomma, gli 'Stati Uniti d’Europa'-, è destinata a rimanere ferma all’ultimo orizzonte, continuamente auspicato e mai raggiungibile, dell’Eurolandia.
In età premoderna e protomoderna, i fondamenti d’un’Europa unita esistevano. Le Riforma, la Modernità individualista e capitalista, lo sviluppo degli assolutismi e quindi degli stati nazionali, li hanno polverizzati e distrutti.
Il verificarsi di una serie di 'eventi discontinui' talmente forte da consentirne il riemergere e il ridefinirsi è storicamente inconcepibile allo stato attuale delle cose. Si tratta, appunto, di 'Eutopia'.