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Brexit, la vittoria del tanardo

di Roberto Pecchioli - 22/12/2019

Brexit, la vittoria del tanardo

Fonte: Maurizio Blondet

Dalle mie parti, chiamiamo tanardo, un po’ bonariamente e un po’ no, un tipo poco dotato di intelligenza, un incrocio tra il tontolone, l’imbranato e il cretino del villaggio. Non penseremmo mai di affidargli incarichi importanti, tanto meno di metterlo a capo di una nazione, figuriamoci di un impero, per quanto in disarmo come quello britannico. Invece, il Tanardo britannico è giunto al vertice e ha stravinto le decisive elezioni del 12 dicembre scorso. Boris Johnson – è di lui che stiamo parlando- ha conquistato una vittoria schiacciante, 365 seggi, oltre agli alleati nordirlandesi, sui 650 membri della Camera dei Comuni. La Brexit è cosa fatta, il veleno liberaldemocratico è schiacciato, solo un pugno di deputati per il partito preferito dalle élite, guidato dall’astro nascente (per la stampa liberal) Jo Swinson. Il principale avversario, il buon Jeremy Corbyn, un laburista che è l’unico leader europeo a dire “qualcosa di sinistra “ha incassato una storica disfatta, perdendo bastioni storici nelle città della classe operaia inglese.

Il tanardo, dunque, non è tale. Eppure ci avevano quasi convinto, le maestrine dalla penna rossa e i sapientoni di casa nostra. Dopo il referendum vinto dai sostenitori dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, i britannici erano rinsaviti. Firmavano oceaniche petizioni online, manifestavano in massa- meglio delle nostre sardine- per esigere la permanenza della loro isola nell’UE.  Corbyn, con l’appoggio discreto della Swinson, avrebbe risolto la situazione. Invece no. Quelle teste dure dei sudditi di Sua Maestà hanno voltato pagina. Addio all’Europa e chi se ne frega delle accuse di populismo, ignoranza, mentalità da vecchi, incomprensione del mondo, piovute dalla nuvola rosa del progressismo “liberal”.

In Italia si sono distinti in molti nell’opera di ridicolizzazione di Boris Johnson. Il personaggio, a dire il vero, attira le battute come il miele le api. Ha un’aria e un abbigliamento da allevatore del Nebraska più che da esponente della classe dirigente britannica. Cammina con andatura ciondolante, ha un eloquio ben poco oxfordiano, la zazzera scomposta color stoppa, segno dell’uso sapiente di lozioni per capelli. In più si porta dietro quel nome russo, Boris, che sa tanto di passato veterocomunista. Ma non è uno sciocco e tanto meno un ignorante. Possiede una solida cultura, padroneggia diverse lingue, ed ha saputo porsi in sintonia con la gente normale del suo paese. Ha presentato una seria riforma della sanità pubblica che ha convinto non pochi elettori laburisti, ma soprattutto ha parlato chiaro.

Brexit senza se e senza ma, concetti semplici, un progetto netto: prendere o lasciare. Tutti sapevano che cosa avrebbe fatto se gli fosse stato conferito il pieno mandato che si è conquistato nelle urne. Si chiama democrazia, nel caso se ne fossero scordati i nostri aristocratici sinistri. Tutt’altra cosa rispetto a Corbyn, un onesto socialista che, al dunque, pareva quello del “vorrei ma non posso”. Da noi (forse) funziona, in Inghilterra no. Nonostante tutto, come ha commentato un amico che detesta la “perfida Albione”, gli inglesi hanno le palle. Quelle che mancavano- e non per questioni di sesso – al precedente primo ministro conservatore, la gentile Mistress May, tanto somigliante alla romantica donna inglese disegnata magistralmente da Enrico Montesano qualche anno fa.

Sappiamo bene che il partito conservatore inglese, il vecchio bastione Tory, non è affatto conservatore nel senso tradizionale, ma essenzialmente liberista; tuttavia, il successo di Boris Johnson fa esultare anche noi. Ci avevano quasi convinti, i soloni da talk show, tra i quali spiccavano per livore e supponenza Beppe Severgnini e Antonio Caprarica. Il barbuto ex corrispondente da Londra di lungo corso è così visibilmente di sinistra che non serve attaccarlo. Basta guardarlo. Somiglia a un maturo notabile meridionale che racconta amabilmente aneddoti a tavola, con il tovagliolo intinto di sugo e una buona porzione di spaghetti, in attesa di casatiello, cime di rapa e pastiera fatta in casa. Lo sfortunato Severgnini sarà ancora alle prese con i digestivi e il Lexotan. Il gazzettiere più british di tutti, quello che conosce il Regno Unito meglio della natia Crema, ha toppato ancora una volta. Si sarà ulteriormente incanutita la sua perfetta capigliatura di intellettuale allo shampoo.

Su Nostra Signora del Bilderberg, donna Dietlinde Gruber in arte Lilli, regina del giornalismo sudtirolese, scenda il nostro rispettoso silenzio. Sino a sera, riposi in pace. Strano davvero che per i progressisti nessun esponente delle altre aree politiche sia considerato per ciò che è, ma venga invariabilmente dipinto come un cretino o un malvagio. Pensiamo alla demonizzazione di Vladimir Putin, di Viktor Orbàn e di Salvini. Meno male che la Polonia non è granché popolare da noi, altrimenti non osiamo immaginare che cosa direbbero del suo presidente Kaczinsky e del partito Diritto e Giustizia. Quanta sofferenza, la vittoria dei bifolchi. Buzzurri, tanardi, uomini e donne della strada: gran rivincita per interposto Boris.

L’irritazione è tanto grande da aver fatto una vittima, il vignettista del Fatto che ha osato disegnare Johnson in fuga da un campo di concentramento con la scritta Unione Europea. Accusato di antisemitismo per il riferimento “blasfemo” ad Auschwitz (un capo d’imputazione a cui non si può rispondere se non con una drammatica autocritica da Comintern sovietico) è stato licenziato. Speriamo che Boris gli offra asilo nella Gran Bretagna liberata dall’UE.

Vale la pena una riflessione alla buona sulla scelta britannica, da gente semplice, tanardi e populisti. Un’ osservazione riguarda il ruolo che il Regno Unito ha svolto nei decenni all’interno dell’UE. Dagli anni 80 è sempre stato un socio scomodo, qualche volta ostile, che ha cercato di frenare i tentativi di supremazia del progetto comunitario. Di questo siamo grati alla vecchia potenza imperiale. I suoi governi, laburisti o conservatori, hanno denunciato la pesante burocrazia di Bruxelles, gli eurocrati privilegiati, arroganti e autoreferenziali che si fanno i fatti nostri. Hanno combattuto certe politiche fiscali, le pulsioni interventiste e le sovvenzioni che tanto piacciono, per i loro interessi, a Francia e Germania.

Un po’ ci mancherà la vecchia Inghilterra, specie a noi italiani, finché avremo un governo piegato agli interessi stranieri, a cominciare dal ministro Gualtieri, legato alla galassia Soros. Quello stesso finanziere, sedicente filantropo, che nel 1992 fece saltare il Sistema Monetario Europeo con due attacchi mirati, uno alla sterlina e il secondo alla lira. Gli inglesi dovettero uscire dal cosiddetto “serpente monetario”, lasciarono sul campo miliardi di sterline, ma compresero la lezione. L’Italia si accanì nella difesa cocciuta della lira; il governatore Ciampi e il ministro Barucci gettarono al vento non meno di 50.000 miliardi di lire, il nostro tesoro. Giuliano Amato fece il resto da primo ministro, mettendo il conto di quella follia a carico di tutti noi. Salvatori della Patria o traditori? Decida il lettore.

L’Inghilterra ha buona memoria, a differenza dell’Italia. Sa, per esempio, quanto furono devastanti le politiche laburiste degli anni 70, che portarono al pesante intervento del Fondo Monetario Internazionale (per intenderci, è il modello del MES di cui si discute in queste settimane). Non ha dimenticato l’“inverno del nostro scontento” del 1979, tra scioperi, disagio sociale, divisione politica del Paese. Quegli eventi hanno vaccinato il Regno Unito contro politiche economiche e fiscali di rapina, che hanno beneficiato solo legioni di burocrati e di clienti dell’assistenzialismo nullafacente. Soprattutto, hanno sollevato l’allarme rispetto alla moneta unica, l’euro nella cui area nessun governo di Sua Maestà ha voluto entrare. Elementare prudenza, da parte di un popolo che ha conosciuto per primo, nel 1694, i morsi dell’usura finanziaria al tempo del banchiere Peterson, l’inventore delle banconote, del credito e del danaro creato dal nulla, fondatore della privata Banca d’Inghilterra che, ottenendo dal Re il diritto esclusivo ad emettere banconote non protette dai patrimoni bancari, inaugurò l’era degli usurai.

Si tende altresì a dimenticare che l’Inghilterra ha un rapporto storico con gli Stati Uniti, e da orgogliosa potenza mondiale, pur decaduta, preferisce essere l’alleata “minore” degli americani che partecipare a un’Europa in cui domina l’asse franco-tedesco, nemico secolare della Gran Bretagna. I britannici, poi, hanno la mentalità isolana: diffidano di ciò che viene da fuori, da oltre il mare. Vivono soprattutto di attività finanziarie, dunque hanno bisogno di preservare la piazza londinese dagli eccessi burocratici di Bruxelles e mantenere relazioni privilegiate con l’America. In più, possono contare sul petrolio scozzese e, alle brutte, sulle risorse minerarie ora abbandonate. La Brexit non spaventa gli inglesi, anzi ritengono che, oltre a preservare la sovranità nazionale alla quale tengono più di tutto, permetta di andare per la propria strada economica senza problemi, come hanno dimostrato gli ultimi tre anni. Vedremo se, al di là del malumore scozzese, non vi saranno nuove convulsioni nell’Ulster, dove la componente cattolica in crescita demografica detesta l’innaturale confine che separa le contee del Nord dal resto della patria irlandese.

A nostro avviso, è stata sottovalutata l’incidenza delle relazioni riservate tra Londra e gli Usa, alimentata da circoli di immensa influenza, come il RIIA (Royal Insitute for International Affairs), che certo, più o meno sottovoce, prediligono i rapporti con l’” anglosfera” (Stati Uniti e paesi del grande Commonwealth britannico) alla permanenza in posizione minoritaria nell’UE. La City, quella che conta davvero, non si è scomposta troppo dopo il referendum del 2016 e ha reagito benissimo adesso. Segno che i vertici hanno mollato l’Europa. L’importanza finanziaria di Londra è testimoniata dalla preminenza del gruppo Rothschild, che, tra l’altro, controlla il mercato mondiale dell’oro. La Corona non si esprime, ma non è un mistero che non ami l’UE. In ogni caso, tre anni di interregno tra un Regno Unito integrato nell’Unione e l’uscita definitiva hanno dimostrato che c’è vita fuori dalla gabbia comunitaria. Segnali di nervosismo anti europoide arrivano ora dal piccolo Belgio.

Certo, non si può dimenticare la deindustrializzazione subita dal Regno Unito, la fine dei dark satanic mills, le scure diaboliche ciminiere di William Blake, ma la lezione di decenni insegna che non sarà questa Europa a risolvere i problemi. Inoltre, il controllo delle frontiere è una priorità per una nazione–isola, che vive la propria identità come distanza fisica, separazione materiale. Il problema dell’immigrazione è in Inghilterra molto acuto, e la ripresa del controllo del territorio, abbandonando l’inservibile trattato di Schengen, è un ulteriore argomento a favore della Brexit.

Da un punto di vista italiano, inutile sperare di trarre lezioni: le nostre classi dirigenti non hanno senso nazionale, inclinano al servilismo e al tradimento da secoli. In più, la catena che ci lega maggiormente è quella della banca centrale che crea la moneta euro, decide la quantità di emissione e l’interesse senza svolgere la funzione classica delle banche centrali, quella di prestatore di ultima istanza. Gabbia dell’euro più prevalenza del diritto comunitario sancita dall’improvvida, vergognosa novella dell’art. 117 della Costituzione, approvata da tutto l’arco politico, che afferma “La potestà legislativa è esercitata (…) nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” negando di fatto la sovranità del popolo affermata solennemente dall’articolo 1.

A tutto questo si è sottratta l’Inghilterra, grazie a Boris e a un altro tanardo, Nigel Farage, l’esponente dell’UKIP, partito per l’indipendenza del Regno Unito, primo alle elezioni europee, battuto il 12 dicembre, ma vincitore storico e morale della battaglia sovranista. Anche Farage è stato oggetto di insulti, sarcasmi e denigrazione dai soliti soloni progressisti, personificazione di Tafazzi, il personaggio televisivo militante di sinistra, autolesionista e masochista, il cui “tormentone” è colpirsi a martellate le parti intime.

Temiamo, a dire il vero, che la Gran Bretagna diventi un grande paradiso finanziario e fiscale. Del resto, hanno inventato loro, insieme agli olandesi, l’ombra tenebrosa del denaro che sfugge e riappare tra isolette, colonie e Stati da barzelletta. Infine, gli inglesi, nei rapporti internazionali, non amano il diritto: sono stati la potenza marittima per eccellenza, talassocratica. Carl Schmitt insegnò la differenza tra potenze di mare, più sfuggenti, estranee alle leggi internazionali, e potenze di terra, legate a uno spazio specifico, il Lebensraum dei tedeschi, spazio vitale. Fu l’Inghilterra, per i suoi interessi imperiali, a inventare la geopolitica con Halford Mackinder, ovvero la messa in relazione di spazio geografico e gioco del potere. Non hanno dimenticato la storia, a differenza di chi, come noi, li invidia pur non amandoli affatto.

Eppure Boris, il tanardo che non è tale, ha sbaragliato il campo. Da oggi e per chissà quanto tempo la storia dovrà tenere conto dello strappo inglese, in Europa e nel mondo. Loro possono, hanno vinto la guerra, sono una potenza nucleare, comandano in casa propria. Quante differenze, quanta distanza dal nostro disastrato Stivale. E poi, ogni inglese è un’isola, disse Novalis.

I britannici amano scommettere, hanno inventato gli allibratori e le quote. Grandi fortune sono passate di mano per scommessa, e si sa, un debito di gioco è un debito d’onore, parola non ancora abolita dal vocabolario di Oxford. La Brexit, a suo modo, è una potente scommessa sul futuro di quella vecchia, piccola, insalubre isola piovosa. Un inglese non scherza mai quando si tratta di una cosa importante come una scommessa.

   MB (Boris Johnson è  laureato in Lettere classiche presso l’Università di Oxford, con una tesi in storia antica. Ha scritto un libro sul tema: Roma antica sapeva  integrare  la UE no. Sicuramente non avrebbe commesso l’errore in cui è incorso il Letta, di credere che Claudio fosse  un imperatore straniero  di recente immigrazione)