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Dopo il morbo ci aspetta un conflitto sociale durissimo

di Marco Tarchi - 25/03/2020

Dopo il morbo ci aspetta un conflitto sociale durissimo

Fonte: Insideover

Oggi si registrano i malumori di giornalisti e politici rispetto alla strategia di comunicazione del premier Conte, soprattutto dopo il messaggio rivolto alla nazione di ieri che è avvenuto tramite la pagina facebook del premier anziché sulla Rai. I giornalisti affermano che questo non sia un metodo consono e soprattutto Enrico Mentana è stato molto duro domandandosi che bisogno ci fosse di questo messaggio “emozionale a reti unificate”, dato che mancava il decreto etc. Dall’altra parte si trovano i sindaci, soprattutto quelli lombardi, che ieri hanno firmato un appello affinché il governo adottasse al più presto misure restrittive (e oggi il discorso di ieri di Conte ha ricevuto il plauso del sindaco di Milano Sala). Siamo di fronte a un colpo di mano da parte del governo come qualcuno sostiene? Siamo fuori dalle regole istituzionali, costituzionali, consuetudinarie oppure è il nostro Paese a essere particolarmente “difficile” perché tutti hanno da dire tutto e il contrario di tutto?
Ormai da qualche anno la comunicazione politica ha spostato il suo centro dai media tradizionali alle piattaforme telematiche. Non c’è quindi di che stupirsi se anche nell’attuale crisi molti attori politici preferiscono i canali online alla tv per lanciare i loro messaggi. I social media favoriscono, nel bene e nel male, un contatto più diretto, e soprattutto più emotivo, con i loro frequentatori, hanno in generale un maggiore potere di suggestione. Il risvolto della medaglia è che suscitano in chi vede e ascolta una sensazione di orizzontalità che stimola alla replica, alla discussione, al plauso ma anche all’insulto. Non sono, insomma, canali adatti alla riflessione, non offrono le condizioni né i tempi per meditare, come è tipico – ad esempio – della carta stampata. E in un frangente così segnato dalla disponibilità alle emozioni, si può dubitare che comunicare provvedimenti ufficiali via facebook o twitter sia una scelta lungimirante. Occorre però tener conto del fatto che ormai quasi tutti i soggetti coinvolti in questa crisi scelgono questo modo di esprimersi. Basta vedere come anche in tv rimbalzano di continuo gli appelli, gli interventi e le performance in video di virologi, medici ospedalieri, infermieri, sindaci, presidenti di regione, poliziotti e carabinieri, attori, cantanti professionisti e improvvisati, parenti di malati e defunti e via elencando. È un’epidemia nell’epidemia.
 
Come giudica Lei il comportamento del premier in questa fase e nella gestione della crisi?
L’impressione è che, alle prese con il caotico affollamento di domande, aspettative e preoccupazioni che sta caratterizza queste settimane, stia procedendo a vista. Cerca di giocare l’unica carta di cui ha sempre disposto, quella dell’aplomb istituzionale, ma sconta il fatto di non essere ancora diventato un professionista della politica e quindi di non saper dosare esattamente i toni a seconda delle circostanze. Probabilmente, come sempre è accaduto quando ci si trova a dover guidare un paese in una situazione di emergenza, ne trarrà un giovamento in termini di popolarità immediata: è accaduto anche al presidente francese Hollande dopo i gravi attentati islamisti. Ma quella vicenda insegna: una volta rientrati nella normalità, dubbi e critiche tornano a galla, nell’opinione pubblica, più forti di prima.
 
I malumori di Giorgia Meloni, che è arrivata a dire che quella di Conte sarebbe una comunicazione di regime si uniscono a quelli di Renzi che ha affermato che Conte pensa di essere al Grande Fratello e a quelli di Salvini. Quanto queste dichiarazioni sono nell’interesse del Paese e quanto, invece, nell’interesse personale e dei partiti soprattutto quelli di centrodestra che avevano i favori dei sondaggi e che con questa crisi sembrano perdere terreno (con l’indice di gradimento di Conte superiore al 71 percento)?
La politica, soprattutto in democrazia, è fatta di conflitti e di competizioni per guadagnare consenso. Molti, che con la politica non hanno dimestichezza e tutt’al più si limitano a infilare periodicamente una scheda nell’urna, non vogliono rendersene conto e si indignano se, anche in momenti gravi, i partiti cercano di trarre vantaggi dalle loro prese di posizione. La strategie dell’“union sacrée”, degli appelli all’unità per far fronte al pericolo, hanno ormai una lunga storia. Sul momento giovano a chi le redini del governo in mano, conferendogli un’aura di serietà e pacatezza, ma fanno poi in fretta a dissolversi. Ci aspettano probabilmente, nei prossimi mesi, sondaggi a zig zag, con brusche cadute e risalite e viceversa. Ciò detto, non tutti sanno gestire efficacemente i propri ruoli e possono rischiare scivoloni: Meloni e Salvini mi sembrano esagerare spesso nei toni, e i loro appelli a una larvata militarizzazione della società (soprattutto nel primo dei due casi citati), a chiusure totali e a coprifuoco rischiano di farli apparire ancora una volta come degli sconsiderati che vogliono soffiare sul fuoco delle paure, che già è massicciamente attizzato da un’informazione largamente ansiogena.

La vicenda legata al vero e proprio furto di mascherine e ventilatori polmonari destinati all’Italia e provenienti dalla Cina da parte di Polonia e Repubblica Ceca è un fatto piuttosto grave. C’è stata una risposta sufficientemente forte da parte del nostro governo? Cosa si dovrebbe fare in questi casi? E l’Europa come dovrebbe intervenire?
Su vicende delicate come questa è bene disporre di tutti i dati necessari prima di pronunciare giudizi. Se tutto non si fosse svolto nel rispetto delle regole e con la necessaria circolazione delle informazioni, si tratterebbe di un atto deprecabile, ma è inevitabile, temo, che in una fase così concitata per l’intera Europa episodi di egoismo nazionale possano verificarsi. Purtroppo, le epidemie diffondono panico ovunque ed acuiscono fortemente le tendenze di ogni Stato a guardare ai suoi soli interessi immediati. E la crisi attuali ci sta mostrando in modo molto evidente che la tanto vantata solidarietà sovranazionale ha più di una smagliatura. L’Unione europea, verosimilmente, cerca di evitare di mettersi in urto con questo o quello dei paesi che la compongono e di fornire a tutti l’immagine della mamma premurosa e generosa: ma, date la sua struttura e la politica fin qui condotta, è un ruolo estremamente difficile da recitare credibilmente.

In che Italia ci troveremo a vivere fra un anno? C’è una differenza tra la grande crisi del 2008 e quella alle porte causata dalla pandemia?
Mi guardo bene dall’azzardare previsioni, anche se, al momento, non posso nascondere una sensazione di preoccupazione molto forte su tutti i piani: medico, economico, ma anche più largamente sociale. Non sono fra coloro che si entusiasmano per la presunta riscoperta del patriottismo che si esprimerebbe nei canti alla finestra o negli striscioni appesi ai balconi; temo che dietro ci sia nella maggior parte dei casi soprattutto, quando non solo, la voglia di aggrapparsi alla dimensione collettiva del dramma per alleviare un disagio strettamente individuale o familiare. Il che è assolutamente comprensibile, ma mi impedisce di dare per scontato che “andrà tutto bene” o che impareremo da questi eventi la lezione di una solidarietà profonda. Quando la disattivazione del sistema produttivo e il crollo di settori che impiegheranno anni, forse molti, per riprendersi produrranno un’enorme quantità di disoccupati e il livello di ricchezza sarà nettamente decresciuto, mi chiedo se non si rischierà piuttosto una fase di forte e disgregante conflittualità interna. Mi auguro, ovviamente, che questi timori siano infondati, ma sarei ipocrita se li nascondessi.

Tommaso Bedini, Business Insider Italia