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37 e 78. Considerazioni sull’intelligenza artificiale

di Lorenzo Merlo - 25/05/2025

37 e 78. Considerazioni sull’intelligenza artificiale

Fonte: Lorenzo Merlo

 Il discorso sull’intelligenza artificiale è avviato, è presente nelle trame dialettiche quotidiane, si studia, ne si constatano le forme in cui appare al pubblico, se ne sfruttano i servigi, fa innamorare. In pochi temono l’osmosi. In pochi vedono il patrimonio umano andare a perire e poi essere dimenticato, ormai troppo tardi per pentirsene quando saremo noi a essere funzionali al virtuale, quando non potremo farne a meno, quando tutto ciò che faremo sarà fatto per mantenere l’assuefazione. Quando cioè verrà il tempo del rimpianto analogico.

Considerazioni sull’intelligenza artificiale sfruttando Maniac di Benjamìn Labatut (1), in cui la mossa 37, operata dal programma AlphaGo, mai presa in considerazione dalla tradizione millenaria del Go, con sorpresa dei più forti giocatori, lo ha portato al successo; e in cui la 78, messa in atto da Lee Sedol, in un’altra partita sempre contro Alpha Go, gli aveva invece permesso di superare il potere di calcolo della macchina, dandogli la vittoria.

 Il Go è un gioco orientale, molto diffuso in Cina, dove ebbe origine oltre 3000 anni addietro, in Corea del Sud, in Vietnam e in Giappone. È considerato assai più articolato degli Scacchi, in quanto richiederebbe una prospettiva strategica nettamente superiore.

 “Alcune mosse che noi umani avremmo considerato creative siano in realtà convenzionali”.

Maniac, p. 347

 Sono le parole del campione di Go, Lee Sedol, dopo aver perso la partita contro AlphaGo, un modello di intelligenza artificiale.

Nell’affermazione di Lee non c’è soltanto il riconoscimento di un potere di calcolo e previsione superiore a quello umano. Magari la questione fosse limitata a questa ovvietà. In essa vi è scritto, come inciso su una pietra, un nuovo santo Graal, che prima eravamo i soli a muoverci entro la corte di quel potere e potevamo, per mezzo suo, raggiungere la conoscenza, e che ora siamo in compagnia, anzi, sotto il dominio di un nuovo re, che non avrà incertezze quando gli servirà eliminarci.

Nella cultura della vulgata non sarà mai presente in forma sostanziale – superficialmente e come luogo comune, certamente sì – la precipua differenza tra l’umano e la macchina, ovvero la coscienza serendipica o quantica di sé e la relativa creatività, a fronte di una coscienza di sé e creatività di natura computata.

 “«Credo ci sia ancora qualcosa che gli esseri umani possono fare contro l’intelligenza artificiale [...]»”.

Maniac, p. 348

 Quel “credo” è la legittima speranza di non venire sopraffatti, è la sola arma per resistere all’annientamento dell’umano. Ma, e questo è il tragico, v’è in quella piccola parola l’ammissione occulta di un’imminente abdicazione, di una resa delle armi, di una sottomissione definitiva e assoluta. I buoi sono usciti, chiudere la stalla ora è il ridicolo che ogni uomo di corte vedute è destinato a realizzare.

 “«[...]. La mia sconfitta [è Lee che parla, nda] non è la sconfitta del genere umano. Credo che queste partite abbiano dimostrato la mia debolezza, non la debolezza dell’umanità»”.

Maniac, p. 348

 Mi viene in mente Kosovo Polje, la piana dove, nel 1389, gli islamici sconfissero i cristiani serbi e questi, che sentirono e sapevano di aver difeso, ultimo baluardo, la cristianità, perciò l’Europa tutta dall’Islam, la considerano ancora oggi alla stregua di una vittoria spirituale, che la cristianità non gli ha riconosciuto.

Il significato è duplice. Uno, che c’è chi confida nell’umanità nonostante la superiorità del nemico, l’altro, che anche le allerte e le battaglie di qualcuno contro lo spadroneggiamento della cultura che celebra l’intelligenza artificiale come un salto avanti del progresso non verranno riconosciute nel loro valore. Inoltre, chi le sta conducendo si sente, alla stregua dei serbi, l’ultimo baluardo tragicamente insufficiente in difesa dell’umanità.

 Il discorso sull’intelligenza artificiale è avviato da tempo e la verità che in esso risiede è ormai affermata. Ciò a cui assistiamo ne è l’ultima espressione, quella concreta.

In riconoscimento degli autentici sforzi di AlphaGo per padroneggiare i fondamenti taoisti del go e raggiungere un livello prossimo al territorio della divinità”.

Maniac, pp. 348-9

 Sono le parole che hanno accompagnato l’attestato assegnato ad AlphaGo e ai suoi creatori. Il primo di una prevedibile lunga serie, normalmente destinato ai maestri che hanno raggiunto il 9° dan, quello che “rasenta il soprannaturale”.

Un attestato che, in termini positivi, premia un grande lavoro, ma che in quelli umanistici spinge giù, sotto la superficie dell’acqua, la testa dell’intelligenza analogica, cioè quella che risente di emozioni e sentimenti, quella che crea la realtà, come Dio, che non la induce da un calcolo, come una macchina. Un’intelligenza senza più potere né dignità, buttata a mare come accadde con le streghe.

L’encomio ad AlphaGo ne pare un esempio, in quanto la compressione del taoismo entro un calcolo lo riduce a mera pratica positiva, ne uccide il padre spirituale e, come si può evincere, lo fa senza vergogna né timore. È l’abdicazione dell’umano. È la vittoria dello scientismo.

Il noto motto di Lao Tsu, quando lo stolto sente parlare per la prima volta del Tao scoppia a ridere, deve purtroppo essere modificato: quando lo stolto sente parlare per la prima volta del Tao lo scambia per la scienza.

 “«[...] ma quella che ho imparato io [dice Lee, nda] era un’arte. Il go è un’opera d’arte realizzata da due persone. Adesso è tutto diverso. Dopo l’avvento dell’IA, il concetto stesso di go è cambiato. È una forza devastante. [...]. Anche se diventassi il giocatore migliore che il mondo abbia mai conosciuto, c’è un’entità che non può essere sconfitta»”.

Maniac, pp. 352-53

 Se la verità è l’espressione dell’accredito che diamo a un’idea, a un pensiero, e la forza corrisponde alla fede nei confronti di quell’idea e di quel pensiero, incluso quello su noi stessi, nelle parole di Lee assistiamo all’abiura di un mondo, di una cosmogonia dal carattere umano-analogico-magico. Se, prima, l’assolutismo della computazione nella determinazione del vero aveva la sua ragione d’essere, e faceva il suo ottimo servizio, in contesti amministrativi, chiusi, ovvero quelli la cui natura è ben rappresentata dal Gioco, con le sue regole condivise e linguaggio univoco, ora, una volta di più rispetto a quanto abbia tentato di imporre il pensiero razionalista, la glorificazione dell’intelligenza artificiale comporta, ha già comportato, la sua invasione in tutti i campi aperti in cui l’uomo si muove secondo necessità creative, incomprimibili in protocolli amministrativi.

Alla nostra generazione tocca la sorte di assistere al compimento del cambio di paradigma scientista, e di essere la sola a poterne fare la cronaca. A breve, se non già in atto, alla nostra discendenza non toccherà più neppure l’onere di vedersi obbligati a gettare la spugna umanistica. Nascerà in un’ambiente estraneo da cartacce, disordine e complessità. Un contesto in cui farsi guidare dall’intelligenza superiore sembrerà una vittoria senza pari. E proprio in quel momento una pace fondata sulla sorveglianza e sull’ubbidienza sarà propagandata come conquista, sfruttata per mantenere il controllo e ridurre la popolazione con il consenso generale. Sarà l’ultimazione del disegno iniziato con uno schizzo che passerà alla storia come Covid19.

 La sconfitta è triplice. Una risiede nella fede nella superiorità della macchina e, quindi, come detto, nell’autogarrotazione dell’intera natura umana, l’altra nell’esaurire l’umanità nella competizione con la macchina stessa, l’ultima nell’assuefazione e nella dipendenza da un’amante senza cuore (2).

 Quindi sconsolatamente se il potere calcolatorio umano viene soverchiato da quello della macchina, e se entro quest’ultimo crediamo di poter comprimere l’essenza dell’uomo, allora sì che l’umanità ha perso. E così sta andando. la destinazione è lapalissiana. L’idolatria all’altare dell’intelligenza artificiale non risparmierà nulla e avrà occasioni crescenti per mandare in delirio più di quanto abbiano potuto i Beatles, molto di più.

Eppure, basterebbe avere consapevolezza che l’esperienza non è trasmissibile, che il potere creativo disponibile agli umani ha il carattere dell’infinito, non del finito entro cui le macchine sono costrette. Del resto, come si è arrivati a creare l’intelligenza artificiale se non per la natura creatrice degli uomini?

 

Non si deve lasciar perdere l’ispirazione, è grazie a questa che da noi fuoriesce l’infinito delle creazioni, non si può lasciar cadere il più potente momento umano, non lo si può sostituire con il calcolo e lo studio. Esso ha il carattere della cruna dell’ago, verso la quale convergono tutte le energie, che la attraversano generando un orgasmo in cui, come in quello sessuale, chi lo vive non può dire io, ma può solo esserlo.

 

“[...] il giovane pianse, togliendosi gli occhiali dalla montatura spessa e asciugandosi le lacrime mentre cercava di descrivere la sensazione di impotenza che lo aveva sopraffatto durante le partite, appena aveva cominciato a giocare contro Master, aveva percepito qualcosa di nuovo, e di profondamente destabilizzante. Quando gli chiesero di spiegare in cosa Master si distinguesse da AlphaGo, Ke Jie non poté fare a meno di ricadere nel tipo di linguaggio che si utilizza di solito per gli esseri dotati di coscienza: «Per me è un dio del go. Un dio in grado di annientare chiunque lo sfidi. Io non ho mai dubitato di me stesso. Ho sempre sentito di avere tutto sotto controllo. Pensavo di avere una grande consapevolezza della composizione, una conoscenza intima della tavola. Ma Master guarda tutto questo ed è come se dicesse: ‘Scemenze!’. Lui riesce a vedere l’intero universo del go [campo chiuso, nda], io vedo solo la minuscola area intorno a me. Quindi, vi prego, lasciategli pure esplorare l’universo, e lasciate che io giochi in pace nel mio cortile. Pescherò nel mio piccolo stagno. Quanto ancora potrà migliorare attraverso l’autoapprendimento? I suoi limiti sono difficili da immaginare. Credo che il futuro appartenga all’IA»“.

Maniac, p. 355

 La destabilizzazione del colpo di mano dell’intelligenza artificiale nei confronti della tradizione di pensiero non è presa in considerazione dalla politica, e forse neppure dalla massa acefala della maggioranza degli intellettuali. Dovrebbe essere al centro di un dibattito e di un contrasto che, invece, sono attualmente pressoché inesistenti, a dimostrazione dell’inconsapevolezza di ciò che siamo, dell’abdicazione di noi stessi, della sublimazione della macchina eletta ad algoritmico dio. Le faccende umane gestite dagli uomini saranno quindi “scemenze”, lo possiamo dare per garantito, non secondo il giudizio dell’intelligenza artificiale ma secondo quello degli uomini stessi, suoi devoti. Cioè da progressisti, divanisti o sublimi scientisti, contenti che, come diceva quel tale economista di un certo lignaggio cultural-progressista, “la storia vada avanti”, come se al suo interno le scelte degli uomini non esistessero.

 Il cavallo di Troia dell’intelligenza artificiale è annidato in noi che crediamo sia un regalo della provvidenza. Da esso sono usciti e seguiteranno a uscire piccoli microbi, che infetteranno il nostro status, fino modificarci. Nella destabilizzazione, come dice Jie, i dottori ci prescriveranno le sostanze utili a cancellare il passato analogico per farci apprezzare il presente, per indurci a lavorare secondo il nuovo paradigma sociale fondato su algoritmi che nel tempo saranno autopoietici, sempre con il nord orientato verso la miglior efficienza. Pastiglie necessarie a farci accomodare in ergonomici spazi abitativi-lavorativi da loro predisposti, affinché non usiamo neppure una goccia di tutto il potenziale che abbiamo di ribellarci (3).

 Se l’uomo, invece di credersi un’entità autonoma con diritto d’orgoglio, avesse consapevolezza d’essere espressione della natura, l’intelligenza artificiale “diventata l’entità più forte che il mondo abbia mai conosciuto a go, scacchi e shōgi” (Maniac, p. 357) sarebbe una fortuna.

Perché una fortuna? Perché non utilizzerebbe tout court il potere calcolatorio dell’intelligenza artificiale, come invece sta avvenendo e, come è elementare prevedere, si attesterà quale miglior scelta per il progresso. Lo limiterebbe al contesto amministrativo o dei campi chiusi, quelli governati da regole condivise e da un linguaggio univoco, consapevole che fuori da quel recinto c’è l’infinito, vera residenza dell’umanità, un oceano dove essa può navigare, nuotare e pescare.

Ma temo che ciò resti una consapevolezza esoterica. Se il Grande fratello ha fatto milioni di attenzioni, cosa farà l’intelligenza artificiale?

Resta un ulteriore interrogativo vestito da timore, vissuto con terrore. Prima di pensare e fare, faremo un click per chiedere cosa pensare e cosa fare?

 “«Lo sai chi sono?». «Sì!» risposi. «Da tempo sei causa per me di dolore e afflizione. Sei la facoltà razionale della mia anima»”.

Hadewijch di Brabante, mistica e poetessa del XIII secolo.

Maniac, esergo

 Note

1 Benjamìn Labatut, Maniac, Milano, Adelphi, 2023.

2 https://www.youtube.com/watch?v=owtTuSWK4dg

3 Assessment (La valutazione), un film del 2024, di Fleur Fortuné. Qui, l’ultima goccia di umanità è stata utilizzata.