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Farsi invisibili

di Giuseppe Gorlani - 27/03/2024

Farsi invisibili

Fonte: Giuseppe Gorlani

«Durante l’età di Kali, il gran Dio Shiva, il pacificatore, blu scuro e rosso, si rivelerà sotto mentite spoglie per ristabilire la giustizia».1

Nell’ottica dell’intelletto puro, l’habitus principiorum della scolastica, non vi è alcuna espansione della coscienza: non la coscienza si dilata, bensì l’ignoranza si riduce. La Realtà-Coscienza è già, è sempre ed è inappuntabile, non suscettibile di alcuna modificazione. Volerla svelare è il gioco provvidenziale dell’intelligenza divina che non accetta l’irrimediabilità dell’ignorare.

Nel lasciarsi macinare dalla stupidità non c’è alcuna libertà. Una sola opzione è lecito esercitare: tacere, fermarsi, stracciare ogni quantità e distanza, senza aspettarsi nulla all’infuori dell’Essere Qui. In altre parole: farsi invisibili. Quel che ne consegue lo si può esprimere assai imperfettamente; soltanto l’Arte nella sua eccellenza gli si approssima. Ryokan, monaco e artista, amava giocare con i bambini e non aveva nulla da dire quando lo si interrogava su questioni dottrinali.

Ryokan era arte, i bambini sono arte. E così pure gli animali, le nubi, queste meravigliose colline boscose che i mentecatti di turno vorrebbero, in nome di un falso ‘utile’, deturpare con mostruose pale eoliche e cave.

 «La verità non la trovi leggendo molti libri, ma in una sola parola.

Se mi chiedi cosa è questa parola: conoscere realmente il tuo cuore».2

 In certi libri trovi la bellezza, trovi il gioco delle corrispondenze, le chiavi per uscire dal servaggio all’apparenza, il potere delle bruniane “ligature”, la gratuità dell’autentico sapere, schegge di intuizioni luminose, la salutare amistà con altri umani (per gli umanisti i libri erano “persone”). Oppure vi trovi lo specchio dell’appetere insaziabile, le maschere dietro cui si cela la frivolezza. Il segreto sta nell’occhio. Verità e menzogna permangono vicine sin quasi a confondersi. Solo il re di se stesso sa distinguerle senza cadere in errore: con spontaneità svela l’equilibrio tra le più disparate forze universali, ne distilla la sintesi, risolvendo l’apparenza˗gioco della molteplicità nell’Unità impensabile. Questo maharaja spirituale, di cui lo yoghin è paradigma, «si colloca al centro dell’universo, nel cuore del mondo».3

Oggi sembra che tutte le scelte importanti stiano nelle mani dei peggiori. «La terra infine è governata dalla razza dei miei cani neri», dice Ecate.4 Costoro non recedono dall’investigare le più tragiche possibilità tra quelle che gli si spiegano dinnanzi; per evitare di parteciparvi passivamente non resta che farsi invisibili agli occhi ottenebrati di tali demagoghi nefasti, sottrarsi al loro dominio, erodendolo per vie più o meno sottili, accerchiandolo con la gloria del Sole.

Il gotha dei degenerati non ha la vista acuta che gli si attribuisce. Vede solo quello che rientra nella gamma ristretta degli automatismi appropriativi. La più alta nobiltà gli sfugge; le cose essenziali gli risultano incomprensibili. La norma ermetica del volere senza desiderare, mettendo le proprie facoltà al servizio del bene del mondo, sta fuori dalla sua portata. I volgari soffiatori che la compongono sono abili – bisogna ammetterlo – nel perseguire i propri fini imperniati sul distruggere e sul falsificare, e tuttavia non sono propriamente intelligenti.

Nell’Anfiteatro della Saggezza Eterna, dove con l’inganno alcuni sono riusciti a penetrare e ad apprendere poche cognizioni marginali, sono stati smascherati e respinti. «Gli spiriti ostili alla nostra opera temono la luce del Sole»,5 dice Enrico Khunrath in De igne magorum. Pertanto quello che “l’Eletto di Dio” comprende, restituendo il Tre all’Uno, la sua decisione, anche dopo tale illuminante comprensione, di rimanere uomo tra gli uomini e infine l’autorità e il magistero che gli si donano, scaturiti da un paziente e costante lavoro su di sé, sul modello dell’archè, restano inattingibili ai cuori atrofizzati degli sciocchi, votati alla rovina.

Le sorgenti piangono abbandonate dalle rane; il cielo azzurro si strappa le membra martoriate; le spiagge deturpate da cumuli di rifiuti non riescono più a sentire il mare; gli uccelli non sanno ove fuggire; l’aura chiara sopra i crinali dei monti emana una sofferenza sorda, provocata da eliche acuminate su pali dall’altezza babelica; a Gaza i palestinesi fuggono terrorizzati, accerchiati da sedicenti ex vittime trasudanti superbia e ferocia, mentre i nostri politici ipocriti approvano l’ennesimo sterminio di matrice nimrodiana; in India, il grande fiume dei sadhu, il Narmada, suscita baba che corrono, parlano con piccole tartarughe, sorridono e si indignano per difenderlo dall’avidità degli speculatori.

Tutte queste bestemmie possono essere raccolte nel palmo di una mano e sono l’hala-hala che Mahadeva (l’Atman nell’Anahata-chakra) beve, sono l’urlo di Cristo sul Golgota, Eli, Eli, lammà sabactani, sono il bersaglio verso il quale vola l’ira fredda del Teurgo sollecitato dall’urgenza che scioglie ogni impedimento, sono la spina della malinconia conficcata in profondità nel polmone. È un’illusione il mondo? Non lo si nega, né lo si afferma. Sia come sia, permane la necessità di volerlo equilibrato, dharmico. All’uopo ci si sdraia all’ombra di una grande quercia e si perfeziona, dentro e fuori di sé, la capacità di farsi trasparenti, invisibili, refrattari alla corruzione “democratica”, evocando la Giustizia. Giacché, come il giovane Hofmannsthal scrisse, penetrato da un raggio di viva intelligenza: «Giustizia è tutto […] giustizia è il principio, giustizia è la fine, e chi non lo comprende perirà».6

 Note

[1] Alain Daniélou, Siva e Dioniso, Ubaldini Edit., Roma 1980, p. 215.

2 Daigu Ryokan, Poesie di Ryokan, a c. di L. Soletta, La Vita Felice, Mi 2012, pp. 41, 42.

3 Gian Giuseppe Filippi, Il post mortem dei sadaka secondo la dottrina di Samkaracarya, Ekatos Ediz. 2022, p. 135.

4 Eusebio di Cesarea, cit. in Chiara Toniolo, Opus Numinum, Progetto Ouroboros, Mi 2020, p. 90.

5 E. Khunrath, Anfiteatro della Saggezza Eterna, Editrice Atanor, Roma 1973, Tavola IV, Il pentacolo di Khunrath.

6 Dalla prosa Giustizia, in Hofmannsthal tradotto da Cristina Campo, Ediz. Ripostes, Sa 2001, p. 9.