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Le donne soldato israeliane

di Christiane Passevant e Larry Portis - 01/12/2006


 
 
   

Nuovi film sulle conseguenze sociali dell’occupazione militare

Il movimento dei cosiddetti “refusnik” è una delle poche cose incoraggianti a venir fuori dal conflitto tra Israele e Palestina. Visto il supporto incondizionato dei governi occidentali ad uno stato ebreo fondamentalista, in primis i miliardi di dollari di finanziamenti da parte degli Stati Uniti, che vengono usati nel progetto sionista votato alla pulizia etnica della Palestina occupata, il crescente rifiuto di molti israeliani di far parte di questa mostruosità merita di essere messo in evidenza. Sì, ci sono israeliani anti-sionisti, sono quelli che capiscono che soltanto adattandosi a ciò che fisicamente li circonda possono creare le condizioni future per la pace e l’armonia con gli “arabi” in Medio Oriente.

Gli israeliani che hanno aperto gli occhi sono numerosi e sanno che l’elemento più prezioso della tanto vantata eredità occidentale sono le secolari e democratiche istituzioni che assicurano l’uguaglianza dei diritti umani per tutti i cittadini. In Israele queste istituzioni e condizioni non sono mai esistite. In loro vece, la discriminazione etnica, il razzismo e l’ostentatazione religiosa che permeano le istituzioni politiche dello stato d’Israele e della sua società sono state perpetuate mantenendo un perenne stato di guerra. E’ una situazione molto utile nel perseguire gli obiettivi strategici ed economici degli Stati Uniti e necessaria al continuo dominio di certe élite israeliane. Nonostante la propaganda ufficiale circa la “sicurezza”, la protezione degli ebrei israeliani non è molto alta nella lista delle priorità del governo.


Sono stati girati due film, che raccomandiamo, su donne che si oppongono a queste condizioni. Close to Home (Vicino a casa) (2005, 90 min.), diretto da Vidi Bilu e Dalia Hager, e The Substitute (Il sostituto), diretto da Talya Lavie (un film di 19 minuti che di recente ha ricevuto il premio della giuria per il miglior cortometraggio al 28° Film Festival Mediterraneo di Montpellier, in Francia), svelano l’esperienza di donne soldato israeliane durante il servizio militare obbligatorio. I tre registi ci offrono uno sguardo dietro le quinte di quel mondo gerarchico e maschilista che si chiama esercito israeliano.

Il servizio militare in Israele, dato che deve essere svolto nei territori occupati della Palestina, non è cosa eroica come ci vorrebbe far credere la propaganda, ma spesso porta alla repressione e alla violenza sia sul piano politico sia su quello personale.

Il servizio militare inizia a 18 anni. Per gli uomini dura tre anni, per le donne due.

Close to Home comincia con una scena ad un posto di blocco militare, del tipo che i viaggiatori imparano a conoscere quando arrivano all’aeroporto di Tel Aviv. Immediatamente vediamo che la perquisizione di prassi dei palestinesi presto si trasforma in una specie di punizione collettiva, perlopiù eseguita da giovanissime donne soldato alle prime armi. Questo è quanto chiunque sia stato in Israele o in Palestina con l’intento di osservare le condizioni di vita e che non abbia il “profilo giusto” può sottoscrivere.

Perquisizioni arbitrarie ed abusive disumanizzano chi è coinvolto, i palestinesi ovviamente, ma anche i soldati che le attuano e che loro malgrado debbono rimanere impassibili, insensibili alla paura, all’esasperazione, all’odio e al disprezzo generati dal loro bisogno di “obbedire agli ordini”.

Close to Home apre con una ribellione ad un posto di blocco di confine, un episodio d’eccezione, in cui una soldatessa rifiuta la crudeltà su degli innocenti che il suo dovere le imporrebbe. Addirittura dice alla gente in attesa di essere perquisita di passare tranquillamente. Il soggetto del film è quindi questo: quali sono le condizioni in cui queste donne lavorano, e cosa succede quando le rifiutano? La violenza e la tensione che questo comportamento provoca dà l’impronta al resto del film.

Seguiamo poi due altre donne soldatesse, Smadar e Mirit, mentre pattugliano Gerusalemme ovest alla ricerca di figuri sospetti e di potenziali terroristi. Le personalità e i caratteri delle due giovani sono molto diversi, e ciò che vediamo nel film è come vengono trasformate dal lavoro che fanno.

Smadar, dapprima la più indifferente alla disciplina militare, diventa progressivamente più repressiva, mentre Mirit, inizialmente più conformista e rispettosa dell’autorità, arriva ad interrogarsi sul sistema di dominio a cui partecipano.

Realizzare un film di questo tipo in Israele è di per sé difficile e coraggioso. Abbiamo avuto modo di intervistare Vidi Bilu (nella foto sotto a sinistra) e Dalia Hager. (nella foto sotto a destra)

Christiane Passevant: Cosa vi ha spinto a scegliere questo soggetto per il vostro film?

Vidi Bilu: Viviamo in Israele, in una società militarizzata da quasi sessant’anni. Nessuno aveva ancora fatto un film sul servizio militare obbligatorio delle donne, e mi pare che in genere la gente sia inconsapevole di questa realtà finché non li tocca. Noi due abbiamo prestato il nostro servizio militare ed è stato parlandone che abbiamo deciso di realizzarlo.

Dalia Hager: Quasi ogni donna in Israele presta servizio militare tra i 18 e i 20 anni.

CP: Avevo l’impressione che le giovani israeliane svolgessero il loro servizio militare in uffici, ma i vostri protagonisti, Smadar e Mirit, sono in mezzo alla popolazione, alla ricerca di potenziali terroristi, fermano gente per strada, a posti di blocco, su autobus.

Vidi Bilu: E’ vero. Per il 70% delle donne il servizio militare vuole dire lavoro d’ufficio, ma l’avvento del femminismo ha significato che le donne si trovano a lavorare in situazioni violente pari a quelle incontrate dagli uomini. Da un punto di vista femminista, infatti, è difficile esigere un tipo di lavoro equiparabile per le donne.

CP: L’ufficiale che comanda le pattuglie femminili è molto severa e mascolina nel suo comportamento. E’ un riflesso della gerarchia militare?

Dalia Hager: Questo è un esempio tipico. Le donne che addestrano nuove reclute si comportano da uomini. Tuttavia abbiamo tentato di mettere in luce la sua parte più umana, come quando la sorprendiamo a baciare il suo ragazzo. Nel suo lavoro fa solo quello che l’esercito si aspetta da lei.

CP: La vediamo anche alla presenza del comandante durante un’ispezione, e il suo tono è ossequioso nei suoi confronti.

Vidi Bilu: Abbiamo voluto sottolineare anche questo lato. Il suo comportamento è determinato dalle aspettative maschili. Quando l’ufficiale arriva nel suo territorio lei sembra più comprensiva, ma appena se ne va diventa più autoritaria. Lo imita.

Larry Portis: Sostanzialmente il film riguarda la violenza e la sottomissione all’autorità?

Dalia Hager: Certamente riguarda la violenza, che per le strade è dappertutto. Ma riguarda anche la violenza repressa che esplode in superficie.

Vidi Bilu: Essenzialmente il film parla di violenza e sottomissione, anche se questo fenomeno non è soltanto limitato alla società israeliana.

CP: Pensate che l’obbligatorietà del servizio militare rafforzi la violenza in tutta la società e, più specificatamente, tra uomini e donne?

Dalia Hager: Sì. E per quanto riguarda le differenze tra i sessi, ci sono donne che hanno dovuto lottare per ottenere l’uguaglianza sotto le armi. Personalmente non la penso così perché l’esercito è per propria natura un’istituzione maschile. Pretendere l’uguaglianza in un sistema repressivo sembra in qualche modo contrario alle aspirazioni femministe.

Vidi Bilu: Nella società israeliana attuale le donne sono forti, per cui è difficile dire che gli uomini controllano le donne, anche se non è vero in tutti i casi. Le donne sono sempre più consapevoli e questo non ha niente a che fare con il servizio militare.

CP: L’uguaglianza sessuale è protetta dalla legge?

Vidi Bilu: Più di quanto lo fosse, ma c’è ancora molto da fare. Gli uomini sono un problema.

CP: L’occupazione (dei territori palestinesi) provoca tensioni sociali in Israele per cui la militarizzazione è sia causa che effetto?

Dalia Hager: Sì, è così. Tutto sembra normale anche se la violenza può esplodere da un momento all’altro. L’occupazione accresce la tensione. Puoi percepirlo anche solo camminando per strada.

CP: Le protagoniste del film, Smadar e Mirit, hanno personalità opposte che poco per volta si trasformano.

Vidi Bilu: Volevamo mostrare come le personalità si azzerino in un sistema rigido. Smadar, la ribelle, dapprima si rifiuta di allinearsi ma alla fine diventa l’incarnazione del sistema stesso. Infatti il film non si occupa di veri ribelli, come la donna delle sequenze iniziali che apertamente si rifiuta di eseguire gli ordini di perquisizione delle donne palestinesi al posto di blocco. Per noi è lei la vera eroina, e per questo eccezionale. Ciò che abbiamo cercato di fare è mostrare come persone normali vengono catturate dal sistema.

CP: La violenza raggiunge il culmine alla fine del film, quando un personaggio si rifiuta di mostrare i documenti e Smadar diventa molto aggressiva. Alcuni passanti vengono coinvolti nella scena e l’uomo è quasi linciato, nonostante Smadar cerchi di calmarli. Il film termina con lo sfumare dell’immagine, mentre si sentono i concitati rumori che accompagnano questa scena ormai fuori controllo.

Vidi Bilu: Smadar era diventata lei stessa il sistema, e la situazione era fuori controllo. Sfoga sull’uomo le frustrazioni accumulate. Mostrare uno schermo nero mentre la colonna sonora trasmette i rumori della violenza in corso, è inteso drammatizzare l’atmosfera di impotenza che si è creata.

Christiane Passevant e Larry Portis hanno pubblicato La main de fer en Palestine: histoire et actualité de la lutte dans les territoires occupée (1992). Christiane sta ora preparando il libro Dissident Women in the Middle East. Possono essere raggiunti a larry.portis@univ-montp3.fr

Christiane Passevant e Larry Portis
Fonte: http://www.counterpunch.org
Link: http://www.counterpunch.org/portis11252006.html
25/26.11.2006

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GIANNI ELLENA