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Il diritto a non emigrare

di Filippo Massetti - 05/09/2020

Il diritto a non emigrare

Fonte: L'intellettuale dissidente

L’arrivo del periodo estivo, unito alla possibilità di un Mediterraneo più navigabile e malleabile, ha riaperto il flusso migratorio sulle coste europee, in particolar modo nei litorali italiani e negli isolotti greci: una questione, quella migratoria, che non sembra avere quantomeno alla portata nessun altra soluzione che non sia basata sul momento, sulla precarietà e sull’incapacità di fare coraggiose scelte politiche. Il fenomeno dell’immigrazione di massa, in special modo dai paesi del continente africano e dai teatri di guerra mediorientali (Iraq, Libia, Siria) ha avuto il suo apice negli anni 2013-2017; tristemente emblematico in questo senso il terribile naufragio del 3 ottobre 2013 avvenuto a poche miglia dal porto di Lampedusa, che ha provocato ben 368 vittime, in maggioranza donne e bambini.

Iniziata dalla seconda metà degli anni ’90, l’attuale immigrazione che coinvolge il Bel paese ha vissuto fasi storiche diverse e a loro modo affini, passando dalle navi di grosso tonnellaggio piene di cittadini albanesi che si riversarono nel porto di Brindisi nel 1997 fino alla celebre diatriba tra ONG e l’ex ministro degli Interni Matteo Salvini, a colpi di divieti di ingresso nelle acque territoriali italiane, sanzioni alle ONG accusate di contribuire all’immigrazione irregolare, minacce e futuri processi mediatici e giudiziari. Come in tanti altri argomenti e temi di primaria importanza, la comunicazione politica e partitica italiana ha applicato anche nell’argomento immigrazione una logica di tifoseria acritica e pedante: dall’immigrazionismo senza confini ad un rigetto tout court dell’altro, del bisognoso che fugge da guerra e miseria. Nero o bianco: tutte le altre sfumature, tutte le altre colorazioni della politica, nella sua accezione più nobile e aulica, paiono impossibili a rintracciarsi in un dibattito pubblico così fazioso, impoverito e mediaticamente gonfiato all’inverosimile.

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Eppure la questione dei migranti, con tutto ciò che si porta dietro in termini umani, sociali, demografici e culturali dovrebbe pretendere una classe dirigente italiana ed europea all’altezza con un chiara visione di breve e lungo periodo. Le innumerevoli difficoltà italiane nel gestire il flusso migratorio riflettono anche un egoismo e una mancata condivisione di intento della purtroppo incompiuta Unione Europea, rigida e ligia quando c’è da rispettare parametri economici e di contabilità, inefficiente e cinica quanto si riscontra la necessità di una visione univoca in politica estera e nelle problematiche internazionali. Tutto ciò non è altro che la diretta conseguenza di una Unione frammentata, in mano a lobbies e a gruppi di potentati privati più che a vere e proprie istituzioni, slegata da ogni vero rapporto di rappresentanza con gli stessi cittadini del Vecchio Continente.

L’incompiutezza e l’intrinseca fragilità dell’attuale UE non poteva far altro che acuirsi alla prova di un’immigrazione massiccia e bisognosa di coordinamento: Grecia, Spagna e Italia, le nazioni geograficamente più esposte, in più di un’occasione si sono ritrovate da sole nell’affrontare l’emergenza in questi ultimi anni; nel mentre la Francia chiudeva più volte il passaggio della frontiera a Ventimiglia e la Germania, tramite un corridoio umanitario ad hoc, accoglieva circa un milioni di immigrati – siriani, accuratamente selezionati, possibilmente già ben istruiti, non super “problematici” tali da poter imbrattare un mondo friendly ed eco sostenibile.

Dal momento che unità, coesione e coerenza sono venute a mancare da Berlino a Parigi, da Vienna a Budapest e da Madrid a Roma, l’immigrazione è diventata un potente oggetto di scontro di politica interna, una ferita aperta e una questione irrisolta decisamente redditizia al ripresentarsi di ogni confronto elettorale. In Italia movimenti pro e contro immigrazione hanno iniziato a fare manifestazioni e proteste non per tentare di risolvere veramente il nodo né per scioglierlo ma, paradossalmente, per ingarbugliarlo sempre di più. Si dovrebbe iniziare chiaramente a dichiarare e a dibattere sulla reale ineluttabilità di questo tipo di immigrazione, che espone migliaia di esseri umani ad una estenuante lotteria della morte – magari per ritrovarsi a vivere in una tendopoli, o a lavorare con salari inconsistenti in campi e piantagioni del nostro paese. È proprio questa la migliore soluzione che nel 2020 siamo in grado di pensare? È auspicabile visto il trend demografico opposto – un’Africa fertile, forte e in ascesa contro un’Europa decadente, senile e statica – ritenere che il Vecchio continente abbia risorse a sufficienza per prendersi carico in futuro di migliaia di persone? Può essere accettabile il fatto che l’unica idea in grado di risaltare da un dibattito pubblico politicamente corretto sia quella che nel 2020 è normale che chi nasce in determinate zone del pianeta si trovi naturaliter senza cibo, senza cura, senza strutture e senza futuro?


Nell’attuale scenario post moderno, tra il trionfo di una globalizzazione sradicante e senza limiti e un modello di sviluppo criminale quale quello neo-liberista, il diritto all’immigrazione diventa connaturato ad un tipo di società instabile, depauperata, aperta a tutti i costi, di poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi: l’immigrazione come diritto assoluto e come diritto umano, unita ad un’accoglienza come dovere e sola soluzione per i cosiddetti paesi industrializzati, diventa così l’ultima frontiera dei diritti per tutti, in un mondo per converso sempre più iniquo, aggressivo e divisivo. Le nazioni e i singoli stati, lasciati a se stessi, mettono in campo l’impossibile e riescono qualche volta persino nel miracolo di un’integrazione socio-culturale tra nativi e nuove comunità; l’Italia stessa ha ottimi esempi di convivenza e civiltà tra prime e seconde generazioni, quando istituzioni religiose, statali e scolastiche funzionano al meglio.
Questo aspetto, tuttavia, non può essere l’unica soluzione e – da cristiani e quindi da europei –  non si deve più accettare l’automatismo povertà-immigrazione come dogma dopo due decadi di ventunesimo secolo: il vero diritto, da rispolverare e incrementare, è quello a non immigrare. Nel 2020 l’immigrazione per fame, medicinali, cibo, acqua potabile, guerre e carestia deve essere considerata un abominio da fronteggiare con ogni mezzo: nei paesi dell’Africa sub-sahariana si dovrebbe prendere in considerazione l’immigrazione solo in necessari casi di lavoro, studio, viaggio, confronto e  approfondimento culturale. Come raggiungere tale obiettivo? In primo luogo smettendo, interposta multinazionali occidentali, di depredare risorse e ricchezze del Continente Nero; in secondo luogo, su questa scia, dimenticarsi dell’Africa e del suo enorme debito pubblico contratto con istituti di credito mondiali. Una volta lasciata a “se stessa”, l’Africa andrà riscoperta, e sul continente si potrà veramente investire in tecnologie, risorse umane, infrastrutture, lavoro specializzato, dialogo interreligioso e cultura, con l’Italia in grado – storicamente, geograficamente e spiritualmente –  di giocare un ruolo da assoluta protagonista.

Niente più morti in mare, niente più tratte di schiavisti, niente più vessazioni, niente più conflitti: la fine degli interessi privati – figli di biechi calcoli materialisti -, il trionfo di fratellanza, lealtà e dovere. Quando tutto ciò inizierà ad essere dibattuto, quando un bambino nato a Freetown, ad Abuja o a Bamako potrà avere le stesse possibilità e le stesse garanzie di partenza di uno nato a Praga, a Roma o a Bruxelles, solo allora la questione immigrazione sarà un pallido ricordo. E solo allora il diritto a non immigrare, come già richiamato dal Papa Emerito Benedetto XVI, diventerà la normalità di un mondo vitale e in fieri, in cui gli ultimi saranno primi e i primi saranno ultimi e dove le risorse della terra saranno ridistribuite in modo equo, canonicamente cattolico, limpidamente cristiano.