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Finanziare ancora gli inquinatori?

di Alberto Castagnola - 14/12/2015

Fonte: Comune info



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di Alberto Castagnola

Cap and Trade, il finanziamento e la compensazione delle emissioni inquinanti negli ultimi anni ha rivelato tutta la sua dannosità ed è sicuramente uno dei meccanismi che rivelerà se si è veramente deciso di cambiare strategia o se i poteri forti sono riusciti ancora una volta a imporre la logica del profitto ad ogni costo.

Per ricostruire la storia di questo errore drammatico seguiamo l’approfondita analisi contenuta nell’ultimo libro di Naomi Klein, uscito in Italia a gennaio di quest’anno. Procediamo per punti, tralasciando tutti gli esempi e i casi paese contenuti in questo testo, al quale però rimandiamo per una ricostruzione approfondita e documentata, che sostiene tutta l’analisi della nota ricercatrice. L’origine della scelta può essere fatta risalire all’amministrazione Clinton, intervenuta nei negoziati per il Trattato internazionale sul clima che sarebbe poi diventato il Protocollo di Kyoto. L’idea iniziale, relativa alla ricostituzione della fascia dell’ozono, pesantemente intaccata da clorofluorocarbonio, i gas liberati dalle bombolette di aerosol e dai refrigeranti contenuti nei frigoriferi, era che i paesi industrializzati avrebbero prima ridotto la produzione entro un tetto prefissato e poi li avrebbero sistematicamente eliminati anno dopo anno. “Paesi in via di sviluppo” e Unione Europea presumevano che i vari governi dei paesi industriali avrebbero varato severe normative nazionali per ridurre le emissioni, tassando il carbonio e incentivando il passaggio all’energia da fonti rinnovabili. Ma la nuova amministrazione propose una strategia alternativa, cioè di creare un sistema del commercio internazionale del carbonio che imitava il mercato del cap and trade che era stato utilizzato in passato contro le piogge acide. Ciò comportava che venissero concessi dei permessi per continuare ad inquinare, che potevano essere utilizzati o venduti, o addirittura comprati in modo da poter inquinare di più. Tutti i progetti finalizzati a tenere il carbonio lontano dall’atmosfera, magari piantando alberi che lo assorbissero o producendo energie a bassa emissione di carbonio, oppure modernizzando una fabbrica per ridurne le emissioni, potevano ottenere dei “crediti di carbonio” .

Il governo statunitense si mostrò entusiasta da tale approccio, mentre l’ex ministro dell’ambiente francese, Voynet, lo descriveva come un “conflitto radicalmente antagonistico” tra Usa ed Europa, che dal canto suo considerava la creazione di un mercato globale del carbonio equivalente ad abbandonare la crisi climatica alla “legge della giungla”, e la Merkel, all’epoca ministro dell’ambiente tedesco, insisteva nel dire che “lo scopo delle nazioni industrializzate non può essere quello di rispettare i propri obblighi solo tramite il profitto e il mercato delle emissioni”.

In una seconda fase, tuttavia, gli Stati Uniti non ratificarono l’accordo di Kyoto, mentre l’Europa divenne il più importante mercato delle emissioni, adottando nel 2005 il Sistema europeo di scambio quote di emissioni.

All’inizio i mercati parvero decollare: tra il 2005 e il 2010 la banca Mondiale stimo che i vari mercati del carbonio creassero oltre 500 miliardi di dollari di fatturato, mentre i progetti per generare crediti di carbonio nel 2014 erano oltre 7000. Poi cominciarono ad emergere gli effetti negativi del sistema. In primo luogo, qualunque progetto industriale, anche strampalato, poteva generare crediti lucrativi, e qui la Klein ricorda che le imprese petrolifere della Nigeria hanno chiesto di essere ricompensate per aver interrotto la pratica di incendiare il gas naturale che accompagnava la fuoriuscita del petrolio, pur essendo questa pratica illegale nel paese dal 1984. Ricorda anche le fabbriche cinesi di refrigeranti, che emettono come sottoprodotto il trifluorometano, potentissimo gas serra. In pratica il sistema è talmente lucrativo che ha dato luogo a degli incentivi perversi, cioè diventava più profittevole distruggere un sottoprodotto che continuare a fabbricate il prodotto principale, peraltro fortemente inquinante! In sostanza, la possibilità di ricevere soldi presentando progetti che regolano la quantità di una sostanza invisibile tende ad essere una sorta di calamita per truffe.

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D’altro canto, molti paesi agricoli sono rimasti vittime di rapine e truffe, spesso giocando sull’isolamento degli indigeni, i cui territori, specie se coperti di foreste, possono essere classificati come “opere di compensazione”, purché li cedano a imprese (talvolta inesistenti) che li fanno riconoscere come oggetti di “crediti di carbonio”. Purtroppo gli esempi riportati dalla Klein sono molto numerosi, e comprendono anche esempi di organizzazioni che si presentano come ambientaliste e che invece talvolta arrivano perfino ad espropriare o a sfruttare le popolazioni locali e quindi il meccanismo ha di fatto creato una nuova categoria di violazioni dei diritti umani. Scrive Naomi Klein:

“È molto più facile strappare una zona di foresta a gente politicamente debole in un paese povero, che fermare i potenti inquinatori dei paesi ricchi”.

E aggiunge:

“Un’ulteriore ironia è rappresentata dal fatto che molte delle persone sacrificate in nome del mercato del carbonio conducono le esistenze più sostenibili del pianeta. Hanno un legame forte e reciproco con la natura, attingono agli ecosistemi locali su scala ridotta, e curano e rigenerano la terra, in modo che continui a fornire sostentamento a loro e ai loro discendenti”.

E conclude:

“Il problema è che, adottando questo modello di finanziamento, anche i progetti verdi migliori sono resi inefficaci in risposta al problema del clima, perché per ogni tonnellata di anidride carbonica che viene tenuta lontana dall’atmosfera, un’azienda del mondo industrializzato è libera di pomparvene un’altra tonnellata, utilizzando una di queste aree di compensazione come pretesto per affermare di aver neutralizzato l’inquinamento. Un passo avanti, uno indietro. Nel migliore dei casi si finisce per correre sul posto. E, come vedremo, ci sono altri modi, molto più efficaci del mercato del carbonio, per finanziare lo sviluppo ambientale”.

Del resto secondo Oscar Reyes, esperto di finanza del clima dell’Institute for Policy Studies, “Le deboli regolazioni delle emissioni e la regressione economica delle nazioni ricche hanno causato il crollo del 99 per cento dei crediti di carbonio tra il 2008 e il 2013”. Il testo della Klein si spinge ancora più avanti:

“Ma se il cambiamento climatico comporta rischi pari a quelli di una guerra nucleare, allora perché non reagiamo con la serietà che un tale paragone implicherebbe? Perché non ordiniamo alle aziende di smetterla di mettere a rischio il nostro futuro, invece di corromperle e cercare di convincerle?”.

Nel 2013, una rete di 130 gruppi di giustizia ambientale ed economica hanno affermato che il sistema europeo, l’Ets,“non ha ridotto le emissioni di gas serra… I peggiori inquinatori non hanno dovuto sottostare a quasi nessun obbligo di ridurre l’inquinamento. Anzi, le opere di compensazione sono sfociate in un aumento delle emissioni in tutto il mondo: perfino le fonti più conservative stimano che tra un terzo e due terzi dei crediti di carbonio acquistati nell’ambito dell’Ets non rappresentino reali riduzioni delle emissioni di carbonio”.

Dopo questa rapida sintesi dell’analisi della Klein, che merita di essere studiata nella sua interezza, possiamo richiamare le valutazioni di altri esperti. Ad esempio, il tema è trattato nell’importante pubblicazione del Wuppertal Institut, “Futuro Sostenibile”, in un riquadro intitolato “Insuccesso del Clean Development Mechanism (Cdm)”. Riportiamo l’intero testo, che perviene alle medesime conclusioni, anche se in modo molto meno documentato:

”Grazie al Meccanismo per lo sviluppo pulito (Cdm) del protocollo di Kyoto, i paesi industrializzati possono finanziare le riduzioni delle emissioni nei paesi del Sud del mondo e detrarle dai loro obiettivi di emissioni fissati a Kyoto. In questo modo i paesi del Nord possono profittare di un potenziale di riduzione a basso costo in altri Stati. Contemporaneamente verrebbe incentivata la diffusione di tecnologie più pulite nei paesi del Sud. Nella sua forma attuale il Cdm non si è dimostrato uno strumento particolarmente efficace. Fino al Primo aprile 2008 sono stati registrati nell’ambito del Cdm 978 progetti e 319 hanno ricevuto i loro crediti di emissioni, i Certified Emissions Reductions (Cers); altri 188 progetti hanno fatto domanda per la registrazione e altri 2022 sono in attesa di convalida, ovvero dell’ultimo passaggio prima della registrazione definitiva. La maggior parte dei certificati, però, può essere ottenuta con semplici progetti per ridurre gli idrofluorocarburi (Hfc23), e il meccanismo è troppo complesso per progetti più piccoli. In larga misura i processi non raggiungono l’obiettivo dello sviluppo sostenibile. Oltre a questi errori strutturali, il Cdm è insufficiente anche perché nella migliore delle ipotesi è in grado di generare finanziamenti solo di centinaia di milioni di dollari dall’economia privata e non di diecine di miliardi come invece sarebbe necessario. Inoltre siamo di fronte a un forte squilibrio geografico, con solo il 3 per cento degli investimenti che finiscono in Africa: tre quarti di tutti i progetti confluiscono in India, Brasile, Cina e Messico.
Non da ultimo occorre ricordare che le riduzioni previste nel Cdm permettono ai paesi industrializzati di produrre maggiori emissioni. Il vantaggio netto per il clima è così pari a zero. Numerosi studi hanno inoltre sollevato forti dubbi sul fatto che la riduzione delle emissioni nel Cdm corrisponda davvero al numero di crediti di emissioni emessi. In altre parole. A Nord si emette molto di più di quanto si riduce al Sud. Quindi, le emissioni globali complessive sono molto più elevate di quelle che si raggiungerebbero se il Cdm non fosse mai esistito”.

Nel testo gli autori aggiungono, per maggior chiarezza:

“Perché possa davvero promuovere il rapido cambiamento tecnologico nel Sud, il fondo Cdm non deve solo essere provvisto di risorse finanziarie adeguate, ma deve anche avere regole fisse per l’assegnazione del denaro. Non si può pensare di potenziare le tecnologie dei combustibili fossili, al contrario bisogna promuovere esclusivamente le energie rinnovabili e l’efficienza energetica. L’obiettivo deve essere di sostituire i combustibili fossili, non di aumentare l’offerta di energia. Quindi, anche il finanziamento di miglioramenti delle tecnologie del carbone (carbone pulito) non è la soluzione giusta”.

Un’altra fonte, compresa nel rapporto al Club di Roma del 2014 intitolato “Natura in bancarotta”, formula una valutazione più politica. L’autore, Anders Wijkman, sostiene infatti, nel paragrafo intitolato “Emission trading” (Il commercio delle emissioni), che riportiamo integralmente:

“Un’altro esempio della forza della visione a breve termine e della volontà di preservare gli interessi del settore industriale riguarda la proposta di revisione della direttiva sul sistema di scambio delle emissioni del 2008. I costi che le industrie energivore sostenevano di dover affrontare erano incredibili. La minaccia della “delocalizzazione del carbonio” – le industrie avrebbero cioè trasferito i loro impianti fuori dall’Europa – fu usata contro qualunque proposta di emission trading. In realtà, le industrie che stavano seriamente pensando di delocalizzare erano davvero poche e tuttavia, al termine dei negoziati, i punti essenziali della direttiva erano stati ampiamente annacquati. Le utility sarebbero state soggette alla nuova regolamentazione, più rigorosa (compresa la vendita all’asta delle quote di emissione), solo dal 2013, ma ad alcune aziende vennero concessi dei periodi di transizione irragionevolmente lunghi. Risultato: la direttiva nella sua forma originale entrerà pienamente in vigore solo a partire 2027! Ancora una volta, la maggioranza dei cristiano-democratici – assieme a una parte sostanziale dei socialisti e dei liberali – si è opposta alla direttiva e ha guidato gli sforzi per indebolirla. La volontà e la disponibilità dei partiti politici più importanti di ripensare a questi argomenti sono estremamente ridotte. Prevalgono le considerazioni (e le preoccupazioni) di breve periodo. Uno dei vantaggi della Svezia e dell’Europa rispetto agli Stati Uniti è che il ruolo politico del denaro è più limitato. I partiti rispondono meno a interessi economici. Nel contempo, però, non va sottovalutato il ruolo della deregolamentazione dei mercati finanziari. Rispetto al passato, oggi la politica ha dei margini di manovra molto più ristretti. La risposta delle Borse a una particolare decisione pesa di più di qualunque editoriale su un giornale o dell’opinione pubblica”.

Dall’insieme di queste valutazioni, formulate anche da angolature differenti, si evince con molta chiarezza che nel recente passato hanno prevalso delle imprese anche inquinanti dei paesi industrializzati, che sono riuscite ad imporre dei meccanismi che sotto le apparenze ecologiche nascondevano per l’ennesima volta la priorità attribuita al profitto a breve termine rispetto alle esigenze sistemi del riscaldamento globale. Oggi le prospettive sembrano essere diverse, non fosse altro che per l’interesse “dichiarato” da molte imprese multinazionali (escluse quelle petrolifere) verso una qualche strategia di contenimento del riscaldamento globale. In realtà il dibattito a Parigi non sembra essere orientato alla definizione vincolante di un quadro di misure molto radicali e fino all’inizio del prossimo anno sarà difficile avere una idea chiara del futuro del pianeta. In ogni caso è evidente che il tema del commercio delle emissioni dovrebbe essere completamente abbandonato e si dovrebbero predisporre delle norme molto cogenti per ridurre le emissioni, in tutti i paesi e da qualunque fonte, mentre i paesi del Sud dovrebbero vedere garantito il diritto di disporre delle tecnologie necessarie per promuovere una evoluzione non dannosa per il pianeta. Dovrebbero essere dei meccanismi tra loro ben distinti, sui quali le spinte della ricerca del profitto e anche quelle di una economia verde ma sempre capitalistica dovrebbero essere ridotte al minimo, se non addirittura essere escluse. Le soluzioni indicate per questo tema costituiranno in ogni caso un indicatore prezioso per una corretta valutazione delle trattative di Parigi e delle loro eventuali estensioni.

 

Testi utilizzati
Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà, perché il capitalismo non è sostenibile, Rizzoli, Milano, gennaio 2015, pag.296-313
Wuppertal Institute, Futuro sostenibile, a cura di W. Sachs e M. Morosini, Edizioni Ambiente, Milano, maggio 2011, pag. 314-315
J. Rockstrom e A.Wijkman, Natura in bancarotta, perché rispettare i confini del pianeta, Edizioni Ambiente, Milano, marzo 2014, pag. 46-47