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Il paradosso Donald Trump

di Roberto Zavaglia - 29/09/2020

Il paradosso Donald Trump

Fonte: Barbadillo

E’ piuttosto complicato dare un giudizio equilibrato sulla presidenza Trump se si seguono solo le cronache e i commenti della grande stampa. Il pregiudizio dei media nei suoi confronti è tale che non passa giorno che lo si critichi aspramente per qualche motivo, dalle morti violente di persone di colore causate dalla polizia, il cui numero in verità era pressoché simile anche con Obama, alla ciclica comparsa dal passato di nuove amanti o di donne che dicono di essere state da lui molestate. L’immagine che ne esce è quella di un pazzo narcisista, mentitore seriale, istigatore di violenze, che lavora per dividere il Paese instillando odio e, questa è l’ultima, sarebbe pronto a una specie di golpe se venisse sconfitto nelle elezioni di novembre.

Al netto di qualsiasi interpretazione, una cosa sicura sui quattro anni di Trump la possiamo invece affermare: è l’unico presidente, fra gli ultimi sei, a non avere iniziato una vera e propria guerra. Con Reagan ci fu l’invasione di Grenada, George H. W. Bush scatenò la prima Guerra del Golfo e invase Panama, Clinton aggredì la Jugoslavia, il secondo Bush attaccò l’Afghanistan e l’Iraq, Obama entrò in guerra in Libia ed è probabilmente il presidente che ha mantenuto per più tempo gli Usa in una situazione di conflitto armato. Certo, Trump ha proseguito le guerre iniziate da altri, ma ha drasticamente ridotto il numero dei soldati in Afghanistan in vista di una trattativa di pace con i talebani.

L’unica inedita azione di forza è stata l’inopinato assassinio del generale delle forze Quds iraniane,  Qassem Suleimani. L’Iran è diventato, insieme alla Cina su un altro piano, il “nemico principale” di Trump che ha stracciato gli accordi sul nucleare, la cosa migliore realizzata da Obama, e ha inasprito le sanzioni nei confronti della Repubblica islamica. Con arroganza, ha anche minacciato di boicottare negli Stati Uniti le aziende straniere che proseguissero a intrattenere rapporti commerciali con Teheran, causando un danno rilevante pure alle nostre imprese ben introdotte in quel Paese.

Nel cruciale teatro della Siria, dove nel caso di una presidenza Clinton il rischio di un pericolosissimo confronto diretto con le forze russe sarebbe stato alto, gli Usa si sono però mossi con cautela evitando di pestare i piedi a Putin e Erdogan. Possiamo con ciò parlare di un Trump pacifista? Ovviamente no, basterebbe guardare al rilevante aumento della spesa militare che, con 732 miliardi di dollari nel 2019, è salita del 5,3% rispetto all’anno precedente, raggiungendo la quota del 38% di quella mondiale. Si pensi che la Russia, accusata senza prove di mire espansionistiche spende “solo” 65 miliardi di dollari e la Cina, pur in una fase di forte incremento, si ferma a 261 miliardi. Rafforzare la supremazia militare statunitense è sicuramente un obiettivo del presidente, ma ciò rientra nel Make America great again, ovvero nella visione di un Paese che deve accrescere la sua potenza in ogni campo. Non si tratta di una strategia mirata a inserirsi in ogni conflitto globale nell’ottica di un imperialismo universalista:  l’esercito va usato quando sono minacciati direttamente gli interessi statunitensi, non per ergersi a dominus nei conflitti locali da cui gli Usa sono estranei.

Alcune sue scelte danno ragione ai tanti che accusano Trump di essere ondivago e imprevedibile nelle sue decisioni. Almeno in parte, ciò va spiegato con il fatto che si tratta di un leader “a-ideologico” in gran parte delle questioni. Lo scopo di rinvigorire gli Stati Uniti viene perseguito sulla base di un notevole pragmatismo. Se osserviamo l’azione presidenziale per rilanciare l’economia deteriorata dal Covid, potremmo quasi parlare di un piano di stampo keynesiano.  Vi rientrano, tra gli altri, contributi per gli affitti e le tasse universitarie, tutele per la disoccupazione, rimborsi fiscali e soldi erogati direttamente ai cittadini (helicopter money) per rilanciare i consumi, con un impegno finanziario enorme, che alcuni hanno calcolato arrivi a sfiorare i 3 trilioni di dollari. Anche se si trattasse di meno, tale cifra riduce i 750 miliardi di euro del Recovery Fund europeo a una specie di mancia. Sul piano fiscale, il presidente ha imboccato una via di “destra liberale”, con il taglio della tassazione per le imprese dal 35% al 21% e con sgravi fiscali per la classe media. Sono state cancellate anche alcune delle limitazioni della legge Dodd-Frank, promulgata durante la presidenza Obama in conseguenza della crisi dei mutui subprime, concedendo di nuovo, alle banche, almeno quelle di taglia medio-piccola, di speculare sui mercati finanziari con i soldi dei loro clienti che si vedono così ancora esposti ai rischi conseguenti. Prima del Covid, i risultati, almeno quelli macroeconomici, erano comunque estremamente favorevoli, con una forte crescita del Pil, sei milioni di posti di lavoro generati, la disoccupazione ai minimi da 50 anni e i salari in crescita. Ciò avrebbe quasi sicuramente consentito la rielezione di Trump, mentre oggi la situazione è in bilico e i sondaggi, come nel precedente con la Clinton, lo danno perdente.

Un’altra cosa che abbiamo imparato con Trump, ma si tratta di una riconferma sia pure in misura inedita, è che il presidente degli Stati Uniti non può fare sempre di testa sua. Trump, infatti, non è stato condizionato solo, come è ovvio, dal Congresso, ma anche, in una misura forse mai raggiunta in precedenza, dalle strutture di “lungo periodo”, la burocrazia ministeriale e, soprattutto, i servizi di informazione. Il caso eclatante è stato il rapporto con la Russia, verso la quale, inizialmente, il presidente esprimeva una volontà di appeasement a cui ha dovuto rinunciare, adottando una postura più aggressiva verso Mosca, in seguito al Russiagate, che si è rivelato una bolla di sapone con la conseguente assoluzione nel processo di impeachment. Sono stati i Servizi, interpreti della vocazione imperialista degli Usa, a preparare la polpetta avvelenata ed è interessante notare come vi abbiano collaborato anche quelli di Paesi stranieri, come Gran Bretagna e Italia (a proposito, che fine ha fatto Joseph Mifsud ?) che orientano la propria fedeltà, ancor prima che al proprio Paese, al mantenimento dello status quo geopolitico. Il loro obiettivo è quello di perpetuare l’egemonia di Washington come decisore finale in ogni area del pianeta.

Donald Trump

Trump, con il rigetto del Partenariato Trans-Pacifico (TTP) e del Trattato di libero scambio transatlantico (TTIP), che avrebbe portato l’Europa a una ancora maggiore soggezione agli Usa, configurandosi come una specie di Nato economica, per non parlare delle sue aspre critiche all’Alleanza Atlantica, segue una strada diversa: quella degli Usa massima potenza, dura nei negoziati, ma senza l’ambizione di entrare in casa d’altri attraverso la condivisione dell’appartamento. Da qui nasce la sua avversione per la diplomazia multilaterale a cui preferisce il confronto bilaterale. E’ questo che manda in bestia gli internazionalisti liberali, ovvero il mainstream mediatico e culturale che piagnucola sul pericolo di un’America isolazionista e su un’Europa abbandonata a se tessa, come fosse un bambino che ha perso la mamma.

Chi ha dunque di mira un’Europa più autonoma politicamente e un mondo orientato in senso multipolare, non può che esprimere, per convenienza tattica, la speranza di una riconferma di Trump, anche se la figura del tycoon arrogante e culturalmente grossolano, tipicamente yankee, non ispira simpatia. Senza nascondersi che in più si assisterebbe nuovamente allo spettacolo della costernazione indignata di tante maestrine della penna rossa, tipo Beppe Severgnini e Lilli Gruber.  Non è certo l’aspetto principale, ma in fondo si vive anche di questo.