Il dato è tratto
di Livio Cadè - 17/10/2021
Fonte: Ereticamente
Cos’è un dato? Nella sua forma più diretta, è un’immagine della realtà creata dai nostri sensi. Ma è anche il concetto evocato dal puro dato sensoriale. Non ci è possibile vedere un gatto senza che sorga in noi, più o meno chiara, l’idea di ‘gatto’. In altre parole, è la rappresentazione di un fatto, il livello elementare di un’informazione. Il ‘dato’ non si offre alla coscienza come entità atomica ma come un insieme articolato, un sistema di relazioni.
I nostri strumenti cognitivi non possono esaurire la realtà in tutti i suoi contenuti perché ogni ‘dato’ implica un’infinità di nessi con altri ‘dati’. La mente agisce perciò come filtro, trattenendo solo quelli che sembrano necessari al suo orientamento pratico. Ciò che resta escluso da ogni processo di conoscenza è quindi una quota sempre infinita della realtà.
Benché le facoltà da cui dipendono i ‘dati’ – la percezione, il linguaggio, la logica – non abbiano evidenza di certezza, noi crediamo istintivamente di cogliere una realtà obiettiva. Del resto, l’alternativa a questa innata fiducia sarebbe dubitare dei nostri mezzi di conoscenza. Ma per farlo dovremmo servirci degli stessi mezzi di cui dubitiamo. Ci troveremmo così in un vicolo cieco.
Possiamo però supporre vi sia una coerenza intima e naturale tra la nostra coscienza e i fatti percepiti. Anche il nostro apparato cognitivo è infatti parte del mondo. I dati psichici e i fatti appaiono elementi di uno stesso ordine e di un’unica realtà. È il mondo a specchiarsi in noi, mostrandoci un sistema retto da leggi coerenti e costanti. Su questo si fonda quel senso comune che, in modo congenito e intuitivo, ci inclina a credere in alcuni dati fondamentali come l’esistenza di sé e di un mondo esterno, e a ritenere evidenti, senza bisogno di dimostrarle, certe relazioni di tempo, spazio, causalità.
Cartesio dubitò di esistere, ma infine il dubbio stesso gli parve fornire una certezza. Hume dubitò della causalità e, con un paradosso forse involontario, la ritenne un’illusione causata dall’abitudine. Nel II secolo della nostra era Nagarjuna, filosofo buddhista, aveva già dimostrato la natura vuota di ogni concetto. E prima di lui, Pirrone credeva nell’impossibilità di conoscere alcunché.
Ma il dubbio è un po’ l’ombra della fede. Non si può vivere senza credere a nulla, e anche gli scettici più ostinati alla fine regolano la loro vita secondo i dati del senso comune. Per quanto la teoria li renda sospettosi, nella prassi si attengono a un’inflessibile fiducia nelle apparenze.
Il problema semmai è che gli uomini oggi credono troppo e in troppe cose. Lo scetticismo pare una forma mentis in via d’estinzione. Molto diffusa è invece una patologica dipendenza dai ‘dati’. Non alludo però ai dati dei sensi, ma a quei ‘dati ufficiali’ cui una sorta di superstizione popolare attribuisce valore di verità incontestabili.
Il dato tratto dalla nostra esperienza è messo in secondo piano, e spesso ignorato, soverchiato dai dati di un’informazione impersonale di carattere scientifico, storico, economico, sociale ecc. La nostra sudditanza nei confronti di questi ‘dati indiretti’ è talmente profonda che non ne siamo neppure consapevoli. Tuttavia, è riconoscibile attraverso i sintomi della passività mentale e della sfiducia in sé stesso che affliggono l’uomo moderno.
Naturalmente, nessuno è totalmente libero di crearsi da sé i propri ‘dati’. L’educazione, l’ambiente, tendono a imprimere i loro sigilli sulla nostra coscienza. Il dubbio è quindi un’igiene mentale che difende la nostra libertà di pensiero contro chi ci vuole imporre verità indubitabili. È quindi deplorevole che i ‘dati ufficiali’ che ci arrivano dalla scienza vengano visti oggi come modelli di assoluta obiettività, senza senso critico.
La credulità è un elemento cruciale nella società della Rete e dei media, in un mondo in cui l’uomo è sempre connesso a qualcosa fuorché a sé stesso. La sua mente vive in una dimensione sonnambolica, immersa in un flusso di dati come in liquido amniotico. Assorbe passivamente una congerie di informazioni e messaggi senza verificarne l’aderenza alla realtà, la coerenza, o la probità morale e intellettuale di chi li dà. Una pletora di dati copre il suo spazio interiore, come un secondo velo sovrapposto al “velo di Maya”, creando un doppio diaframma tra l’uomo e la verità. Non sono più solo i sensi o la ragione che adombrano il reale, a loro si aggiungono la comunicazione scientifica e giornalistica. L’informazione diviene per l’uomo moderno una sorta di caverna platonica.
Il dato concreto e primario che è in lui – ovvero la sua coscienza diretta della realtà – viene emarginato per mettere al centro la auctoritas di dati di seconda, terza o quarta mano. L’esperto prende il posto dell’esperienza, il ‘dato scientifico’ diventa segno che collima perfettamente col reale. Così, quando sente che “bisogna saper leggere i dati”, non mette in dubbio la verità dei dati stessi ma la sua capacità di interpretarli correttamente.
L’autonomia del singolo nel costruirsi un sistema di senso e di valori tende ad azzerarsi, sostituita da una totale dipendenza da fonti esterne. Si produce una letargia intellettuale in cui le idee possono essere facilmente manipolate. Ad esempio, i ‘dati ufficiali’ della recente crisi sanitaria – virus, morti, contagi, vaccini ecc. – sono palesemente incredibili, tracimanti di assurdità e contraddizioni. Eppure la gente ne accetta i contenuti e le conseguenze sociali con ingenuità e arrendevolezza infantili (e lo stesso accadrà con altre crisi già pianificate e il loro corredo di ‘dati scientifici)’.
Ma il problema trascende la falsificazione o la verifica dei dati. La confutazione di dati falsi implica infatti la dimostrazione di altri dati, semplicemente spostando il nostro assenso dagli uni agli altri. Dovremmo capire i motivi di questa adesione fiduciosa, ossia della facilità con cui dati cosiddetti ‘scientifici’ assumono, specie per coloro che non li capiscono, un carattere apodittico, diventando un surrogato dell’esistenza reale.
Questo atteggiamento implica secondo me alcuni postulati inconsci e da tempo sedimentati nel senso comune. Sembra che il declino della fede religiosa abbia trasferito dogmatismi e fideismi in ambiti secolari, come per il bisogno di trovare nuovi riferimenti certi. Così, ‘scientifico’ è ormai sinonimo di sicuro, dimostrato, non discutibile. In realtà la scienza moderna ha natura ambigua e controversa. È innegabile che le sue applicazioni pratiche abbiano cambiato il mondo. Ma noi, incantati dalla prassi, dalla funzionalità, non vediamo che la teoria è labile, probabilistica, priva di stabili certezze. In certi casi, come la medicina, manifesta gradi di aleatorietà incompatibili con l’idea stessa di conoscenza.
Inoltre, la fede nel discorso ‘scientifico’ è intimamente legata al culto della razionalità, cioè all’idea che la realtà sia razionale e si possa quindi conoscerla solo con strumenti razionali, di misurazione esatta. Ragionamento circolare che condanna all’irrilevanza tutto ciò che resta razionalmente inaccessibile e misterioso, escludendo dalla nostra vita quell’infinito che la razionalità non può cogliere.
L’oggettività dell’indagine scientifica assume così carattere limitante. La realtà si esaurisce nel ‘fenomeno’, e la conoscenza in un insieme di dati puramente fenomenologici. Vengono escluse tutte le forme di sapere che non soddisfano un’indagine oggettiva. La realtà è chiusa in una gabbia empirica e razionale. I dati scientifici scorrono sulla superficie della coscienza, ignorando quel ‘fondo dell’anima – per usare un termine mistico – dove ‘dati trascendentali’ plasmano la nostra soggettività.
Per altro, la verità del dato sembra inscindibile dai paradigmi di un’epoca e di una specifica cultura. Ma ciò che sembra razionale e oggettivo alla nostra medicina ufficiale può apparire infondato a un omeopata, a un medico tradizionale cinese ecc. È un problema epistemico che non si può risolvere accusando di ignoranza chi propone modelli di sapere alternativi. Né affermando che una disciplina, per essere scientifica, deve rispettare metodologie scientifiche e che quindi omeopatia, medicina cinese ecc. non sono scientifiche perché non seguono criteri scientifici. Sarebbe un’altra evidente tautologia.
V’è poi l’ingenua convinzione che la scienza abbia natura ‘nobile’, e quindi si attenga a principi di integrità morale e intellettuale. Credo che quest’idea serva solo a rassicurare la gente sugli effetti della ricerca scientifica. Conoscendo il potere della scienza, se non credessimo nelle sue buone intenzioni vedremmo in lei una minaccia più che una speranza.
Così, preferiamo pensare che i dati scientifici siano uno specchio fedele e disinteressato del reale, che non siano inquinati da fattori che ne pregiudicano l’obiettività o li rendono pericolosi. Ma non abbiamo fondati motivi per crederlo. In primo luogo, l’attendibilità dei dati è legata alle premesse metodologiche di chi li elabora, che possono essere fallaci, o vi può essere una deliberata volontà di falsificarli. E sicuramente possono essere usati contro di noi.
La gente si sottrae in genere al compito di valutare l’affidabilità e l’onestà dei dati perché si ritiene priva delle competenze necessarie. In effetti, la definizione di un dato coinvolge oggi un numero talmente vasto di discipline ed è talmente soggetta a revisioni, che nessuno può dire di conoscerla veramente. Viviamo in un labirinto di simboli scientifici da cui non sapremmo uscire neanche con la guida dei cosiddetti ‘esperti’.
Il profano soffre di uno stato di soggezione e di ontologica inadeguatezza rispetto all’iniziato. È un senso di inferiorità cui cerca in parte di ovviare informandosi. Spetta dunque ai media correre in suo aiuto, creare un ponte tra lui e la verità. L’auto-evidenza di un dato cresce così in proporzione alla diffusione mediatica. Attraverso il potere del medium il ‘dato’ si fa dogma intoccabile, rivelazione.
Ogni auto-determinazione del pensiero, ogni libero esame dei fatti diventa interpretazione abusiva. La comprensione del reale è affidata all’ortodossia stabilita dai suoi ‘interpreti qualificati’. Si crea un fondamentalismo dell’informazione, una sorta di rigorismo puritano per cui dubitare del ‘dato’ è immorale, o segno di infermità mentale. Esito di questa nuova teologia è che i ‘dati’ divengono strumento di plagio e controllo dell’opinione pubblica.
Questo spiega perché ben pochi si lamentano se un totalitarismo scientifico viene usato oggi per giustificarne uno politico. La ‘scientificità’ dei dati invade ogni campo di valori, si fa fondamento metafisico da cui promanano principi etici e giuridici vincolanti. Congetture scientifiche vengono usate come strumenti di profitto economico, di potere politico, pretesto per una sorveglianza poliziesca e l’imposizione di criminosi protocolli sociali. Tutto questo sembra legittimo perché ‘scientifico’.
Opporre a questa scienza degenerata una scienza onesta, replicare a dati fittizi con dati reali, è oggi un dovere storico. Ma ancor più essenziale è ripristinare la fiducia nella nostra capacità di comprendere la vita senza dipendere dai filtri di esperti e autorità. Non dobbiamo rifiutare il dato scientifico ma dubitarne. Vedere i suoi limiti intrinseci ed emanciparci dalla sua tirannia. Capire che nessuna teoria può cogliere la misteriosa, profonda pienezza del reale.
Dobbiamo curare la vita dall’ipertrofica complicazione di un eccesso di dati. Vita che sembra diventare tanto più incomprensibile quanto più la sottoponiamo a uno sguardo scientifico. La realtà ci appare sempre più complessa per il proliferare incessante delle teorie e delle ipotesi. Ma all’occhio dello spirito appare semplicissima, fatta di atti semplici, di semplici intuizioni.
La conoscenza scientifica della natura ci allontana dalla natura quanto la conoscenza scientifica dell’uomo ci aliena da noi stessi. Grafici, percentuali, statistiche, danno della vita una rappresentazione distorta. Mentre ci illudono con la loro presunta concretezza riducono l’uomo a un’astrazione, a un numero. Antidoto a questa disumanizzazione è ristabilire il contatto con la nostra interiorità, dove la realtà ci si dà semplice e senza mediazioni. Come dice Agostino: «non uscire da te stesso, rientra in te, nell’intimo dell’uomo risiede la verità».