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È una giustizia a senso unico, che non combatte la violenza ma amministra l’obbedienza

di Pino Cabras - 29/12/2025

È una giustizia a senso unico, che non combatte la violenza ma amministra l’obbedienza

Fonte: Pino Cabras

Il 27 dicembre 2025, a Genova, alcuni cittadini palestinesi sono stati arrestati con l’accusa di raccolta di fondi in favore di Hamas. Le indagini si basano anche su dossieraggi e input informativi provenienti da apparati israeliani, recepiti dagli organi di sicurezza italiani. La responsabilità penale individuale sarà accertata dai tribunali. Ma il quadro politico in cui questi arresti si collocano merita di essere guardato in faccia, senza ipocrisie.
Da oltre un decennio, infatti, il principale finanziatore di Hamas non è stato certo un circuito clandestino, bensì uno Stato sovrano: il Qatar. Questo non è avvenuto all’ombra di una qualche cospirazione, bensì alla luce del sole, con il consenso esplicito di Israele e Stati Uniti.
Penserete: magari lo dice qualche giornalista d’inchiesta, uno a cui affibbiare l’etichetta di “complottista”.
Invece no, si tratta di un pezzo grosso che più grosso non si può: il primo ministro e ministro degli Esteri qatariota Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, che al Doha Forum, intervistato da Tucker Carlson, ha ricordato come fu Washington a chiedere a Doha di ospitare l’ufficio politico di Hamas nel 2012. Tra il 2012 e il 2023, il Qatar ha trasferito a Gaza circa 1,8 miliardi di dollari, fino a 30 milioni al mese, in coordinamento con Washington e Tel Aviv.
Questo non ha impedito al Qatar di diventare un partner strategico dell’Italia: accordi energetici di lunghissimo periodo, cooperazione industriale e militare, visite di Stato, gruppi parlamentari di amicizia. Il Presidente italiano Sergio Mattarella ha visitato Doha nel gennaio 2020. L’Emiro del Qatar ha fatto una visita di Stato in Italia nel febbraio 2023.
Questi momenti formali si accompagnano a frequenti incontri regolari tra ministri degli Esteri e altri dialoghi istituzionali, come il Memorandum d’intesa sul Dialogo Strategico, firmato nel dicembre 2020 per rafforzare la cooperazione su temi globali e multilaterali. Non c’è stato nel frattempo alcun recesso dall’Accordo di cooperazione nel settore della difesa fra i due Paesi, che nel 2011, al voto di ratifica alla Camera, non ebbe nemmeno un voto contrario.
Nel 2018 è stato istituito alla Camera il Gruppo di amicizia parlamentare Italia-Qatar, con Ugo Cappellacci (Forza Italia) come responsabile italiano. Il gruppo è rimasto attivo come intergruppo; nella XIX legislatura, nel 2024, l’on. Salvatore Caiata (Fratelli d’Italia) è indicato come capo dell’Intergruppo parlamentare per i Paesi del Golfo, in relazione ai rapporti con il Qatar.
In Sardegna, con la benedizione del governo di Roma, le giunte regionali tagliavano servizi sanitari nei territori per pompare denaro all’ospedale Mater Olbia e far entrare il Qatar nell’affare. Nell’isola il Qatar ha investito e lucrato in materia di trasporti, turismo, edilizia ed energia.
Nessuna sanzione. Nessun processo. Nessuna indignazione. E qui parlo solo di Hamas, ma il Qatar e le altre petromonarchie hanno inondato di dollari interi eserciti di jihadisti che violavano qualsiasi convenzione bellica nelle loro azioni terroristiche di massa, cui si aggiungeva il retroterra logistico di un paese NATO come la Turchia.
Dunque, la domanda è inevitabile: perché ciò che è stato negoziato, autorizzato e normalizzato a livello statale diventa improvvisamente terrorismo quando riguarda singoli palestinesi senza potere?
Il problema non è solo Hamas. È l’uso selettivo del giustizialismo. Durissimo con gli sconfitti, inesistente con gli alleati.
L’Italia continua a sostenere le operazioni militari israeliane, incluse rappresaglie collettive, omicidi mirati extraterritoriali, bombardamenti che colpiscono civili e funzionari internazionali. Dovremmo allora arrestare chiunque collabori con un governo il cui primo ministro, Netanyahu, è oggetto di un mandato di arresto internazionale per genocidio?
Il diritto alla resistenza è riconosciuto dal diritto internazionale e non dipende dalla simpatia politica che il soggetto suscita. La vera rimozione riguarda un’altra domanda, che i doppiopesisti evitano accuratamente: quale alternativa concreta è stata offerta ai palestinesi?
Ai tempi della Prima Repubblica era una domanda chiave che formulavano in modo solenne tutti i maggiori leader politici. Dopo quarant’anni di declino e declassamento dell’Italia abbiamo i minori leader politici, i quali evitano come la peste diporsela. E anziché accusare i massicci crimini di guerra di Tel Aviv, come faceva il presidente Pertini, abbaiano ai movimenti che difendono il diritto del popolo palestinese, come fa Calenda: qualcosa è andato storto nel passaggio da Pertini a Calenda.
Vengo dalla Prima Repubblica, mettiamola così, e come molti della mia generazione è allora che ho imparato l’essenziale della questione israelo-palestinese. Guardavo con naturale simpatia al mondo laico e nazionale di Yasser Arafat, che non è stato sconfitto per inerzia o fatalità, ma scientemente demolito: dagli esponenti del Sionismo Reale, in convergenza con leadership occidentali subalterne al mondo neocon, e in combutta con quel fondamentalismo che le petromonarchie del Golfo hanno usato come leva per disinnescare il nazionalismo arabo laico (intanto che gli emiri entravano in tutti i consigli di amministrazione che contano in Occidente, compresi i “board” delle conglomerate che oggi puntano tutto sul riarmo e sulla demolizione delle classi medie).
È da lì che nasce la mia impostazione, che perdura intatta: uno sguardo laico e politico che mi fa guardare con assoluto disincanto a Hamas, senza bisogno di demonizzazioni rituali. Proprio per questo ho sostenuto l’appello per la liberazione di Marwan Barghouti: davanti a tanti che rimuovono il problema, occorre invece indicare un’alternativa politica reale, laica, fin qui deliberatamente soffocata.
Chi oggi, nel mondo politico, pretende di usare la leva giudiziaria senza un filo di garantismo, fingendo di ignorare questa storia e queste responsabilità, semplicemente non ha le carte in regola.
Le urla dei politici contro il movimento che si batte per i diritti dei palestinesi sono un lavoro sporco in favore di Bibi il Genocida, che, dal suo canto, viene visto dai capitani del riarmo europeo come uno che fa il lavoro sporco per loro.
Da anni Israele lavora a desertificare tutti i corpi intermedi palestinesi: associazioni caritatevoli chiuse in Cisgiordania, reti di welfare smantellate, qualunque canale autonomo criminalizzato con il pretesto di “tagliare i flussi a Hamas”. L’obiettivo è chiaro: controllare integralmente i mezzi di sopravvivenza, rendere i territori inabitabili e ridurre una popolazione intera a massa dipendente da aiuti concessi dall’alto. E siccome quell’«alto» oggi è Israele, gli aiuti concessi all’universo concentrazionario palestinese arrivano con il contagocce. Figuriamoci con quale occhio a Tel Aviv guardino, ovunque si trovi nel mondo, a chi vorrebbe bucare il loro criminale Muro della Fame. Puntano ogni risorsa d’intelligence per stigmatizzare come struttura terroristica chiunque voglia rompere l’assedio: da anni e anni il mantra è dichiarare costantemente che questo o quello sono organici ad Hamas. Non temono le armi, temono chi parla e scrive la verità. A Gaza ammazzano centinaia di giornalisti, in Europa basta accusare di terrorismo chi parla liberamente.
Persino l’ONU è tollerata solo se tace. Lo dimostrava già vent’anni fa il caso di Richard Falk, relatore speciale espulso per aver criticato l’occupazione (non penserete davvero che le calunnie e le persecuzioni di Francesca Albanese siano una novità?). E lo dimostrano i bombardamenti che non risparmiano neppure i funzionari legati al sistema delle Nazioni Unite.
In questo contesto, colpire singoli palestinesi in Europa non serve a prevenire il terrorismo. Serve a escludere qualsiasi soggettività intermedia, qualsiasi forma di autonomia politica e sociale che non sia sotto controllo israeliano. È una giustizia a senso unico, che non combatte la violenza ma amministra l’obbedienza. E il caso di Genova ne è l’ennesima, eloquente conferma.