Destra, sinistra, le nuove contraddizioni. Servono nuove mappe
di Antonio Catalano - 24/09/2025
Fonte: Antonio Catalano
Premessa. Forse a qualcuno potranno sembrare vecchie questioni ma il fatto che si continui a usare una terminologia politica legata al Novecento mi fa pensare a quel generale che fa la guerra con mappe di trent’anni prima, come se il territorio, le armi, gli eserciti fossero sempre quelli di un tempo. Si continua a tenere la testa rivolta all’indietro, invece di guardare avanti e provare a capire come gestire le nuove contraddizioni.
Il capitalismo dopo la crisi degli anni ’70 entra nella fase globalista, che comporta lo scompaginamento della vecchia composizione sociale nella quale gli steccati di classe erano riconoscibili, anche se non così nettamente come potrebbe far pensare una certa concezione teorica. Mi riferisco alla teoria marxista che considera centrale, quindi strategico, il ruolo della classe operaia. La quale, indubbiamente, è riuscita ad acquisire una capacità di interdizione delle politiche capitalistiche grazie ad un’unità di classe che ha rafforzato il suo potere contrattuale. Classe operaia cosciente della sua centralità nel sistema produttivo, orgogliosa della sua “coscienza di classe”, forte di sue rappresentanze politiche e sindacali.
La stagione di lotta degli anni ’60 e 70’ otteneva il suo riconoscimento legislativo in leggi come lo Statuto del lavoro (con il suo importante art. 18). Lasciamo stare le cosiddette conquiste “civili”, quelle non sono il portato delle conquiste operaie, come una certa retorica invece ama ripetere, ma l’espressione di un processo di svecchiamento capitalistico della società, la quale doveva conformarsi a modelli di vita più sciolti, più liberi, per cui la veccia morale borghese era pietra d’inciampo. Il ’68 è l’apice di questo movimento anti-borghese impulsato dal modernismo capitalistico, che naturalmente metteva alla gogna i valori della “vecchia” società (con l’espressione matusalemme si ridicolizzava la mentalità “arretrata”). Insomma, bisognava smantellare i valori e gli stili di vita di una società rurale e moralisticamente borghese.
Per il marxismo la classe operaia è, come ebbe a dire lo stesso Marx, il “becchino del capitalismo”. Ma le cose sono andate così? La storia del Novecento ha ampiamente dimostrato la fallacia di questa “profezia”. Le rivoluzioni non hanno attecchito nel cuore del capitalismo avanzato (in Europa la “predestinata” Inghilterra, poi la Germania), ma in nazioni capitalisticamente immature o per niente capitalistiche.
La prima vittoria rivoluzionaria all’insegna del riscatto proletario si ebbe in Russia, dove nel 1917 il partito bolscevico di Lenin riuscì a incanalare malcontento e miseria generati dalla crisi successiva alla Grande Guerra nel moto rivoluzionario che portò al rovesciamento del potere politico. In Russia la società era sostanzialmente contadina (solo alcuni presidi industriali presso le grandi città, in particolare San Pietroburgo). Circa trent’anni dopo ci sarà la rivoluzione cinese guidata dal partito comunista di Mao (società contadina). E poi il ciclo di rivoluzioni a carattere prevalentemente anticoloniale, nelle quali la forza dirompente era costituita da enormi masse contadine e rurali. Rivoluzioni che, comunque, rivendicavano il carattere socialista.
Rivoluzioni che, pur rivendicando appunto il socialismo e il marxismo (ma non sempre), non sono avvenute nel rispetto del “canone” marxista. Questo, come detto, prevedeva che la rivoluzione sarebbe per prima scoppiata nel cuore del capitalismo industriale avanzato. Lenin elaborò, per sfuggire alla morsa della dottrina, la teoria della rivoluzione a partire dall’anello debole della catena imperialista.
Il giovane Antonio Gramsci lo aveva intuito, che la rivoluzione in Russia rappresentasse la smentita dell’ortodossia marxista. A ridosso dell’ottobre rivoluzionario scrisse infatti sull’“Avanti!” l’articolo “Una rivoluzione contro il Capitale” nel quale per Capitale non era da intendere il modo di produzione capitalistico bensì il Capitale di Karl Marx.
Negli ambienti rivoluzionari russi il Capitale di Marx è considerato il “libro dei borghesi”, di quelli cioè che ritenevano deterministicamente necessario passare prima per l’edificazione di una società capitalistica e democratica e solo dopo si sarebbe potuto pensare alla rivoluzione proletaria. Una concezione gradualistica che si esprimeva politicamente in posizioni “riformiste” – comunque sempre anti capitalistiche – ferocemente avversate da Lenin, che, a proposito dei suoi teorici, parlava di “marxisti della cattedra” (Kautsky), se non addirittura di opportunisti oggettivamente agenti della borghesia in seno al proletariato. Secondo Lenin, sarebbe stato il potere proletario a farsi carico di quelle riforme democratiche, come in parte poi avvenne con la NEP, uno strumento che servì ad evitare il tracollo economico della Russia socialista.
La classe operaia non era quindi “per sua natura” rivoluzionaria, mentre invece quella contadina esprimeva un carattere anti-capitalistico, motivo per cui si trovava in prima fila di movimenti antimperialisti e anticoloniali. Per queste ragioni il marxismo della cattedra non poteva attecchire in nazioni contadine, mentre godeva di un certo credito nelle nazioni capitalisticamente avanzate.
In Italia il partito comunista, il “più grande partito comunista del campo occidentale”, si fece carico, insieme al partito socialista e ai sindacati corrispondenti, “cinghie di trasmissione”, di perseguire, in modo diverso da laburismo e socialdemocrazia, una politica riformista che rappresentasse gli interessi sia della classe operaia che della nazione.
Ai “marxisti rivoluzionari” rimasti legati al canone marxista ortodosso della centralità della classe operaia per una prospettiva rivoluzionaria non andava bene, infatti accusavano il Pci di tradimento, opportunismo, revisionismo per via della sua politica riformista. Era la cosiddetta estrema sinistra, o sinistra rivoluzionaria. Questo spiega i suoi continui richiami moralisteggianti agli operai di fabbrica rei di rinunciare al dovere rivoluzionario, alla missione storica da compiere in nome e per conto di tutto il proletariato, di tutti gli sfruttati. (Si veda il bel film di Elio Petri “La classe operaia va in paradiso”.)
E quando gli operai, non in quanto classe per sé, cosciente cioè di esserlo, ma in quanto operai in carne e ossa rivolgevano le proprie mire al miglioramento delle proprie condizioni sia di lavoro che vita, i “rivoluzionari” consideravano queste rivendicazioni come insufficienti se non addirittura il cavallo di troia del capitalismo.
Per cui questi soggetti, i duri e puri, quando hanno visto che non c’era più niente da fare, che la classe operaia, se non tutto il proletariato, era ormai “intrappolata” nel sistema, “imborghesita”, o l’hanno lasciata perdere o hanno cominciato a teorizzare nuovi soggetti, quelli di volta in volta più “incazzati”: gli infermieri, i macchinisti, l’operaio sociale, il migrante… il mondo arcobaleno.
L’attenzione si sposta su minoranze idealizzate, con un atteggiamento querulo verso i cattivi di turno quasi sempre in odor di fascismo. Non è più la maggioranza a interessare l’intervento politico ma minoranze radicalizzate che pretendono di accomodare il mondo secondo i propri particulari. Il linguaggio utilizzato perde qualsiasi riferimento di “classe”, sono gli “ultimi” ormai la nuova centralità, ultimi individuati in quei gruppi sociali che subiscono torti, emarginazione, discriminazione. Gli interventi politici tendono alla spettacolarizzazione, l’importante è la visibilità.
Il popolo è visto come cupo portatore di sentimenti retrivi, attratto da “derive” sociali e culturali fascisteggianti sempre e comunque. Si alimenta così una divaricazione tra mondo reale e mondo “desiderato”, il principio di irrealtà diventa la realtà.
In Italia la fine del vecchio ciclo si ha con la comunicazione Fiat della messa in cassa integrazione di 24mila operai, alla quale seguono lotte difensive, ipotesi di occupazione di Mirafiori, Berlinguer che va ai cancelli torinesi, uno sciopero di 35 giorni che si conclude in seguito alla “marcia dei quarantamila” (cifra non reale) di quadri, impiegati e capi reparto. Un duro colpo.
L’irrompere della globalizzazione smantella via via tutto quanto “puzza” di stato sociale e di solidarietà di classe. Si avviano le grandi privatizzazioni, lo smantellamento della normativa del lavoro considerata ostacolo a un mercato che non deve soffrire né lacci né laccioli. Lo stesso sistema politico generato dalla Costituzione è azzerato grazie all’operazione Mani Pulite (la cui intelligenza era naturalmente altrove, immaginate dove) per dar vita alla cosiddetta Seconda repubblica, basata su maggioritario e rafforzamento dell’esecutivo. Dopo l’89 serviva un’Italia diversa, quindi una classe dirigente diversa.
Il 3 febbraio 1991 il Pci si scioglie per diventare Pds. Finisce così l’“anomalia” italiana, si può quindi dar corso al riassetto della nazione in chiave globalista, in ossequio degli interessi sovra ed extra nazionali di potenti concentrati di potere finanziario, politico e militare. La fine del Pci non fu un fulmine a ciel sereno, ma preparata da un lavorio lento e ostinato, innanzitutto sostenuto da forze “interne”. Si pensi al lavoro di Napolitano e della sua corrente “migliorista”, che ormai da tempo brigava con Washington; mentre, sul lato sindacale, dal lavoro svolto da Luciano Lama che già nel 1977 (approvata poi dalla “svolta dell’Eur” del febbraio '78) predicava la fine del salario inteso come “variabile indipendente” dal mercato, il salario deve cioè dipendere dalle variazioni di mercato. Non si attribuisca solo a Craxi la responsabilità dello smantellamento della Scala mobile (al referendum la posizione di Pci e Cgil fu sostanzialmente NI).
Oggi si continua con vuota retorica a parlare di sinistra (stesso discorso per la destra, anche se qui bisogna fare ragionamenti diversi) come se questa fosse, seppur epigona, derivazione di quella storica. Questa sinistra è tutt’altra cosa, non solo non rappresenta più gli interessi della classe operaia e del proletariato, ma è del tutto interna, meglio dire organica, al neo liberismo globalista uscito vincente dalla Guerra fredda. La composizione sociale di questa “sinistra” è formata da quei ceti che la globalizzazione ha baciato in fronte regandogli indubbi privilegi di classe e da quelle aree giovanili urbane studentesche affascinate dalle distopie transumaniste propalate dagli ambienti culturali del “capitalismo filantropico”. Mentre la classe operaia e i ceti popolari sono lasciati a se stessi, gli unici ad interessarsene sono quelle aree di “destra” che ne raccolgono alcune istanze, principalmente quelle legate alla sicurezza e alle identità messe in discussione dalla livella equalizzatrice del progressismo liquido neoliberista.
Ma la Storia non finisce, il potere capitalistico continua a esprimersi contro le classi popolari, composte da un amalgama sociale che comprende una classe operaia che non ha più “coscienza di sé”, ceti medi impoveriti, piccole e medie realtà imprenditoriali, partite Iva. Settori sociali che non possono avere nel marxismo la propria teoria di riferimento (anche se rimane, almeno per me, fondamentale la lezione marxiana, intesa come metodologia di analisi e indagine sociale).
È necessario quindi elaborare una teoria politica che tiene conto di questa realtà storica, non dei fantasmi del passato, una teoria grazie alla quale si può lavorare politicamente per collegare gli strati sociali colpiti dalla crisi.
Non agire in questa direzione significa agitare vecchie e consunte bandiere ma soprattutto consegnare questa nuova composizione a movimenti politici che utilizzano alcuni elementi di evidente contraddizione (mancanza di sicurezza nelle città, presenza incontrollata di immigrati, le assurdità dell’ideologia woke…) per neutralizzare e funzionalizzare la rabbia a favore di un sistema di potere che spinge in direzione della guerra, quindi del riarmo e di politiche sociali ristrettive. Rimane solo un continuo gridare isterico contro un fascismo onnipresente, privo ormai di qualsiasi riferimento storico. Un antifascismo sciocco e inconcludente, comunque legato agli ambienti dem internazionali (hanno tifato Kamala Harris alle ultime presidenziali Usa), quelli della finanza globalista, foglia di fico di élite scaltre e intelligenti che vedono in esso la possibilità di accreditarsi presso determinati settori “progressisti” e pseudo antagonisti.
Che fare, quindi? Serve sintonizzarsi con gli interessi, gli umori, direi pure le sensibilità, di quei settori sociali che non hanno nulla da guadagnare dal neoliberismo globalista e dalle sue distopie transumane utili solo a rendere i popoli privi di qualsiasi identità. I nostalgici possono avere la mia comprensione, anche la mia simpatia, ma oggi non è più tempo di nessuna nostalgia, serve lavorare per elaborare una teoria della sovranità popolare capace di riprendere in mano la bandiera della giustizia sociale e della solidarietà tra i popoli, contro le rinate spinte al riarmo e alla guerra.