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Cosa è stato il Risorgimento, secondo Gentile?

di Francesco Lamendola - 19/05/2019

Cosa è stato il Risorgimento, secondo Gentile?

Fonte: Accademia nuova Italia

Sappiamo cosa è stato il fascismo, secondo Giovanni Gentile: il compimento, o meglio il tentativo di compimento del Risorgimento, che era rimasto parzialmente interrotto all’epoca dell’unificazione politica. E il Risorgimento, che cosa è stato per il filosofo siciliano? Molti pensano: lo sforzo di fare degli italiani un popolo, un vero popolo. Diciamo più esattamente: il tentativo di formare la Nazione intesa come autocoscienza del popolo italiano, come consapevolezza della sua unità, della sua vera natura, del suo destino. Il concetto di popolo esprime un dato meramente sociologico e antropologico; ecco perché, a giudizio di Gentile, i nazionalisti avevano una visione angusta e pedestre della missione dell’Italia nel mondo. Essi la vedevano e la misuravano essenzialmente in termini d’espansione territoriale, di possedimenti coloniali, di prestigio politico e militare; lui, invece, riteneva che la cosa essenziale fosse che la Nazione italiana, che aveva iniziato a delinearsi sotto la spinta degli uomini del Risorgimento ed era giunta a buon punto con la vittoria nella Prima guerra mondiale, si consolidasse in maniera tale da sostituire all’idea nazionalista, di una politica di potenza e di prestigio, l’idea risorgimentale, di fusione del popolo italiano in una sola volontà d’intenti, in uno spirito solo. Utopia generosa, ma pur sempre utopia: Gentile, infatti, per la sua stessa concezione idealistica della storia come divenire dell’autocoscienza degli uomini, finiva per perdere di vista i fattori storici concreti, determinati, che avevano condizionato la nascita della Nazione e che seguitavano a pesare sul suo consolidamento definitivo. Perché la Nazione italiana era rimasta incompleta, perfino dopo il terribile sacrificio, in termini di vite mane, di feriti, di mutilati, di rovine economiche, della guerra del 1915-18? Perché, secondo Gentile, gli scopi ai quali era stato indirizzato quel magnifico sforzo del popolo italiano erano stati condizionati da una politica meschina, calcolatrice, di corto respiro, volta ad acquisire alcuni territori e rafforzare lo status di grande potenza; ma la classe dirigente italiana del 1915, guidata dal partito liberale di Salandra, aveva rinnovato gli errori del 1848, del 1859, del 1866, cioè gli errori di una politica che aveva creduto di poter giungere al risultato finale – la nascita della Patria italiana - sostituendo a un’autentica partecipazione popolare, la politica machiavellica di Cavour e dei suoi successori. E così, pur di realizzare l’Unità, si era puntato più sulle baionette di eserciti stranieri – quello francese nella Seconda guerra d’Indipendenza; quello prussiano, e sia pure indirettamente, nella Terza – piuttosto che mobilitare generosamente le energie morali e spirituali della Nazione. Si era trattato di un limite intrinseco di quella classe dirigente: una classe imbevuta d’ideali illuministici, di spirito rivoluzionario avverso alla tradizione, di finalità massoniche che venivano a sovrapporsi, snaturandolo, al processo di formazione e consolidamento dello spirito della Nazione.

Ci piace a questo punto riportare una pagina di Giorgio Chiosso, già docente di storia della pedagogia presso l’Università Cattolica di Brescia (da: G. Chiosso, L’educazione nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, Brescia, Editrice La Scuola, 1983, pp. 159-162):

 Anche Giolitti muoveva dalla costatazione che il Risorgimento, quale era stato negli ideali dei suoi massimi protagonisti, era restato incompiuto e s’era fermato all’aspetto del tutto esteriore dello Stato unitario: all’opera attiva di una minoranza non aveva corrisposto una cosciente partecipazione di popolo. Gli sembrava che dopo la stagione risorgimentale soltanto Spaventa e De Sanctis avessero tentato di riannodare le file del processo unitario e nazionale là dove si era interrotto, ma senza poter rompere in vita “la spessa resistenza degli spiriti ottusi” e dunque con scarsi risultati e senza futuro tanto che “i venuti dopo sono tornati, com’era naturale, indietro”. Di qui il suo costante interesse per i “profeti del Risorgimento”, la cultura di quel periodo, la riscoperta di autori dimenticatoi a partire significativamente dal Cuoco.

Gentile concepisce il Risorgimento come svolgimento nel senso di continuità ed innovazione, di una tradizione poiché tale è la storia e niente “è storicamente possibile che non s’innesti nello stesso processo storico”. Dunque il Risorgimento come riforma in grado di combinare aspetti di necessaria conservazione con elementi innovativi: tale fu, appunto, il Risorgimento italiano. Esso è antitetico all’Illuminismo e alla cultura della rivoluzione francese le cui ultime conseguenze sono individuate nell’ateismo sensistico, nell’individualismo, nello spirito rivoluzionario, nel pessimismo. Il Risorgimento è invece riscoperta religiosa e richiamo ad una tradizione che l’Illuminismo aveva corroso, quella della restaurazione. Ma essa va intesa nel suo significato più pregnante, cioè “Restaurazione del divino” da distinguersi dalla restaurazione politica con la quale avrebbe ben presto rotto ogni rapporto poiché essa, qual era concepita dalla Santa Alleanza, riduceva i valori religiosi a puri strumenti pragmatici, mentre la Restaurazione risorgimentale era piuttosto contraddistinta dal primato del religioso anziché dal primato del politico.

Non a caso, osservava Gentile, era toccato ad una personalità come Gioberti, filosofo e politico nello stesso tempo, segnare il punto in cui per avvenuta la rottura tra Restaurazione ideale e quella politica poiché solo l‘unità di filosofo e di politico può consentire il superamento del vizio intellettualistico e razionalistico  teso alla separazione di filosofia e politica. Così per Gentile l’idea di Risorgimento poggia sulla centralità della prassi in quanto teoria della conoscenza intesa come attività produttiva e cioè sull’unità del conoscere e del volere perché la loro distinzione “implica la posizione di una realtà presupposta al conoscere”. Nell’avere intuito questo stava secondo Gentile uno dei principali meriti di Gioberti.  La concezione gentiliana di Risorgimento si presenta, dunque, come ripresa e svolgimento di una tradizione dopo la temporanea eclissi di questa: idea del tutto contrapposta a quella di rivoluzione centrata invece sul progetto di un uomo nuovo e di una storia nuova; idea antistorica per eccellenza in quanto non solo poggia su un processo di dissacrazione della tradizione, ma pretende di segnare una frattura nella storia e ripartire da un impossibile stato di purezza originaria della coscienza. Non meno contraddittoria è l’idea di reazione che si fonda sulla duplice pretesa di arrestare il processo della storia e sul primato dell’affermazione dell’autorità di un ordine esterno alla libertà del soggetto.

“Potremmo complessivamente dire che per Gentile – ha scritto Del Noce – spirito risorgimentale ha il significato di una riaffermata religione dello Spirito, come spiritualismo purificato da ogni traccia di naturalismo e di soprannaturalismo insieme, essendo il soprannaturalismo per lui, per così dire, forma di naturalismo iperuranio. Del Risorgimento italiano Gentile si presentò come il filosofo che ne aveva portato l’idea a compimento, così come aveva fatto Marx per l’idea di Rivoluzione”. L’idea di Risorgimento s’invera “nel processo dinamico di svolgimento di un popolo – scrisse Gentile ne ‘I profeti del Risorgimento italiano’ - che conquista la propria autonomia contemperando insieme il proprio essere di fatto (la propria capacità e le proprie forze) e l’idealità dei fini immanenti a cui le forze devono essere indirizzate”. In questo sviluppo processuale della nazione italiana – che viene definito “coscienza, bisogno interiore, processo morale, un atto insomma di vita” – l’avversario da battere è rappresentato dalla tradizione scettica di origine rinascimentale. L’Umanesimo ed il Rinascimento, osserva Gentile riprendendo De Sanctis, hanno creato il letterato fine, erudito ed elegante, ma senza fede né moralità, in una parola “l’uomo staccato dalla vita che guarda a tutto il suo contenuto (religione, morale, politica) con quella indifferenza che è propria dello spirito estetico” perché dal suo animo è stato spiantato del tutto ogni concetto di trascendente. Non a caso la coscienza religiosa era infatti risorta con Vico nel momento in cui questi si era opposto alla trionfante cultura razionalista che Gentile considera l’erede naturale dell’umanesimo laico cinquecentesco.

Il compimento del Risorgimento italiano avrebbe dovuto perciò liquidare la cultura giacobina, materialista, massonica di derivazione razionalista-illuminista e promuovere invece la formazione di un carattere nazionale consapevole della propria missione e conseguenza di un libero volere etico. Lo Stato non avrebbe dovuto essere opera di machiavelliana astuzia, ma istituzione legittimata dall’esistenza della Nazione e, contro ogni riduzione materialistica, espressione dell’iniziativa dell’uomo, della sua forza di volontà, del suo impegno etico. Al centro della sua riforma Gentile non poneva dunque prioritariamente lo Stato (che avrebbe dovuto, per così dire, rappresentarne la conseguenza) ma la Nazione concepita come volontà comune di un popolo che afferma se stesso e così si realizza ed in cui ciascun individuo si riconosce. Era questa la profezia a cui avevano consacrato la propria vita Gioberti, Mazzini  e tanti altri e che non s’era realizzata né con la conquista di Roma né con la vittoria di Vittorio Veneto.

Il limite dell’interpretazione gentiliana del Risorgimento è lo stesso, crediamo, della sua interpretazione del fascismo, e risiede principalmente nella sua concezione volontarista, vitalista e, in ultima analisi, astratta e velleitaria del divenire storico. I popoli, egli dice, e quindi anche gli italiani, hanno un bisogno intrinseco di esplicitare la propria libertà, di prendere coscienza di se stessi; e per farlo devono misurarsi colle difficoltà, devono lottare e, temprandosi nella lotta, portare a piena maturazione il loro destino, e ad intima consapevolezza l’idea che hanno di se stessi, della necessità di esser Nazione. Pure, nel caso del Risorgimento italiano egli ha visto bene il limite più grave che lo ha contraddistinto: esser stato fondamentalmente opera d’un pugno d’individui abili e decisi, ma con scarso seguito popolare e, inoltre, forgiate da quella cultura illuminista e razionalista che, detestando la tradizione, detestava anche, in ultima analisi, la vera essenza del popolo. Infatti, nella cattolicissima Italia del XIX secolo, sarebbe stata cosa ovvia e naturale che gli uomini del Risorgimento facessero leva sul sentimento cattolico della stragrande maggiorana della popolazione, e specialmente dei contadini; ma, per farlo, avrebbero dovuto puntare su una coraggiosa politica di riforme, a cominciare dalla più urgente di tutte, la riforma agraria, in modo da coinvolgere le masse, rispettando i loro sentimenti religiosi e anzi convogliandoli e utilizzandoli nella loro strategia politica. Voler fare l’Italia in senso massonico e rifiutando la tradizione cattolica; averla voluta fare senza il papa e contro il papa; aver preteso di fare appello a un generico sentimento patriottico di stampo quasi religioso, come aveva fatto Mazzini, ma senza calare questa religiosità nel suo vero contesto storico e culturale, aveva avuto esiti funesti. Il Brigantaggio meridionale era stato la Vandea della nazione italiana, e ciò aveva reso la classe dirigente italiana, molto più simile a quella francese del 1792 che a quella vagheggiata dal Gioberti col suo progetto neoguelfo, cioè una classe capace di porsi realmente alla guida della Nazione, interpretandone i sentimenti più veri e profondi. Il conoscere e il volere, per Gentile, sono una cosa sola: ma questo è il dogma del suo attualismo; non se ne trovano conferme nel processo della storia. Ciò che mostra quest’ultimo è che i popoli rispondono a sollecitazioni precise: la vera prassi è quella che emerge non da un bisogno astratto di libertà e autoaffermazione, ma dalla cultura e dalle condizioni di vita che contraddistinguono un popolo a un dato momento della sua storia. In fondo, l’errore di Gentile è lo stesso di Machiavelli: dopo aver proclamato l’assoluta necessità della concretezza e di tener conto della verità effettuale della cosa, è caduto nel vagheggiamento d’una misteriosa forza salvifica, capace di guidare l’Italia verso il compimento del suo destino. Ma come poteva ciò avvenire, se la classe dirigente, massonica e anticlericale, uscita dalla cultura dell’illuminismo, rappresentava un’idea diametralmente opposta alla tradizione? La stessa monarchia sabauda, divenuta la casa regnante italiana, aveva coronato i suoi sforzi riprendendo la tradizione rivoluzionaria, sia con la guerra del ’48, sia con l’appoggio neanche tanto nascosto alla Spedizione dei Mille, sia con la distruzione del potere temporale del papa: in fondo, era la tradizione giacobina che tornava alla carica, nella Giovine Italia di Mazzini e nello spirito garibaldino. Il paradosso dell’Italia era che un popolo cattolico e tradizionalista era giunto all’unità politica contro il cattolicesimo e contro la tradizione; e la guerra del 1915, da questo punto di vista, non aveva certo migliorato le cose, ponendo l’Italia al fianco delle potenze massoniche e contro quelle imperiali. Il liberalismo di Gentile faceva velo al suo giudizio: per lui era troppo difficile ammettere che l’essenza del liberalismo era proprio quella, e che esso era erede legittimo dell’illuminismo e del laicismo, e strumento della massoneria. Per questa ragione vide nel fascismo la prosecuzione del Risorgimento: bisognava formare la Nazione, e dove aveva fallito la vecchia classe dirigente, forse sarebbe riuscito Mussolini. Paradossale anche questo: aver visto nel fascismo una sorta di super-liberalismo volto a creare le premesse di un’ordinata vita statale, cioè a creare la Nazione.

Si trattava di un grosso equivoco: il fascismo non era un super-liberalismo, ma la sua negazione; le sue radici erano nel socialismo massimalista e, in parte, nel sindacalismo rivoluzionario, non certo nello spirito borghese. Ma tale equivoco discendeva dalla concezione attualista in quanto tale: una volta identificato il pensiero con la storia, sulle orme di Hegel, non restava che aver fede in uno spiritualismo che eliminasse sia il naturalismo che il soprannaturalismo. Ma come è possibile che lo spiritualismo rimanga fedele a se stesso, cioè che sia spinta e tensione verso il trascendente,  una volta che il trascendente sia stato rovesciato nell’immanente, che si sia identificato con esso? Gentile volle vedere sia nel Risorgimento, sia nel fascismo, una religione dello spirito: ma queste sono soltanto parole. Una religione è una religione, e cioè fede in Dio, oppure è un’altra cosa; non esiste una “religione dello spirito” in quanto tale, se non proprio laddove meno Gentile avrebbe voluto trovarla: nella massoneria. Per restare fedele e coerente al suo dogma dell’attualismo, egli si rifiutò di vedere quel che la sua grande intelligenza senza dubbio gli suggeriva: che il Risorgimento, all’atto pratico, era stato fatto da forze ben diverse da quelle che lui aveva in mente quando parlava di una “religione dello spirito”; e che quelle stesse forze, alimentate da una cultura materialista, razionalista e massonica, erano ancora vive e forti anche dopo il 1918, quindi il fascismo, se avesse voluto ereditare  il compito di creare la Nazione, avrebbe dovuto o estirparle, o prepararsi a soccombere. Aveva ragione Gentile quando negava che nella storia vi siano fratture tali da poter produrre un “uomo nuovo”, nel senso delle ideologie del XIX e della prima metà del XX secolo; ma pare si fosse scordato che un uomo nuovo era realmente apparso nella storia d’Europa, con la nascita del cristianesimo, però si era trattato realmente, in quel caso, di un uomo spirituale, mentre quello auspicato dai rivoluzionari moderni era un uomo materiale, frutto di una volontà di dissacrazione destinata, presto o tardi, a esaurirsi. Dunque, per forgiare un autentico uomo nuovo, bisognava lavorare sulla dimensione spirituale: ed egli veramente s’illuse che il fascismo avrebbe saputo, e voluto, riprendere dal Risorgimento un simile programma. In altre parole, egli credé che sia il Risorgimento, sia il fascismo, furono movimento spirituali, contrapposti al materialismo di matrice illuminista; e non si rese conto che il secondo era destinato a fallire per la stessa ragione per cui era fallito il primo, ossia perché condizionato, al suo interno, da quelle stesse forze che in teoria avrebbe dovuto vincere e sottomettere. L’uno e l’altro, invece, si convertirono al machiavellismo: per supplire a un difetto di partecipazione popolare, puntarono su una strategia spregiudica, per la quale il fine giustifica i mezzi.  La verità è che la Nazione non può esser fatta con un atto della volontà: non c’è una ragione “naturale” per cui essa debba formarsi, ma neppure la si può realizzare con un puro atto della volontà. La Nazione francese, ad esempio, è stata formata da secoli di monarchia unitaria, ma soprattutto dalla Guerra dei Cent’anni e dall’opera, breve ma folgorante, di Giovanna D’Arco; la nazione spagnola è stata formata dalla Reconquista, cioè dallo spirito di crociata. Ora, in pieno Novecento, l’Italia avrebbe dovuto realizzare quel che altri popoli avevano costruito nel corso di tempi assai lunghi e alla luce di una grande idea. Qual era la grande idea che avrebbe dovuto presiedere alla nascita dalla nazione italiana? Forse una nuova idea imperiale, come proclamavano i nazionalisti? Impossibile, perché – e qui aveva ragione Gentile – l’Impero, per essere veramente un’idea e non solo una politica d’espansione materiale, doveva pur poggiare su una base ideologica: e qual era la base ideologica dell’Italia moderna, nata dal liberalismo e dalla massoneria? In fondo, la contraddizione ultima di Gentile è stata quella di non vedere il legame necessario fra liberalismo e massoneria: credeva di poter affermare il primo ed eliminare la seconda. Credeva, sinceramente, che il fascismo potesse condurre a compimento una tale impresa. Vedeva e capiva che la massoneria era l’espressione di forze straniere, di interessi stranieri, di una mentalità estranea alla mentalità italiana; ma si rifiutava di vedere nella massoneria un frutto genuino del liberalismo, e, in quest’ultimo, un frutto altrettanto genuino di quello spirito rinascimentale che aveva individuato come modello “sbagliato” di evoluzione nazionale, perché fondato su di una élite che si distacca dal popolo e che non sa, né vuole, esserne l’anima e la guida. Certo, quando ci si accinge a un compito, bisogna lavorare col materiale che c’è, e fare i conti con il tempo che si ha a disposizione. L‘Italia, fra la seconda metà dell’800 e la prima del ‘900, aveva solo pochissimo tempo a disposizione, e materiali assai scadenti. Era perciò, il suo, un gioco d’azzardo...