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Francesca Mambro: “Noi, in un mondo senza lavagne per buoni e cattivi”. Ricordo di Laura Braghetti

di Francesca Mambro - 21/11/2025

Francesca Mambro: “Noi, in un mondo senza lavagne per buoni e cattivi”. Ricordo di Laura Braghetti

Fonte: Il Sussidiario

Francesca Mambro, ex Nar, ricorda l’amica e “sorella” Anna Laura Braghetti, ex Br implicata nel sequestro e nell’omicidio Moro

Quando mi è stato chiesto un ricordo di Laura pensavo che non sarebbe stato possibile. Lei era ed è con noi sempre. Eppure da qualche parte in fondo al cuore so che vuol essere lasciata andare. Ripeteva come un mantra che bisognava trovare le parole per dare un senso al tempo della furia ideologica e a quello che si viveva ogni giorno nel dare la vita, l’amore per gli altri, per non lasciare nessuno nell’indifferenza.
Non vorrebbe che scrivessi di lei, come non voleva essere cercata e ricordata, se non per le opere che metteva in atto ogni giorno nella rete sociale che pervicacemente aveva realizzato. Eppure tutti sapevano dov’era e cosa facesse. Tanti le devono molto, la sua generosità è sempre stata una certezza per chi aveva bisogno di soluzioni, fossero esse “politiche”, intellettuali o sociali. Senza frontiere di alcun tipo.
Imprenditrice del sociale disperato e disperante, davanti a cui non si è mai arresa perché ogni vita è un unicum. E Lei lo sapeva bene, lo aveva vissuto nel suo attraversare senza sconti e senza facili giustificazioni ideologiche la scelta di decidere della vita e della morte dei “nemici”, e della sua, in quella cognizione del dolore di chi perde una persona amata.
La conobbi quando ero una ragazza di 23 anni mentre passeggiavo da sola – in quanto etichettata come mostro fascista – nella vasca di cemento del carcere speciale di Voghera, aperto per 99 brigatiste comuniste considerate pericolose. Eravamo sottoposte al regime speciale dell’articolo 90. Chiuse 23 ore al giorno, con una ora d’aria, e un colloquio al mese con i familiari sparsi per l’Italia.
Un regime duro, ma non eravamo facili al lamento, e poi eravamo state noi ad aver dichiarato guerra allo Stato, non il contrario, di che lamentarsi?
Mi gridò “ciao” da dietro le sbarre della sua cella. Il reticolato non lasciava vedere bene il suo viso, ma la voce era squillante e allegra e, soprattutto, inaspettata. Chi poteva mai rivolgermi quel ciao come se fossi una compagna di scuola, e non “la Mambro” da tenere in isolamento e con cui era vietato parlare su ordine del “collettivo di Voghera”?
Doveva trattarsi di una che non prendeva ordini da nessuno, oppure una matta. Perché in quelle celle non poche ci hanno lasciato la ragione. No, era Laura. Non mi disse il cognome. Eravamo entrambe di Roma e sapevamo di essere in fondo privilegiate, perché figlie del mondo. Commentammo la piccola gioia per le avvisaglie di primavera e la vittoria dello scudetto.
Sapeva che quella nostra conversazione era stata ascoltata dalle altre detenute, ma questo non le impedì di salutarmi e di darci un appuntamento per il giorno dopo. Lei sapeva che domani avremmo avuto lo stesso pubblico. Ero debole, ancora in convalescenza dopo le operazioni per le ferite del momento dell’arresto, ma quel giorno mi sentii forte, avevo trovato una sopravvissuta nel girone dei dannati e non mi sentivo più tale.
Negli anni successivi ci incrociammo più volte, nel vorticoso giro per le carceri speciali a cui tutte eravamo sottoposte in un tempo in cui i processi si facevano obbligatoriamente “in presenza”, e non in videoconferenza come adesso. Ogni volta ci salutavamo sempre più curiose l’una dell’altra. E ognuna continuò la sua vita penitenziaria, fra processi e trasferimenti da un carcere speciale a un altro.
Nell’89 approdammo per i rispettivi processi a Roma, nella sezione di massima sicurezza di Rebibbia. La disposizione del ministero era che venissimo tenute rigorosamente separate, ma noi riuscivamo a parlarci da vicino nei passaggi per i colloqui con avvocati e famiglie e scoprimmo di avere la stessa curiosità per gli esseri umani con cui volevamo vivere in comunione.
Da quel momento chiesi di stare con le brigatiste, e loro con me. Quando mi disse che voleva dividere anche la cella in cui dall’inizio della detenzione ero stata sempre sola, eravamo già amiche inseparabili. Iniziammo ad uscire dalla sezione per andare in biblioteca, agli incontri con i volontari della Caritas e dell’Arci, a qualsiasi attività dove, con un intelligente esperimento, la direzione del carcere lasciava che le “politiche” incontrassero le “comuni”.
Al di là delle etichette, donne messe a dura prova dalle loro scelte. Ragazze giovanissime, con il fine-pena segnato dalla morte per Aids, altre usate come contenitori dai corrieri della droga, figlie abusate con il destino scritto nel fascicolo giudiziario, madri con bambini detenuti in cella che conoscevano solo le parole “apri guardia chiudi guardia”. Quando ascoltavamo e intuivamo le tragedie familiari e sociali ci sembrava di essere delle collegiali privilegiate, perché avevamo famiglie che ci avevano cresciute e ci seguivano con quella cura che a tanti, troppi mancava.
Potevamo e volevamo fare qualcosa. Scrivemmo una proposta di legge per liberare le mamme detenute, sia che avessero figli in carcere sia che li avessero fuori. Una legge che prevedesse il lavoro di cura come alternativa al carcere, per liberare i bimbi da zero ai tre anni in cella con le madri, sia per ridare le mamme ai figli rimasti a casa spesso anche senza padre.
L’avvocato Ambra Giovene ci ascoltò e mise nero su bianco gli articoli di quella proposta che in seguito venne presentata in parlamento e, inaspettatamente, diventò legge. Laura non si fermava, e non ci volle molto perché ci fossero proposte per le ragazze tossicodipendenti malate e per chi poteva uscire e lavorare all’esterno.
Quando uscì, nel 1995, ideò progetti di inserimento sociale per detenuti e formò generazioni di operatori sia con “Ora d’Aria” che con la Cooperativa Pid che fondò per il reinserimento dei condannati e degli svantaggiati. E per me che non sarei uscita chiese dei colloqui come se la nostra convivenza avesse suggellato il grado di parentela: sorella.
Nel ’94 era andata definitiva la sentenza per la strage di Bologna e lei che non solo conosceva me e la mia storia, ma quella parte di storia del Paese degli anni 70, iniziò la sua battaglia per affermare la nostra estraneità alle stragi. Insieme a intellettuali, parlamentari, giornalisti, familiari di nostre vittime per altri reati mise insieme il Comitato “E se fossero innocenti”. Perché lei sapeva che il 2 agosto non eravamo a Bologna.
Questo le procurò non pochi problemi, perché se uccidere un fascista non era reato, difenderlo era addirittura una bestemmia per gli ambienti dei puristi rivoluzionari che nella loro vita avevano molto giudicato e poco operato.
Il nostro rapporto di amicizia portò alla stesura a quattro mani del libro Nel cerchio della prigione, che era la testimonianza di come due ragazze avessero messo in atto un processo di riconciliazione e pacificazione a dispetto delle narrazioni e dell’odio che aveva segnato la storia del Paese.
Quando i parlamentari dell’arco costituzionale, soprattutto quelli della sinistra con le foto di famiglia di Marx, Lenin e Mao ci vedevano insieme pensavano si trattasse di uno scherzo. Comuniste e fascista intorno allo stesso tavolo? Poi tutto si scioglieva e ci salutavano come se anche le loro vite su barricate diverse potessero ricominciare anche fuori, in una sorta di ragazzi della Via Paal.
Con Laura ci siamo raccontate i nostri mondi interiori, il dolore per i morti e per quella prigione da cui in realtà non siamo mai uscite. La consapevolezza per la sofferenza e l’ingiustizia che abbiamo visto, nostra e degli altri, è una prigione senza tempo. L’enorme pazienza che metteva nel suo lavoro sociale, nell’ideare progetti, nel partecipare a bandi, nel mettere insieme persone anche molto diverse, era guidato da un suo personale motto: “la nostra è merce avariata”.
Certo che è avariata, come siamo state avariate anche noi, un tempo. Siamo state all’inferno e abbiamo fatto di tutto perché questa storia di dolore avesse un senso per chi era sopravvissuto e per chi avrebbe voluto trovare parole per il dolore di ognuno.
Chissà se mai la rivedrò o sentirò di nuovo la sua voce. Lei mi sorride e, come padre Adolfo Bachelet, ci dice di essere certi del Bene.
E sarà nel lasciarli andare, nell’abitare quella distanza che resteremo insieme. Tutti, senza lavagne per buoni e cattivi.