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Il bambino selvaggio

di Davide Brullo - 26/06/2021

Il bambino selvaggio

Fonte: L'intellettuale dissidente

Palazzuolo sul Senio è conficcato nell’appennino toscoromagnolo, una scheggia tra i boschi; la Strada provinciale 306 unisce il piccolo comune a Marradi, il paese di Dino Campana, che forse è lo spettro orfico di quelle foreste. Nicola, 21 mesi, ha vagato nei boschi che accerchiano Palazzuolo sul Senio per un giorno e mezzo. Chissà se ha visto cinghiali e lupi; forse la lince, la bestia simbolica, gli ha dato del cibo, gli si è offerta. Leggevo – sul “Messaggero” se non sbaglio – il parere di un esperto, uno psichiatra, qualcuno con quel pedigree, insomma. Diceva che un bimbo di città non sarebbe sopravvissuto a una notte nel bosco. Forse nemmeno un adulto.
Giornalisti, forze dell’ordine, esperti appureranno i fatti, io mi limito ai simboli. Ho immaginato il puer eletto dal bosco a essere re, il bambino d’oro che va a cavallo dei cervi, domina sui falchi, presiede la caccia dei lupi. È una immagine magnificata da Rudyard Kipling nella figura di Mowgli, il bambino selvaggio che furoreggia nei Libri della Giungla, uno dei più potenti amuleti della letteratura moderna. Mowgli è il bimbo rigettato da tutti, dalle bestie e dagli uomini – “La Giungla mi ha chiuso le porte, e le porte del villaggio sono chiuse. Perché?” –, perché non è della giungla né degli uomini, abita la ferocia dell’infanzia, conosce il linguaggio di ogni animale: diventa re uccidendo la tigre. Una nostalgia furibonda agita Mowgli, che vuole ripristinare il verbo antico tra uomini e bestie, annientando la distanza che separa la giungla all’oggi.
Pare che Kipling abbia tratto l’idea di Mowgli dalla storia di uno dei tanti bimbi della giungla che d’improvviso, vomitati dalla nebbia della vergogna, dal cuore della foresta, varcavano la soglia delle città indiane, diventando oggetto di studio, di culto, di spettacolo, infine di ludibrio. Esisteva, forse, un patto congenito e congegnato tra gli uomini e la foresta: quest’ultima, di tanto in tanto, doveva essere sfamata con un bimbo. A volte, questo bimbo, miracolosamente, sopravviveva. D’altronde, Roma, la quintessenza della città, dell’etica umana, nasce per iniziativa di due fratelli allevati dalla lupa. Linneo aveva coniato per questi esseri metà uomo e metà bestia la didascalia Homo Ferus, piuttosto vaga, che pende verso i reami dell’immaginazione. I casi di ‘bimbi selvaggi’, registrati dal Medioevo, crebbero esponenzialmente tra Sette e Ottocento: l’epoca dei lumi non si faceva una ragione di tale anomalia. Abbandonato dai genitori perché disabile, “Peter the Wild Boy” fu ritrovato nei boschi di Hannover nel 1724: “si nutriva d’erba e del muschio degli alberi… si arrampicava con la naturalezza di uno scoiattolo”; diventò il passatempo di re Giorgio I. Non riuscì a farsi educare, lo vestirono come un damerino, i pittori di corte ritrassero la sua deformità: il ‘mostro’ affascinava gli astanti.
Il più celebre degli enfant sauvage – celebrato da una piramide di studi – fu tuttavia Victor dell’Aveyron, catturato, dodicenne (età concessa per deduzione), in Occitania, inabile al linguaggio umano, probabilmente autistico. Di volta in volta, scappava dalle famiglie e dagli istituti a cui era affidato; “ha pelle bianca e sottile, viso tondo, occhi neri e infossati, fisionomia gradevole e sorriso grazioso”. Rifiutava di dormire su un letto, si cibava, per lo più, di noci e castagne crude, di patate. Victor, disegnato, analizzato, setacciato, è il coltello con cui gli illuministi vivisezionarono se stessi, era l’emblema del ‘buon selvaggio’ su cui tutte le ipotesi educative vennero esplicitate, esagerate. L’importante, in ogni caso, era estirpare il selvatico, desertificare i residui di bosco rimasti nel cuore del ragazzo, decorare, bonificare, ripristinare la grazia della menzogna nel guaito.
“Un bambino sconosciuto, trovato inopinatamente sulla soglia della foresta, offre uno spettacolo curioso, è un fatto rimarchevole per una società civilizzata… Se il fenomeno in sé desta interesse, sono le circostanze ad essere ancor più affascinanti, dacché il ragazzo pare aver passato l’infanzia dentro la foresta, resistente oltre ogni forza umana; ha resistito, intendo, al freddo portentoso degli inverni, tra le montagne; ha evitato lo scontro con bestie feroci che potevano divorarlo; ha ideato, insomma, una vita autonoma, vagabondando tra i boschi, e di questa vita porta l’inequivocabile stigma”. Così attacca Pierre Joseph Bonnaterre, abate e naturalista che esamina il ragazzo a Rodez, nella sua Notice historique sur Le Sauvage de l’Aveyron (1800). Victor tentò di scappare dall’abate una decina di volte; infine fu affidato a Jean Itard, medico, pedagogista, pronto a ritenerlo “un novello Diogene”. Intorno a Victor de l’Aveyron, l’idiotie et la surdi-mutité Itard scrisse diversi saggi. Era convinto di poterlo convertire al convivere civile, certo dei successi della scienza: scoprì che era impossibile. Victor imparava poco, male, si dimostrava ignifugo al linguaggio umano, incapace di apprendere le comuni regole della vita sociale. Non era un caso che potesse confermare l’epica dei lumi, né confutarla: per questo, Victor fu semplicemente dimenticato. Morì, tra le mura di un istituto per sordomuti, solo, gemello all’oblio, dimenticato, nel 1828, sepolto in una fossa comune. Risorge in forma di film, nel 1970, come Il ragazzo selvaggio, tramite François Truffaut.
L’epoca che non accede al miracolo, non crede nel meraviglioso e pensa al bosco come a una legnaia, tenta di rieducare, di riporre tra i canoni del progresso condiviso. Da Mowgli, il ragazzo della giungla, si è passati, velocemente, a Peter Pan, il discolo borghese, che sorge nei giardini di Kensington, mica nel bosco, insegue ogni sogno, vola, e signoreggia sui Lost Boys. I ‘ragazzi selvaggi’ svaniscono; il loro ruolo è preso dai ‘bimbi perduti’, tutti noi in fondo. La Principessa Mononoke ideata da Hayao Miyazaki, invece, continua a combattere contro gli uomini: allevata dai lupi, li cavalca, e uccide, con innocente spietatezza, bellissima. La pelle della tigre è ancora lì, sulla soglia del bosco: indossala.