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Il continuo mutamento causa il crollo demografico?

di Francesco Lamendola - 12/12/2019

Il continuo mutamento causa il crollo demografico?

Fonte: Accademia nuova Italia

Il crollo demografico della nostra società è sotto gli occhi di tutti: non c’è bisogno di citare i numeri perché sono ampiamente noti: siamo ben al di sotto del limite minimo per la sopravvivenza dei popoli europei, per cui la loro scomparsa è solo questione di tempo. Pure, si direbbe che né i politici, né gli scienziati, né i filosofi e gl’intellettuali che esercitano una certa influenza culturale abbiano compreso la gravità della situazione e, per quanto si spendano, di tanto in tanto, in deboli e svogliate giaculatorie sulla necessità di fare più figli, pure nel complesso danno l’impressione di essere rassegnati e di voler contagiare anche il pubblico con la loro rassegnazione: come se il crollo demografico fosse un evento naturale e come se la sola cosa che si possa fare fosse quella di stare a guardare malinconicamente la nostra progressiva estinzione, mentre altre razze, giunte qui in veste di “migranti” in cerca di lavoro (anche se noi non abbiamo posti di lavoro da offrire neppure ai nostri figli, i quali infatti  se ne vanno all’estero), prendono il nostro posto e s’impadroniscono dei nostri paesi, delle nostre realizzazioni e di tutto ciò che con la loro vitalità, intelligenza e spirito di sacrificio i nostri avi hanno costruito nel corso del tempo. Pertanto, l’opinione pubblica dei Paesi europei è presa fra due fatti che sono presentati come fenomeni naturali, maestosi e inarrestabili: da un lato la diminuzione delle nascite, dall’atro l’immigrazione di milioni di stranieri; mentre è tutto da vedere se sono davvero dei fenomeni naturali o non piuttosto il risultato di precise strategie, pianificate con metodo scientifico, miranti a svuotare l’Europa dei suoi abitanti originari e riempirla con ondate successive e incessanti di popolazioni afroislamiche, allo scopo ben definito di mutarne radicalmente e irreversibilmente il volto. Ora, poiché queste osservazioni sono talmente semplici ed evidenti che potrebbe farle anche un bambino; e poiché tutto si potrà dire dei politici europei, degli scienziati, dei filosofi e degli intellettuali capaci d’influenzare l’opinione pubblica, tranne che siano degl’ingenui o degli sciocchi, la sola conclusione possibile è che esiste una vastissima congiura mirante a consegnare i popoli europei alla distruzione, con l’attiva collaborazione delle loro stesse classi dirigenti, o di una buona parte di esse.

Proviamo a riflettere sul primo corno del dilemma: il crollo demografico. Tutto ciò che si sente dire in proposito parte dal presupposto che le donne europee non facciano più figli per una serie di ragioni essenzialmente  culturali, sociologiche ed economiche: perché tale è la tendenza naturale di tutte le società industrializzate; perché non possono rinunciare al diritto di vivere in piena autonomia la sessualità, contraccezione e aborto compresi; perché la debole crescita produttiva non consente alle famiglie di avere più di un figlio, due al massimo. Eppure a noi sembra che vi siano altri due ordini di fattori dei quali non si parla quasi mai, ma che sono forse ancor più determinanti: quelli di ordine biologico e quelli di ordine psicologico e morale. Per quanto riguarda i primi, un peso decisivo è forse esercitato dall’alimentazione: è possibile che i cibi consumati nelle nostre società favoriscano la sterilità delle donne? È possibile che dietro la pressione esercitata dalle multinazionali affinché gli europei abbandonino le loro cucine tradizionali per nutrirsi di carne estrogenata e di patatine fritte geneticamente modificate, nei locali tipo McDonald’s, o assumere bevande altamente dannose per la salute come la Coca-Cola, ci siano, oltre all’interesse del potere finanziario, delle ragioni più specifiche, legate a favorire biologicamente la denatalità? Ed è possibile che oltre al cibo e alle bevande anche altre sostanze, a cominciare dall’aria che respiriamo, siano utilizzate allo stesso scopo, facendole assumere alla gente senza che ne abbia consapevolezza, ad esempio mediante la diffusione delle scie chimiche? È possibile, ancora, che nei vaccini, o in una parte dei vaccini, siano contenute sostanze non dichiarate che, fra gli altri effetti, hanno anche quello di favorire la sterilità femminile? Una volta assunta quella del complotto globale come una ragionevole ipotesi di lavoro, per le ragioni sopra indicate, tutte queste domande dovrebbero apparire in una luce tale da meritare un’attenta considerazione.

Dal punto di vista psicologico, le ragioni del crollo demografico sono forse più sottili e insidiose, ma non meno efficaci. La società moderna è caratterizzata dalla estrema rapidità del mutamento: logico, dal momento che si regge sull’ideologia del progresso illimitato. Tuttavia, siamo sicuri che tutti i mutamenti, sempre più rapidi, che sconvolgono l’ordine abituale delle nostre vite, siano il frutto di eventi naturali, come le nuove scoperte e applicazioni tecnologiche? E se in questi ritmi frenetici vi fosse invece una componente intenzionale, volta a rendere impossibile la stabilità, sia a livello sociale che a livello psicologico e morale? Noi sappiamo che una società sottoposta a mutamenti incessanti finisce per spingere i suoi membri in una spirale depressiva: essi non fanno in tempo ad assumere i nuovi stili di vita e ad apprendere l’uso delle nuove tecniche, che già sono investiti da una nuova ondata di mutamenti radicali. In simili condizioni, fare figli diventa problematico: qualsiasi donna e qualsiasi coppia desiderano un minimo di stabilità per poter programmare la nascita dei figli. E forse è proprio questo che si vuole ostacolare e impedire.

Scriveva Charles Darwin ne L’origine dell’uomo (titolo originale: The Descent of Man, 1859; tradizione dall’inglese di Mario Migliucci e Paola Fiorentini, Roma, Newton Compton, 1972, 1995, cap. 7, pp. 195-199):

 

Quando la Tasmania fu colonizzata la prima volta, gli abitanti furono stimati da alcuni circa 7.000 e da altri 20.000. Il loro numero si ridusse ben preso di molto, soprattutto per le lotte contro gli inglesi e tra di loro. Dopo la famosa persecuzione da parte dei coloni, quando gli indigeni superstiti, si arresero al governo, essi erano solamente 120 individui, che nel 1832 furono trasportati nell’isola Flinders. Quest’isola, posta tra la Tasmania e l’Australia, è lunga 40 miglia e larga tra le 12 e le 18: sembra salubre, e i nativi furono ben trattati. Nondimeno la loro salute ne fu danneggiata.  Nel 1834 erano ridotti (Bonwick, p. 250) a 47 adulti maschi, 48 adulti femmine e sedici bambini, per un totale di 111 anime. Nel 1835, di questi ne sopravvivevano solo un centinaio. Poiché continuavano a diminuire rapidamente e poiché essi stessi ritenevano che altrove non sarebbero periti così rapidamente, nel 1847 furono spostati nella baia di Oyster, nella parte meridionale della Tasmania. A quel periodo (20 dicembre 1847) constavano di 14 uomini, 22 donne e dieci bambini. Ma il cambiamento di località non migliorò le loro condizioni. La morte e le malattie seguitarono a perseguitarli e nel 1864 sopravvivevano soltanto un uomo (che morì nel 1869) e 3 donne anziane. La sterilità delle donne è un fatto ancora più notevole della generale suscettibilità alle malattie e alla morte. Nel periodo in cui le 3 donne furono portate nella baia di Oyster, esse raccontarono a Bonwick (p. 386) che solo due avevano partorito figli: e queste due insieme ne avevano generato solo tre!  In merito alla causa di questo straordinario stati di cose il dott. Story osserva che la morte deriva dai tentativi di civilizzare gli indigeni. “Se li avessimo lasciati vagabondare come volevamo e senza disturbarli, avrebbero generato più figli e la mortalità si sarebbe ridotta”. Un altro acuto osservatore dei selvaggi, Davis, osserva; “Le nascite sono state poche, mentre i decessi numerosi. Ciò in gran parte può essere derivato dall’aver cambiato modo di vita e cibo; ma soprattutto dall’essere stati banditi dalla Terra di Van Diemen e dal conseguente abbattimento spirituale” (Bonwick, pp. 388, 390).  Fatti analoghi si sono osservati in due parti molto diverse dell’Australia. Il celebre esploratore Gregory raccontava a Bonwick che nel Queensland “la mancanza di riproduzione si cominciava a sentire nei negri, anche nelle parti colonizzate di recente, e che la decadenza avrebbe acquistato terreno”. Dei 13 aborigeni della baia di Shark, che si recarono al fiume Murchison,  12 morirono di consunzione nel giro di tre mesi.

L’assottigliamento dei maori della Nuova Zelanda è stato attentamente studiato da Fenton (…). La diminuzione di numero dal 1830 è riconosciuta da chiunque, compresi i nativi, ed è ancora marcatamente in atto. (…)

È provato da molti esempi tratti dalla vita del vescovo Patteson che i melanesiani delle Nuove Ebridi e delle isole circostanti furono in altissima misura danneggiati in salute e perirono in gran numero, quando furono trasportati in Nuova Zelanda, nell’isola Norfolk e in altri luoghi salubri, per essere educati come missionari.

La diminuzione dei nativi delle isole Sandwich è nota come quella della Nuova Zelanda. È stato approssimativamente valutati da ottimi giudici che quando Cook scoprì le isole nel 1799, la popolazione ammontava a circa 300.000 individui. Secondo un libero censimento del 1823 il numero era ridotto a 142.050. (…) Molti autori hanno attribuito ciò alla dissolutezza delle donne, a precedenti guerre sanguinose, al duro lavoro imposto alle tribù conquistate e all’introduzione di nuove malattie che in diverse occasioni sono state assai distruttive. Senza dubbio, queste ed altre cause simili hanno avuto gran peso e possono spiegare l’enorme tasso di diminuzione tra il 1832 e il 1836; ma la causa più grave sembra sia la diminuzione della fertilità. Secondo il dott. Ruschenberger della marina americana, che visitò queste isole tra il 1835 e il 1837, in una zona delle Hawaii soltanto 25 uomini su 1.134 , e in un’altra parte solo 10 su 637, aveva una famiglia con 3 bambini. Su 80 donne sposate soltanto 39 avevamo generati figli; “un rapporto ufficiale forniva la media di mezzo bambino per ogni coppia sposata, in tutta l’isola”. È quasi la stesa media dei tasmaniani della Baia di Oyster. (…)

Abbiamo così constatato che mote razze selvagge sono tali da essere molto danneggiate nella salute, se sottoposte a mutamenti nelle abitudini di vita, e non esclusivamente se sono trasportate in un clima diverso. Le semplici alterazioni nelle abitudini, che di per sé non sembrano nocive, si rivelano avere lo stesso effetto; in numerosi casi i bambini sono particolarmente sensibili a risentirne.

 

Curiosamente, dopo aver snocciolato questi ed altri simili dati, i quali, benché carenti e imprecisi, indicano comunque una tendenza reale, già allora perfettamente osservabile, nella rapidissima diminuzione numerica delle popolazioni indigene venute a contatto con la civiltà moderna, e dopo aver avanzato, l’ipotesi, abbastanza ragionevole, che essa fosse dovuta non solo al cambiamento di clima e i trasferimenti forzati in altre sedi, ma al generale mutamento nello stile di vita, cominciando dall’alimentazione, oltre che dall’introduzione di nuove malattie, Darwin se ne esce a dire, di punto in bianco, che tali osservazioni sono valide solo per i popoli selvaggi e non per quelli civilizzati, che non risentirebbero affatto, a suo dire, di analoghi fenomeni. Affermazione tanto gratuita quanto apodittica, poiché egli non si cura minimamente di sostenerla con dati o argomenti di qualsiasi genere: fa parte del suo orizzonte culturale, secondo il quale non può essere che così, e tanto basta. Anzi, arriva fino a dire che i popoli selvaggi risentono dei mutamenti climatici e nelle abitudini di vita in maniera analoga alle specie più affini (sono parole sue), vale a dire le scimmie antropomorfe, le quali non sono mai sopravvissute a lungo se trasportate in località lontane dai luoghi d’origine (altra affermazione non dimostrata e infatti del tutto gratuita). Questo modo di procedere è tipico di Darwin, geniale dilettante autodidatta, la cui cultura scientifica non possedeva affatto delle solide basi: lacuna alla quale cercava di rispondere facendo appello alla sua potente capacità intuitiva, cosa che, però, lo conduceva talvolta a prendere delle cantonate clamorose, benché questo aspetto della sua metodologia sia stato successivamente oscurato dai laudatores impegnati a far di lui, per ragioni ideologiche, il massimo monumento, dopo Galilei, della scienza moderna (cfr. in particolare il nostro articolo: Darwin, un ambizioso “furbetto”, e la leggenda dei fringuelli delle Galapagos, pubblicato su sito di Arianna Editrice il 09/03/11 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 04/12/17). La verità è che Darwin, nonostante le sue intuizioni, non aveva una vera mentalità scientifica; non si pose mai il problema di sintetizzare la sua teoria evoluzionista in una formula matematica, come ogni vero scienziato dovrebbe fare con le proprie teorie, se le considera corrispondenti a delle leggi naturali; in particolare, era portato a generalizzare arbitrariamente singoli risultati di singole ricerche, colmando l’assenza di documentazione (vedi i famosi anelli mancanti) con gli spericolati ‘ponti’ della sua immaginazione. Ma torniamo al punto. Se una società evoluta o primitiva che sia, non riesce a trovare un equilibrio a causa di continui e radicali mutamenti, e se le persone perdono la voglia di vivere e di riprodursi in un mondo che non riescono più a comprendere, forse siamo arrivati a uno dei fattori centrali del crollo demografico: qualcuno vuol creare le condizioni perché gli europei si lascino andare, così come si lasciarono andare i pellirosse dopo esser stati sconfitti dall’uomo bianco e chiusi nelle riserve. E noi staremo a guardare?