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Gli USA non salveranno Israele da se stesso

di Salvo Ardizzone - 20/11/2025

Gli USA non salveranno Israele da se stesso

Fonte: Italicum

Gli Accordi del 9 ottobre hanno salvato Israele da se stesso (per adesso); l’hanno salvato dalla frantumazione della società e dello stato (ma quale stato? Ci ritorneremo) e dalle conseguenze delle sue azioni, ormai insostenibili. Riavvolgiamo il nastro: Netanyahu aveva derubricato la questione degli ostaggi a secondaria e voleva che le IDF “terminassero Hamas” – missione impossibile che esse hanno rifiutato – per ottenere la vittoria totale che rincorreva da due anni. Ok, Trump ha fischiato il fermo gioco, meglio, il suo rallentamento ma oggi, dopo 25 mesi, Israele è più che mai in bilico, e questo per diverse motivazioni. Primo: lo scemare delle ostilità ha attizzato il conflitto interno fra apparati e governo, e ha acuito le fratture di una società più che mai divisa. La nomina di David Zini - un messianico fondamentalista nazional-religioso - a capo dello Shin Bet, contrapposto al Mossad di David Barnea, ne è simbolo. Unito alle fratture che emergono nelle IDF, evento del tutto inedito. Secondo: Israele ha perso la sua immagine, con il suo dissennato comportamento ha dissipato l’incomparabile patrimonio costruito nei decenni dall’Hasbara. Di più. Paradossalmente, l’identificazione fra ebrei, israeliani e sionisti – costruita nel tempo per schermare i crimini di Israele con il macigno della Shoah - ora si ritorce su tutti gli ebrei, facendo ricadere su di loro l’orribile carnaio di Gaza. Terzo: i legami fra Israele e USA sono allentati, ripetuti sondaggi dicono che, per la prima volta, la maggioranza dell’opinione pubblica americana vede in Israele una fonte di problemi e di spese, non un partner, meno che mai un fratello. Quarto: oggi, il contesto geostrategico di Israele è peggiore di quanto non lo fosse prima del 7 ottobre. I paesi dell’area lo vedono come una minaccia ai loro interessi; una scheggia impazzita in preda a una a-strategica pulsione distruttiva ed autodistruttiva, con cui, prima d’ogni cosa, è inutile tentare di trovare accordi. Non solo. Prima aveva come nemico esistenziale solo l’Iran, ora s’è affacciata anche la Turchia che, a differenza di Teheran, è in crescente sintonia con Trump e gli fa sponda. E già che ci siamo, la vulgata imperante sui media mainstream, secondo cui l’Iran sarebbe in crisi profonda e l’Asse della Resistenza smantellato, è semplicemente fuori dalla realtà, pura propaganda al pari di quella diffusa dalle medesime fonti sull’Ucraina. Chissà perché tanti ormai rigettano le favole che sminuiscono e denigrano la Russia, ma continuano a prendere per oro colato quelle sull’invincibile potenza di Israele. Quinto: la Resistenza a Gaza non è affatto spacciata, e non lo sarà. L’unico modo sarebbe che le IDF entrassero nei tunnel dando il via a uno scontro sanguinoso protratto per mesi e mesi, e si sono ripetutamente rifiutate di farlo. Il fallimento delle Operazioni Carri di Gedeone 1 e 2 è conseguente a questo, come si afferma chiaramente nelle relazioni interne di Tsahal, fatte trapelare alla stampa nell’abito della lotta interna fra apparati che dilania l’entità sionista. La Resistenza lo sa e si sta rafforzando, saldando i conti con bande criminali sostenute da Israele e collaborazionisti. E per chiarezza: le storie su presunte guerre intestine fra i palestinesi di Gaza sono fole; la Deterrent Force, una formazione della Resistenza incaricata della sicurezza, sta eliminando le bande criminali e i collaborazionisti foraggiati da Israele. Le immagini, circolate il mese scorso, degli scontri con relative esecuzioni avvenute in una piazza a sud dell’Ospedale Giordano, si riferiscono allo smantellamento del clan Doghmosh, un noto gruppo criminale dedito a taglieggiamenti, saccheggi dei viveri e rapimenti, al pari di altri, come la cosiddetta Milizia Popolare “Israel-backed”, così autodefinitasi per mettere le cose in chiaro; una banda diretta da quel Yasser al-Shaabab, noto criminale fatto evadere dagli israeliani dalle carceri di Gaza e ampiamente pagato per razziare i camion con gli aiuti che riuscivano ad entrare nella Striscia. Ergo: Israele ha perso la guerra malgrado oltre due anni di combattimenti. Ora rischia di perdere se stesso. La processione di vertici americani a Gerusalemme dopo la tregua (Witkoff, Kushner, Rubio, J.D. Vance e lo stesso Trump) tende a controllarlo. Con assai dubbi i risultati: il 19 e il 29 ottobre violenti bombardamenti sono ripresi su Gaza, a stento contenuti dall’Amministrazione USA per cui è imperativo che Israele si fermi. Emblematica la telefonata fra Trump e Netanyahu: “Bibi, non puoi combattere il mondo!”, ovvero, nel contesto dell’accesa conversazione: no alla prosecuzione del conflitto, no all’annessione della Cisgiordania, no al continuo tentativo di trascinare gli USA in una guerra. La laconica risposta del Premier israeliano è stata: “Lo capisco”, non: “Lo farò”. La fiducia fra le due Amministrazioni è spezzata e ambedue lo sanno. A guardare i fatti, la fase uno del Piano Trump è stata in qualche modo implementata, la fine di plateali massacri era quello che tutti volevano – beninteso, delle carneficine, non delle uccisioni che non si sono fermate: al momento in cui scriviamo circa 270 dall’inizio della tregua – come pure l’afflusso degli aiuti nella Striscia, sebbene Israele faccia di tutto per rallentarli, tenendoli ben al di sotto di quanto concordato. In questa situazione, le altre fasi restano pura fantasia. E questo esaspera e irrita Trump che ora si trova in stallo. La fase due potrà partire solo se Hamas depone le armi e si scioglie, ma non lo farà mai alle condizioni date. Dunque, niente Forza di Stabilizzazione Internazionale, niente Board of Peace con il Tycoon al vertice e Tony Blair al fianco, niente business collegati. Imporla equivale a dare il via libera a Smotrich e Ben-Gvir con ciò che ne consegue in costi politici per gli USA. Né, del resto, le IDF intendono o sono in grado di farlo (vedi il citato fallimento delle Operazioni Carri di Gedeone). E nemmeno sarà decisiva la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, la 2803, che autorizza l’operazione, null’altro che un mandato internazionale di puro stampo neocoloniale voluto da Trump per dare uno straccio di legittimazione a un’operazione che mira a impadronirsi di un territorio passando sulle teste dei palestinesi. E per questo respinto in blocco dalla Resistenza. E, per motivi opposti, vista male anche da Israele. Per uscire dall’impasse Jared Kushner s’è inventato un piano: dividere la Striscia (365 Km2!) avviando le fasi successive nell’area controllata da Israele, il 53%. Idea subito sposata dalle IDF che vogliono agire dall’esterno per indebolire la Resistenza e costringerla a cedere, ma evitando di mettere scarponi sul campo. È quello che da sempre intendeva fare Eyal Zamir. Dunque, naufragio della “pace eterna” proclamata da Trump e speranza che non si arrivi a una nuova deflagrazione generale. Che avverrà non se, ma quando le Brigate reagiranno allo stillicidio di attacchi; per come vanno le cose, dinamica garantita causa strutturale incapacità di Israele di contenersi, malgrado il pressing dell’Amministrazione USA. Un esempio: mentre J.D. Vance era a Gerusalemme, la Knesset ha varato due provvedimenti legislativi per espandere la giurisdizione israeliana in Cisgiordania; il primo riguarda MaaleAdumin, grande colonia israeliana a est di Gerusalemme che, unito all’enorme insediamento “E 1” in implementazione, spezzerà definitivamente quanto resta dei territori palestinesi, sancendo l’impossibilità tecnica (quella politica non è mai esistita) di realizzare un simbolo di non-stato nel West-Bank. L’altro disegno legislativo interessa tutti gli insediamenti della Cisgiordania, Giudea e Samaria nella dizione israeliana. E qui si dimostra: a) l’incapacità americana di leggere Israele, quantomeno l’Israele odierno, molto, ma molto diverso da quello dei decenni precedenti; b) la totale irrazionalità israeliana: Israele controlla già ciò che può servigli nel West Bank, annetterlo è colossale errore politico che archivierebbe gli Accordi di Abramo e sarebbe prodromo di ulteriore deflagrazione. L’amministrazione USA ne è consapevole e vuole scongiurarlo, ma Netanyahu, per sopravvivere, deve essere trumpiano all’estero e nazional-religioso radicale in casa. La sua doppiezza guadagna tempo ma deteriora la situazione. Sintomatica è la risposta di Smotrich ai giornalisti che gli ponevano il problema della reazione saudita all’annessione della Cisgiordania: “continuino a cavalcare cammelli nel deserto”. Come dico spesso, quella di cui è preda l’Entità sionista è una pulsione a-strategica e autodistruttiva sempre più diffusa, che pone HeretzYisrael (la Terra di Israele) dinanzi a MedinatYisrael (lo Stato di Israele). Con ciò capovolgendo le origini dell’Entità, nata ai tempi di Ben Gurion come terra sicura degli ebrei, dunque mero strumento, e divenuta ormai lo scopo ultimo di essi. Con messianiche variazioni sull’estensione (sul tema, neanche la Bibbia pare essere univoca). L’Amministrazione Trump comincia a essere stanca del prezzo da pagare, mentre pensa di avere altre priorità, prima quella interna. Un funzionario della Casa Bianca, dietro l’anonimato, ha dichiarato a Times of Israel: “Gli israeliani non possono trattarci come fossimo Joe Biden. Netanyahu sta facendo l’equilibrista col presidente Trump. Se continua così, manderà a puttane l’accordo su Gaza. Se manda a puttane l’accordo, Trump manderà a puttane lui”. E i messaggi non mancano, come l’annunciata vendita di F-35 all’Arabia Saudita senza chiedere in cambio nulla per Israele, che, stizzito, prova a dettare condizioni. E per inciso: l’Arabia Saudita non si fida per nulla delle garanzie americane, non dopo aver avuto prova della loro inaffidabilità nel 2019, dopo gli attacchi a Khurais e Abqaiq che hanno dimezzato la loro produzione petrolifera senza che Trump, anche allora Presidente, muovesse un dito. Dopo l’improvviso, e caotico, ritiro di Biden dall’Afghanistan nel 2021. Dopo l’attacco all’Iran del giugno scorso, mentre erano in corso trattative. Dopo l’attacco israeliano al Qatar di settembre. Avuta prova, riprova e controprova, da anni ormai Riyadh sta portando avanti programmi missilistici con l’aiuto del Pakistan, della Cina e – udite! – della Corea del Sud. E se gli USA non dovessero alla fine concedere gli F-35, che Trump dichiara ora sostiene di voler vendere ai sauditi, o dovessero alzare troppo il prezzo, ci sono sempre i J-35 cinesi. Aerei di 5^ generazione che Pechino ha così battezzato con indubbia ironia. Del resto, gli F-35 sono velivoli “tutto software”, come dice qualcuno; a Lockeed-Martin basterà depotenziarne le funzioni che, ci scommettiamo, non saranno paragonabili a quelle degli F-35I Adir israeliani, e tutti saranno felici e contenti. Ma c’è un altro elemento che complica di molto la situazione: la possibile presenza turca a Gaza, già presente (e pesante) in Siria. Il cuore della questione è che la sfera d’influenza cui aspira Erdogan si sovrappone a quella israeliana e va addirittura più in là. E non è un’area in cui USA, Russia e Cina, presi da altre questioni, intendono impelagarsi più di tanto. Inoltre, se i turchi entrassero a Gaza in nome del Piano Trump – allo stato, come detto, irrealizzabile – renderebbero irrealizzabile anche il Piano Kushner – nei programmi di Washington, fase intermedia per implementare il primo – perché, con dentro i turchi, le IDF non potrebbero attaccare la Striscia per indebolire la Resistenza e indurla a cedere. Inimmaginabile cosa accadrebbe se ci fossero vittime “collaterali” nel loro contingente. Dunque, fine della possibilità d’andare avanti con le altre fasi. Per gli israeliani i turchi a Gaza sono irricevibili. E si sono mossi con forza in questo senso; J.D. Vance, partendo da Gerusalemme, ha avallato questo veto, dichiarando che a Gaza ci saranno solo paesi con cui Israele si sente “a suo agio”. Lo stesso Egitto, dopo un primo spiraglio, è stato scartato. Per portare a casa il risultato, paradossalmente, Netanyahu ha sfruttato abilmente le debolezze e le fratture di Israele. Ha convinto Vance e Rubio che con i turchi a Gaza gli Accordi si sarebbero arenati e il suo governo sarebbe caduto. A seguire, ci sarebbe stato o un governo laico, e i coloni si sarebbero scatenati in Cisgiordania come non mai, o uno ultranazionalista, e il suo primo atto sarebbe stata l’annessione. Ergo: lui rimane l’unico a poter controllare in qualche modo la situazione limitando i danni. Ma il suo è comunque un equilibrio assai precario: se, nell’impasse, la guerra si riaccendesse e ci fossero altri morti o altri prigionieri israeliani (le Brigate nella Striscia sono state più volte a un pelo dal catturare altri soldati, anche di recente), le IDF si scatenerebbero e salterebbe tutto. Piano Trump e Piano Kushner insieme. A quel punto gli USA dovrebbero decidere se abbandonare Israele a se stesso o intervenire ancora. Nell’immediato lo farebbero, ma la pazienza e l’investimento politico, economico e militare hanno un limite. E anche caratterialmente Trump non è Biden. Del resto, che se ne fanno gli USA di una scheggia impazzita che fa solo sconquassi? Non solo esterni, ma anche interni a sé rendendosi ingestibile? I legami fra USA e Israele sono enormi, non stiamo qui a ricordarlo, soprattutto fra gli establishment, ma è un fatto che gli avvenimenti – piaccia o no ai neocon e ai rispettivi Deep State - li hanno mutati, lo si è già visto a Sharm el-Sheik. Netanyahu non è stato ammesso per il veto di Erdogan, e là Trump ha descritto il Presidente turco come un grande amico con un esercito potente, capace di vincere le guerre (esplicita frecciata a Netanyahu, accusato di non aver saputo vincere in due anni malgrado il pieno appoggio americano). E per concludere, ha detto che il Presidente turco “c’è sempre stato quando avevo bisogno di lui”. Esatto opposto di Israele. Un messaggio chiaro soprattutto oggi, quando gli USA vogliono limitare i loro impegni esterni per concentrarsi sull’interno. E la dichiarata disponibilità turca a risolvere i problemi per conto degli americani (facendo i propri interessi, naturalmente) fa tutta la differenza.  

Articolo sviluppato da un’intervista resa dall’autore al canale web “Il Contesto – Analisi economiche e geopolitiche” di Giacomo Gabellini.