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"Docenti-facilitatori e giornalisti-opinionisti: il declino è servito"

di Luciano Lanna - 15/09/2019

"Docenti-facilitatori e giornalisti-opinionisti: il declino è servito"

Fonte: Start Magazine

Nel Novecento le fasi espansive e di crescita della società italiane sono sempre state accompagnate in parallelo da una riforma dei processi d’istruzione e da un avanzamento del sistema informativo. È stato così negli anno Trenta come negli anni Sessanta, quando il nostro paese ha conosciuto le due principali “svolte” in quella modernizzazione che lo portò nei primi anni Ottanta ad affermarsi come la quinta potenza industriale nel mondo. Una buona scuola pubblica e un circuito giornalistico maturi e diffusi sono infatti in grado, quando tali, di costituire quell’ecologia culturale che sola può determinare le condizione vere di crescita di una società.
Si deve purtroppo riconoscere invece che, nello scenario attuale, la radiografia nel profondo sia del nostro sistema scolastico pubblico che delle condizioni del sistema informativo vadano in tutt’altra direzione. Quando, per semplificare, alle figure del docente e del giornalista si sono andate sostituendo quelle del “facilitatore” e dell’“opinionista” il risultato non può essere che quello di una collettività in declino e con poche prospettive di espansione.
Sul fronte del sistema scolastico, recentemente è stato il filosofo Carlo Sini a lanciare l’allarme dalle colonne del Corriere della Sera: “Servono insegnanti veri, basta con i facilitatori”. L’anziano pensatore è infatti intervenuto sul tema della difficoltà rilevata in più tavoli a garantire ai nostri giovani una formazione adeguata ai tempi. È già di qualche anno fa una denuncia di seicento docenti universitari i quali hanno sottoscritto un documento che attesta che in stragrande maggioranza gli studenti non sanno scrivere correttamente in italiano e, quindi, compiono errori ortografici e sintattici da terza elementare quando arrivano nelle facoltà universitarie. E questo è solo un aspetto. Molti altri sono quelli rilevati quotidianamente da coloro che nella scuola quotidianamente vivono e lavorano, docenti, ispettori e dirigenti. La scuola, si dice per esempio, è stata via via ridotta solo a un presidio sul territorio che si fa carico degli problemi dei giovani e delle loro famiglie in una società complicata e travagliata, in un tessuto sociale di relazioni frantumate. E dagli anni Novanta in avanti attraverso provvedimenti legislativi successivi che hanno introdotto le logiche – necessarie ma complementari – dell’inclusione, dell’integrazione, del dialogo scuola-famiglia – una strana eterogenesi dei fini ha come consentito al sistema scolastico di puntare più su questi nuovi obiettivi che su quelli tradizionali della formazione e della crescita culturale. La scuola italiana ha finito per aggiungere esperienze e progettualità, anche extra-scolastiche, tese a radicarsi nel territorio, a proporre la relazione scuola-lavoro e così via. Ma per una serie di fattori, anche contraddittori, la figura del docente si è progressivamente trasformata, soprattutto nella percezione collettiva e nelle famiglie, in quella di una sorta di sorvegliante e tutore dei giovani, in cui spesso le competenze richieste sembravano più quelle di un assistente sociale, infermiere, psicologo e animatore di comunità che in quella di educatore e formatore. Aggiungendo a ciò la perdita costante di prestigio sociale dell’insegnante e del professore, soprattutto a causa degli stipendi sempre più appiattiti in basso tanto che oggi il docente italiano guadagna meno di un operaio e con una remunerazione mensile che è la metà di un suo collega tedesco o francese. E non si può tacere in questo processo il ruolo del sindacato che per anni ha preferito impegnarsi sul facilitare l’ingresso in cattedra dei precari piuttosto che puntare sull’aumento degli stipendi. Nel complesso, il risultato è stato quello di abbassare l’attrattiva per la professione docente da parte di giovani laureati di qualità che hanno preferito professioni oggettivamente più remunerative.
Dati tutti questi fattori, il risultato, come sottolinea Sini, è stato quello di arrivare a una sistema scolastico in cui – tranne gli sforzi individuali dei singoli insegnanti – ha finito per eclissarsi il primato della formazione culturale dei ragazzi. Per dirla con una sola parola, al ruolo educativo e formativo dell’insegnante è andata sostituendosi la logica del “facilitatore”: “bestemmia pedagogica – a dire di Sini – che offende lo spirito degli alunni e che priva i cittadini del diritto all’accesso all’alta cultura”. Ovviamente, c’è professore e professore. E grazie a molti singoli la scuola italiana riesce ancora ad avere dei risultati. Ma nell’insieme è scomparsa la percezione pubblica e nell’immaginario del ruolo pedagogico e formativo dell’istituzione scolastica. Da cui il fatto che una porzione crescente e impressionante di studenti non sono più in grado di leggere e di comprendere testi di media difficoltà che non sanno scrivere correttamente e non sanno parlare decentemente, addirittura nei licei e ormai anche nelle università. Perché quello che si è soprattutto appannato è il percepire la scuola come il principale canale di accesso alla cultura e alla grande cultura. Si è invece puntato a pretese “competenze” introdotte recependo troppo velocemente linee guida e indicazioni europee oppure modelli anglosassoni senza un contesto adeguato e una metabolizzazione approfondita, tendendo a tralasciare o a porre in secondo piano quelle conoscenze che tutti i cittadini hanno diritto di essere aiutati ad acquisire.
Insomma, ha finito col prevalere un’idea di scuola vissuta come il parcheggio mattutino per i minori, lì intrattenuti senza mezzi e senza una visione comune da insegnanti costretti a svolgere ruoli che non hanno a che fare con la paideia, e confondendosi semmai con un ruolo ibrido tra il baby-sitter, l’assistente sociale, lo psicologo, l’agente di pubblica sicurezza, il mediatore familiare. Ma siccome gli insegnanti debbono comunque insegnare a leggere, scrivere e far di conto, sul piano più strettamente didattico e disciplinare sono finiti per diventare i già citati “facilitatori”.
Il quadro di declino è del resto analogo se spostiamo lo sguardo sul mondo dell’informazione. Anche qui, c’erano una volta i giornalisti, i cronisti, gli scrittori dell’informazione, i grandi raccontatori dell’attualità. L’irruzione della rivoluzione telematica e digitale e l’interconnessione globale non sono diventati in Italia elementi e fattori di una globalizzazione e modernizzazione del sistema informativo in grado di amplificare e potenziare quel sistema del villaggio globale che aveva raggiunto dei livelli di crescita negli anni della televisione, quando come scrisse Umberto Eco tutti gli italiani cominciarono a parlare la stessa lingua e a superare l’analfabetismo di massa. Anche grazie a Indro Montanelli, a Enzo Biagi e altri protagonisti del giornalismo scritto e radiotelevisivo. Oggi, mentre le testate chiudono, i giornali giacciono invenduti in edicola, e le persone pensano di essere informati grazie ai social network, alla figura del giornalista si è sostituita quella dell’“opinionista”. Si tratta di quella figura che lavora in una testata, che si tramuta nella sua postazione fonte di reddito principale, ma poi va in tv a pronunciare le sue “opinioni” nei vari talk, interviene o addirittura è conduttore di un programma radiofonico, aggiorna il suo eventuale blog, lancia continuamente tweet e fa all’occorrenza dirette Facebook e, nell’insieme di queste funzioni, cui si aggiunge a volte la pubblicazione di qualche instant book, tende ad affermarsi come uno degli opinionisti che contano, forte della propria “visibilità”. Accendendo la tv si può vedere come si tratta di una ristretta compagnia di giro – trenta-quaranta persone - che vengono ormai considerati i protagonisti del nostro sistema dell’informazione. Un palcoscenico che nel suo complesso – come ha annotato Giampiero Mughini – finisce solo per “dar lustro e celebrità a influencer dei quali è talvolta arduo indicare dov’è la linea di separazione tra l’eventuale genio della comunicazione moderna e il ciarlatano di provincia”.
Un’Italia che inverta la tendenza attuale verso il declino progressivo? Si dovrebbe ricominciare, a nostro avviso, proprio dalla scuola e dall’informazione rilanciando le vere professionalità e le più autentiche deontologie professionali. Archiviando quindi le figure dei “facilitatori” e degli “opinionisti” e ricominciando, alla grande, dagli insegnanti, dai maestri e dai professori, e dai giornalisti.