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La tassonomia del disastro

di Giuseppe Lingetti - 15/07/2022

La tassonomia del disastro

Fonte: Jacobin Italia

L'Ue ha scelto di considerare fonte «green» il gas fossile e persino il nucleare. Ma un modello produttivo eco-compatibile va ben oltre le risorse energetiche

Lo scorso 6 Luglio il Parlamento europeo ha bocciato la mozione per l’esclusione di nucleare e gas fossile dalla Tassonomia Verde Europea, dopo che l’inclusione era stata proposta dalla Commissione Europea il 9 Marzo su spinta di una parte dei paesi membri.

Fridays For Future ed Extinction Rebellion per mesi si son mobilitati contro l’inclusione, e negli ultimi quattro anni in tutto il mondo hanno mobilitato milioni di giovani contro il breakdown ambientale con scioperi, manifestazioni e azioni dirette. Questa sconfitta segna uno spartiacque: per la prima volta in Europa si va oltre la semplice «misura insufficiente» riconoscendo esplicitamente come «sostenibile» una fonte fossile,  aprendo di conseguenza al finanziamento Ue come fonte «green». Vi è poi il riconoscimento di una tecnologia controversa come la fissione nucleare, poco applicabile e flessibile per la transizione energetica visti i tempi brevi in gioco.

Questo voto nel complesso segnala un restringimento di spazio di manovra istituzionale per il movimento ambientalista, una porta in faccia che esplicita una drastica riduzione delle probabilità di avanzamenti graduali nei palazzi della politica. Tutto ciò avviene in un momento molto particolare per il movimento, data l’impasse causata dalla pandemia e da limiti strutturali, nonostante la grande generosità e crescita dimostrata in pochi anni. Quindi viene da chiedersi quali scenari e opzioni strategiche si profilino per il futuro, visto anche il poco tempo rimasto prima del punto di non-ritorno. Il breakdown ambientale difatti si sta manifestando velocemente con sempre più violenza, tra siccità, ghiacciai secolari che collassano e incendi, soltanto per citare alcuni esempi. Data la molteplicità di aspetti, occorre affrontare la natura del problema tenendo conto di tutta la sua complessità politica e tecnico-scientifica, a partire dalle fonti contestate dal movimento ecologista.

Il gas fossile… della transizione fuori dal fossile

Se si assume di voler agire solamente cambiando il tipo di fonti energetiche – lasciando inalterate le fondamenta del sistema economico e produttivo – ci si imbatte immediatamente in problemi tecnici enormi. Non intaccare le fondamenta del capitalismo implica non mettere in discussione le contraddizioni del mercato e il primato della massimizzazione del profitto su tutto, inclusa la compatibilità ecologica. Ciò implica il dover produrre molta più energia di quella che ci servirebbe per non far mancare luce e produzione di beni, oltre che la continuità dei servizi. Ma le fonti rinnovabili hanno problemi di potenza energetica se paragonate con il fossile e il nucleare e molte possono essere soggette a intermittenza. Il nucleare e il gas naturale sono proposti proprio per affrontare queste insufficienze tecniche senza intaccare le inefficienze strutturali del capitalismo, con il gas da utilizzarsi solo nella fase di transizione. Per quanto riguarda quest’ultimo, la tesi della sua presunta «sostenibilità» si basa sulle minori emissioni di anidride carbonica se si confronta con la combustione di petrolio o carbone. Ci sono però delle enormi problematiche che vengono fortemente sottovalutate, da cui derivano tutte le polemiche sull’argomento.

Per quanto riguarda la transitorietà del gas c’è una contraddizione con i tempi in gioco, dato che si tratterebbe di costruire un’infrastruttura da smantellare a sua volta in tempi abbastanza brevi. Viene spontaneo chiedersi se i produttori di gas siano disposti a dismettere gli impianti prima della conclusione del loro tempo di esercizio e dell’ammortamento dell’investimento. Dato che si parla di decine di anni, e vista anche la sete di profitto di chi ci investe, i movimenti ecologisti giustamente sostengono che la proposta del gas fossile «transitorio» sia un subdolo tentativo di far sopravvivere l’industria fossile.

Per ciò che concerne invece la presunta «sostenibilità» del gas fossile la contestazione riguarda la filiera nel complesso. Difatti se si considera l’estrazione e il trasporto la stima dell’impatto cresce drammaticamente. Su questo problema sempre più studi scientifici sostengono che il gas sia impattante almeno quanto le altre fonti fossili o anche in misura largamente maggiore. Il problema principale è che anche la dispersione di gas fossile nell’ambiente è climalterante, in misura stimabile dall’ordine delle decine al centinaio di volte maggiore rispetto all’anidride carbonica: persino nello scenario più ottimista la presunta «sostenibilità» perde totalmente di credibilità.

Continuare a proporre il gas fossile (e il nucleare) implica anche andare in direzione contraria rispetto al decentramento produttivo – che è invece implementabile nel caso delle rinnovabili – impedendo quindi l’abbattimento dello spreco dato da trasporto e perdite strutturali sulle reti di distribuzione, oltre che una democratizzazione della produzione.

A tutto ciò si aggiungono poi tutte le problematiche geopolitiche saltate alla ribalta con l’aumento delle tensioni con la Russia, ma che si porrebbero comunque anche se non fosse coinvolto il regime di Putin vista la mole di giacimenti di gas in mano a regimi autoritari.

In Italia e in Europa ci sono enormi investimenti sul gas fossile e sull’espansione del suo utilizzo, da cui deriva una pressione lobbistica sulla politica. Inoltre l’aumento delle temperature stesso sta rendendo gradualmente accessibili nuovi giacimenti, portando a una conseguente spinta delle aziende dell’energia per il loro sfruttamento e il mantenimento dell’economia fossile.

Il nucleare è (quasi) per sempre

Per quanto riguarda la fissione nucleare, invece, la questione della «sostenibilità» è molto più complessa. Sicuramente questa fonte ha un impatto carbonico più basso rispetto al fossile, perciò non è un caso che stia trovando nuovi consensi. Però non si può sostenere che abbia emissioni di CO2 nulle o paragonabile alle rinnovabili, poiché – considerando anche l’estrazione del combustibile e la messa a regime di un reattore – si calcola un impatto stimabile nell’ordine del centinaio di grammi di CO2 per kilowattora, rispetto alla decina per eolico e solare. E proprio in relazione al combustibile c’è anche il grande problema di un 10% stimato di tasso di mortalità tra i minatori di uranio.

Solitamente la prima preoccupazione che emerge riguardo il nucleare è relativa alla sua sicurezza, visto il forte impatto di incidenti gravi come Chernobyl, Fukushima e Three Miles Island. Tra tutte le centrali costruite finora l’1,5% ha subito una fusione più o meno parziale del reattore, un numero non proprio basso se si considera la gravità del tipo di incidente. Tra gli anni Cinquanta e Ottanta, ovvero la fase di maggior sviluppo del nucleare, si sono verificati oltre un centinaio di incidenti, di cui venti gravi, la gran parte dei quali in paesi in via di sviluppo. Il problema di questi dati è che ci dicono poco, poiché la stima di morti e malati permanenti presenta incertezze enormi e in alcuni casi non ci sono numeri ufficiali. Per quanto riguarda Chernobyl si va da 4.000 a 9.000 vittime per le stime più ottimistiche, dalle 30.000 alle 60.000 se si considera lo studio Torch (The Other Report on CHernobyl) commissionato dai Verdi europei nel 2006. I dati che abbiamo sono insufficienti per trarre conclusioni e probabilmente è impossibile arrivare a un dato veramente affidabile. 

Per quanto possa sembrare più cinico, un metro di impatto più utilizzabile e certo per i disastri nucleari è quello dei costi: per Chernobyl si parla di circa 700 miliardi di dollari dal 1986 a oggi – e continuerà a salire finché ci sarà bisogno di mantenere il celebre sarcofago di contenimento – mentre per Fukushima si stimano 76 miliardi di dollari solo per il decomissioning

Per quanto bassa la probabilità di disastro e per quanto ulteriormente riducibile con la ricerca, l’impatto che il singolo evento può assumere rende la questione ineludibile. Come dimostra il caso di Chernobyl è inoltre di grande rilevanza l’intreccio di questa problematica con la corruzione, l’inefficienza dell’amministrazione e quanto il rischio salga per paesi con meno risorse.

Sulla carta mantenere un livello di sicurezza nucleare adeguato è tecnicamente possibile e testato, ma la complessità della tecnologia rende i reattori nucleari obiettivi sensibili in caso di catastrofi inaspettate come terremoti, tsunami, guerre e attacchi terroristici, come anche dimostrato dal caso della guerra in Ucraina e dallo stesso incidente di Fukushima. Valutare se accettare questi rischi non sarà mai solo una scelta tecnica, è questione politica.

Più che il rischio in senso stretto, ciò che ha impattato finora sulla diffusione del nucleare è quanto sia una tecnologia onerosa e scarsamente competitiva rispetto alle rinnovabili. Si parla di una stima di costi tra i 90 e i 120 euro per megawattora, rispetto ai 30-40 del fotovoltaico, ai 40-50 dell’eolico on-shore e ai 50-80 eolico off-shore. Difatti negli ultimi trent’anni la produzione nucleare ha visto un forte declino rispetto alla fase di crescita nel secondo dopoguerra, passando da un picco del 17.5% della produzione al 10% attuale.

La tassonomia perciò può risultare determinante, poiché sul medio-lungo periodo la fissione nucleare non sembra avere speranze di sopravvivere senza massicci incentivi pubblici. Infatti il trend dei costi se confrontati con quello delle rinnovabili confermano la non-competività del nucleare, con +33% dal 2009 al 2020 rispetto a -70% e -90% per rispettivamente eolico on-shore e fotovoltaico per lo stesso periodo. A questi si aggiungono anche le stime future dell’Agenzia internazionale per l’energia, con -7% per nucleare -50% per solare ed eolico off-shore, -14% per eolico on shore.

Ma ciò che veramente incrina la presunta «sostenibilità» del nucleare sono i tempi in gioco connessi ai rischi. Prima di tutto già la sola operazione di messa a regime di nuovi reattori è di per sé complessa, visto che si va dai 10 ai 19 anni dalla pianificazione all’operazione. Data la velocità con la quale dovrebbe avvenire la transizione ecologica, è altamente improbabile che centrali nucleari nuove incideranno su tale processo. Difatti quando si parla di «nucleare della transizione» si tratta in realtà di estendere la vita di impianti già esistenti, il che porta chiaramente a chiedersi che conseguenze ci sarebbero riguardo la sicurezza. Un problema analogo si pone anche per l’operazione inversa: per esempio nel caso delle centrali in Svizzera si stimano alcuni decenni per lo smantellamento, mentre le centrali italiane chiuse in seguito al referendum del 1987 sono ancora in dismissione (fino al 2036, secondo le stime). 

Poi c’è il problema della gestione delle scorie nucleari e del suo orizzonte temporale secolare, che diventa millenario nel caso del plutonio. In realtà all’orizzonte ci sono reattori di nuova generazione che prevederebbero minori scorie e il riutilizzo di parte delle stesse, ma dovremo ancora aspettare tra i dieci e i vent’anni e in alcuni casi ci sono anche dubbi sull’impatto. Spesso nel dibattito si cita anche la fusione nucleare come una fonte potenzialmente determinante per una produzione «sostenibile» – dato che è previsto abbatta il problema delle scorie – però questa tecnologia non sarà disponibile prima del 2050. Al momento pertanto non c’è altra gestione che non sia stoccare i rifiuti nucleari in luoghi ritenuti sicuri in contenitori che si deteriorino il meno possibile, e assicurarsi che niente e nessuno li tocchi nei secoli. Riuscire a ingegnerizzare contenitori adeguati è una sfida tecnologica spaventosa e al momento c’è un serissimo problema di corrosione, come emerge da recenti studi scientifici (tra i quali questo è uno dei più citati). Per quanto riguarda invece i siti di stoccaggio al momento siamo letteralmente alla preistoria. In moltissimi casi si tratta di siti provvisori – circa 250mila tonnellate di rifiuti altamente radioattivi in tutto il mondo, di cui 90mila solo negli Stati uniti – spesso presso le centrali stesse e/o in prossimità di fiumi/mari. Per risolvere questo problema l’intenzione è di stoccare tutte le scorie nucleari in depositi geologici profondi individuando siti considerati geologicamente inerti, ma al momento sono veramente pochi quelli attivati e si tratta di un’opzione estremamente costosa. Non è ancora a regime un sistema di stoccaggio stabile per le scorie già esistenti, perciò pensare a una grande crescita della produzione nucleare sembra al momento una scommessa azzardata.

L’esistenza di un programma nucleare civile attivo rende inoltre facilmente possibile anche lo sviluppo di un programma militare (si ricordino le polemiche relative al programma nucleare civile iraniano o l’esempio del programma nucleare francese). Per questo motivo la crescita dell’energia nucleare rischia di incentivare la proliferazione delle armi nucleari, come è stato riconosciuto anche dall’Ipcc nel 2014

Alla luce di tutte queste valutazioni e dello stato dell’arte attuale dell’industria nucleare, la «sostenibilità» di questa fonte millantata in sede europea suona come una beffa.

Al di là di tecnica e fonti di energia

Lo sviluppo di una produzione industriale che sia eco-compatibile va ben oltre la scelta delle fonti energetiche stesse. Anche lo scenario – ormai da considerarsi utopico – di una tassonomia puramente rinnovabile comunque lascerebbe aperti molti problemi. 

Uno degli assunti principali delle politiche istituzionali è che l’impatto ecologico della produzione sia fondamentalmente un problema di scelte tecnologiche. Il problema politico viene così ridotto a una «semplice» scelta di strumenti mantenendo però la struttura del sistema economico e produttivo. Secondo questo posizionamento è sufficiente un’adeguata combinazione di fonti «sostenibili» per risolvere il problema, con gran parte della discussione dedicata alla decisione dei tempi e di cosa sia «sostenibile», come successo nel caso della tassonomia. Allo stesso tempo tra chi non contesta le fondamenta dello status quo si fa enorme affidamento al salvataggio dalla catastrofe per via tecnologica, ignorando i problemi sistemici.

Spesso nell’ambito del «tecno-riduzionismo» ambientale si arriva anche a fare improbabili paragoni con crisi passate, nonostante la complessità espressa dal breakdown ambientale odierno. È eclatante l’esempio di chi sminuisce la crisi climatica paragonandola alla Grande Crisi del letame di cavallo del 1894, quest’ultima generata dall’enorme diffusione delle carrozze nella seconda metà dell’Ottocento, risoltasi con l’introduzione dell’automobile e da vari altri profondi cambiamenti spontanei della società dell’epoca.

Basti pensare che anche le fonti rinnovabili stesse presentano delle contraddizioni – sia per i limiti di produzione che per il bisogno di materie prime particolari come le terre rare – però da contestualizzarsi nell’ambito della nostra società. La «sostenibilità» stessa di una specifica fonte di energia decontestualizzata da tutto è un concetto astratto. Quel che conta è la complessiva eco-compatibilità della produzione – derivante anche da come sono usate e organizzate le varie fonti – da valutarsi considerando l’insieme di tutte le interazioni con l’ambiente e di tutti i flussi di risorse impiegate. Perciò  non è sufficiente sostituire tutto il fossile con fonti rinnovabili: serve un più profondo cambio di paradigma. 

Nell’ambito dell’elaborazione e dell’attivismo ecologista – soprattutto grazie all’esplodere della mobilitazione giovanile degli ultimi anni – sta crescendo sempre più la coscienza dell’insostenibilità del capitalismo. Nello specifico si critica come i meccanismi dell’appropriazione, dell’accumulazione e della circolazione capitalista non siano compatibili con la riproduzione ecologica, ovvero i cicli presenti nell’ambiente tramite i quali la natura riproduce sé stessa e garantisce l’esistenza della vita.

Il sistema capitalista è infatti strutturalmente incapace di contabilizzare i costi ecologici per la riproduzione delle risorse naturali, che pertanto risultano per esso essere gratuite. L’unico costo considerato è quello dell’appropriazione, in termini di lavoro e risorse impiegate, con conseguente tendenza all’estrazione indiscriminata. L’altra grande contraddizione è data dalla tendenza alla crescita illimitata in un ambiente limitato, in perfetta analogia con le malattie tumorali. Si potrebbe contestare ciò agitando la possibilità del disaccoppiamento tra crescita e pressione sull’ambiente da ottenersi tramite lo sviluppo tecnico, peccato che non vi sia alcuna prova a supporto di tale ipotesi e che sia altamente improbabile

Il capitalismo è incapace di autoregolarsi, date l’irrazionalità del mercato nell’allocare beni e la tendenza alla sovrapproduzione. Si ha difatti una complessiva tendenza allo spreco e alla produzione fine a sé stessa, data la gran differenza nel mercato tra la domanda di beni e i bisogni materiali. Il risultato è la cannibalizzazione della riproduzione ecologica da parte del capitalismo, con la conseguenza di intaccare le condizioni per l’esistenza del sistema stesso e di tutta l’umanità. Data la gravità e l’estensione della crisi ecologica e la totale inadeguatezza strutturale nell’affrontarla, il disastro attuale sembra mostrare sempre più i contorni di un collasso di civiltà. 

Movimento e trasformazione nel collasso di civiltà

Date le modalità e le cause del conflitto capitale-natura, occorrerebbe mettere in discussione l’organizzazione della produzione a partire da come, perché e quanto si produce e a beneficio di chi. Una proposta interessante è la riorganizzazione dal basso della produzione e della società secondo pianificazione democratica, basata su autogestione e alti livelli di coordinamento collettivo. Tale opzione, solitamente definita ecosocialismo, è attualmente minoritaria nel movimento ecologista, sebbene molti aspetti siano già patrimonio comune del movimento stesso. Per quanto si possa ritenere utile o importante diffondere questa prospettiva, è improbabile che una catechesi ideologica o un mutamento di idee spontaneo possano risolvere l’impasse attuale del movimento.

Già da prima del voto sulla tassonomia la mobilitazione giovanile ecologista si scontrava con una difficoltà a incidere sulle decisioni politiche, come si può notare dall’insoddisfazione espressa in più occasioni. Per esempio la battaglia per il riconoscimento dello stato di emergenza climatica ha alla fine prodotto dichiarazioni simboliche da parte delle istituzioni, senza impegni vincolanti significativi. Nonostante la velocità con cui il movimento ambientale si è imposto nel discorso pubblico non ci son state discontinuità politiche sostanziali.

Una possibile spiegazione si può ricercare nella natura giovanile e generazionale stessa del movimento. Data la giovane età delle attiviste e degli attivisti il movimento attualmente sconta uno scarsissimo radicamento nei luoghi produttivi. L’impegno dei sindacati nel costruire la mobilitazione ecologista è stato insufficiente,  perciò è mancato un coinvolgimento di massa delle lavoratrici e dei lavoratori. Ci sono però eccezioni, quali la mobilitazione operaia dei cantieri navali di Belfast del 2019, la storica convergenza in corso in Italia tra Fridays For Future e i lavoratori e le lavoratrici Gkn e la crescente convergenza tra ambientalisti e operai a Civitavecchia. La crescita e l’estensione delle convergenze è determinante per acquisire peso sociale e riuscire a ottenere vittorie sostanziali in futuro.

La costruzione di alleanze è però lenta e il tempo sta finendo. Il rapido avanzare del disastro sta velocemente peggiorando le condizioni ambientali e di vita delle persone, mutando rapidamente il contesto in cui si agisce. Tra le incognite di questa evoluzione vi è l’impatto specifico che potrà avere nel far manifestare i fenomeni di conflittualità sociale, con conseguenze che potrebbero essere importanti per le mobilitazioni future. Si può immaginare un’inasprirsi della conflittualità, con il breakdown ambientale come acceleratore storico di dinamiche potenzialmente trasformative, ma c’è il rischio di trovarsi ad affrontare anche esplosioni di disperazione con possibili risvolti reazionari o autodistruttivi. 

Considerare come seriamente all’ordine del giorno scenari che vadano verso un collasso della civiltà capitalista pone domande estreme. È soprattutto cruciale l’incognita della possibilità o meno dell’estinzione umana in tale contesto, quindi chiedersi se durante tale catastrofe possano esserci le condizioni e le spinte per la nascita di una nuova società radicalmente diversa – incuneandosi nelle crepe di quella vecchia – capace di permettere la sopravvivenza umana. Interrogativi che stanno diventando attuali a una velocità incredibile. 

*Giuseppe Lingetti è dottorando in fisica teorica del Dipartimento di Fisica della Sapienza