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Alain De Benoist, condannato a destra e all’infamia

di Marcello Veneziani - 28/07/2021

Alain De Benoist, condannato a destra e all’infamia

Fonte: Marcello Veneziani

Dicono sempre: ah, ci vorrebbe una nuova destra, moderna, europea, di largo respiro, colta, non populista né demagogica, non reazionaria o bigotta, non nazionalista e non sessista. Beh, allora come la mettiamo con Alain de Benoist? È un intellettuale europeo, dalla sterminata biblioteca e dalla vasta cultura, libero e indipendente, curioso e trasgressivo, in polemica con ogni destra, coi nazionalisti, con la cristianità, con il sessismo; aperto alla scienza, all’ecologia, alla modernità e alle sintesi oltre la destra e la sinistra; perfino con simpatie schiette verso alcuni temi, autori e filoni della sinistra. Dunque l’interlocutore ideale, con le carte in regola. Eppure de Benoist in Francia e in Europa patisce da svariati decenni la stessa emarginazione riservata agli esponenti della destra non conforme: ignorato, escluso da ogni circuito mediatico e culturale, censurato, perfino aggredito…

Questa sorte è amaramente commentata da de Benoist nelle ultime pagine della sua autobiografia di alcuni anni fa, Memoria viva. Un cammino intellettuale, un dialogo con Francois Bousquet tradotto ora da Andrea Scarabelli per Bietti, prefazione di Stenio Solinas e postfazione di Gennaro Malgieri. “In Francia ha legittimità intellettuale solo quanto proviene da sinistra” nota de Benoist; ma non vale solo per la Francia. Senza piagnistei né vittimismo, l’ultrasettantenne De Benoist accenna ad alcune delle tante discriminazioni da lui subite e ricorda pure quando fu pestato a sangue a Berlino, nel ’93, poi interrogato dalla polizia fino a notte fonda, rifiutandosi di riconoscere i suoi aggressori: “Non collaboro con la polizia” (lasciando così impuniti coloro che aggrediscono chi ha idee diverse e le esprime in modo civile e inoffensivo).

Dopo aver passato la vita a smentire che fosse di destra e a rimarcare le abissali differenze con ogni tipo di destra, de Benoist è ancora riconosciuto, letto, ammirato da lettori che sono largamente in quel versante; ed è osteggiato, cancellato, attaccato da ogni altro versante, liberale o radicale che sia. Dovrebbe forse trarre qualche conseguenza, chiedersene la ragione, rivedere alcuni suoi criteri di giudizio.

Giustamente de Benoist nota che si vuol proibire al grande pubblico di avere accesso alle opere dei non-conformisti; Jules Monnerot parlava di “pena di morte intellettuale”, e la sensazione che la Cupola ideologica, i suoi potentati e derivati abbiano decretato la morte civile di chi dissente è più che fondata. Per de Benoist la censura si acuisce se l’avversario è di qualità; è visto come più pericoloso, “una ragione in più per cercare di eliminarlo”, fino a “negargli ogni talento”. A destra, riconosce de Benoist, il talento è visto come un’attenuante e suscita stima, “mentre a sinistra è un’aggravante” e induce a censurarlo.

Resta invece irrisolta la domanda di fondo, che è l’unico vero alibi dell’egemonia culturale della sinistra e che neanche de Benoist affronta: perché non è mai sorta un’alternativa credibile, un contropotere autorevole, un’area antagonista rilevante che non fosse solo marginale e perdente? D’accordo, la destra parte svantaggiata, delegittimata, a tratti criminalizzata, ma perché un’area d’opinione almeno equivalente a quella di sinistra, anche con governi destrorsi, non è mai riuscita a munirsi di armi pari per la battaglia culturale, editoriale, mediatica e civile? Bella domanda, che non si può eludere semplicemente elencando i giganti dell’arte, del pensiero e della letteratura che furono conservatori, reazionari, protofascisti o “di destra”.

De Benoist è un intellettuale, ne ha tutti i tratti, le qualità e i difetti, come riconosce lui stesso. La memoria parte dal suo “romanzo famigliare”, la sua ascendenza italiana, il mistero del nome (lui è Alain, come suo padre, non Fabrice); poi la sua passione per l’Europa, che egli ritiene il tema principale della sua vita. Ripudia l’estremismo giovanile col suo breve impegno politico, abbandona il nominalismo e lo scientismo neopositivista; ama la patria come idea anziché come nazione e terra, ripudia il razzismo ma avverte che “le razze esistono, eccome!”; critica il cristianesimo ma ammira i preti (confessa un’infanzia da chierichetto e un viaggio famigliare a Lourdes), rivaluta il gollismo contro la destra francese rimasta con Petain; critica il lepenismo. Reputa gli italiani “le persone più colte che conosca” e ne apprezza “l’eleganza, la gentilezza spontanea, la vivacità delle reazioni”. Dice spiritosamente che avrebbe scritto un romanzo solo se avesse dovuto scontare una pena in carcere…

È impressionante la rete di saperi, testi e autori a cui si richiama, confermando quella che lui stesso definisce la sua propensione “enciclopedica”; nella mole prodigiosa dei riferimenti gli sfugge qualche errore, come definire “inglese” Alasdayr McIntyre (per uno scozzese è l’insulto peggiore) o attribuire a Lutero il “non possumus” evangelico, poi ribadito da Pio VII a Napoleone e da Pio IX. Ma sono virgole in un oceano di citazioni, rimandi, pensieri e incursioni. Sentendosi estraneo al suo tempo, de Benoist ha voluto “proporre una concezione del mondo alternativa a quella oggi dominante e al tempo stesso adatta al momento storico in cui viviamo”; si reputa un “incantatore disincantato” e “un moderno antimoderno che è innamorato del reale e detesta la realtà circostante”. In definitiva la sua definizione meno imprecisa è di “rivoluzionario conservatore” metapolitico. Solo un ossimoro può descrivere il tragitto di un autore che ha costeggiato i confini e cercato una sintesi tra gli opposti, oltre lo spirito di un’epoca prigioniera della “metafisica della soggettività”. Nonostante la sua riluttanza, de Benoist resta però, per tutti, o quasi, il fondatore e il pensatore della Nouvelle Droite. Un tatuaggio indelebile…