Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il senso estetico del PD

Il senso estetico del PD

di Lorenzo Merlo - 24/03/2021

Il senso estetico del PD

Fonte: Lorenzo Merlo

Il comando si riduce ad un appeal che raduna le attenzioni più di quanto possa un argomento razionalmente presentato. Una premessa non soddisfatta da Zingaretti e neppure lo sarà da Letta.

Senza capo non c’è coda. Sull’impossibilità del PD di avere e tenere una rotta che punti ad un mondo che gli faccia onore. Se il tratteggio di queste righe è in qualche misura attendibile, se non emergono considerazioni che le rendano fallaci, dentro il crogiolo della politica da mercato, l’epilogo delle correnti sfascia-partito era ed è il minimo che possa accadere.

Lapidario

Gli oppositori hanno gioco facile a dare contro il PD. Se una volta lo scontro era portato e/o difeso dalle corazze ideologiche, imbracciate dai reggimenti di popolo, oggi i prodi della parte povera del mondo avanzano, anzi vagolano indifesi e disarmati, disposti a sedersi al tavolo per una briscola insieme agli odiati nemici. Tengono un’ombra sull’angolo e parlano di tutto, di passato e di futuro, ma sempre con nostalgia. Chi li ascolta non sa più chi sta da una parte e chi dall’altra.

Il loro partito che fu, quello che prima difendeva gli ultimi contro la mercificazione della vita e di loro stessi, è poi abbandonato il tema. Ora la sostengono.

È un partito che non ha mai sposato gli argomenti a favore dell’ambiente e ora si allineano a quelli succedanei adottati dal liberismo. Non si accorgono dell’ossimoro e procedono impettiti come fossero loro ad aver annunciato al mondo come stanno le cose in quanto a inquinamento e sfruttamento delle risorse. Al traino di idee non maturate dal loro seno cercano di trattenere la migrazione dei voti con la mascherata dell’ambiente.

Hanno detto addio alla sovranità nazionale in nome del progressismo e del progresso. Così lo chiamano questo disastro aereo della cultura, del sociale, dell’umanesimo. Lo hanno detto all’Europa convinti che da soli saremmo stati schiacciati. Ma da chi? Dal mercato, ovviamente. La sola divinità a cui portare rispetto. Peccare contro di essa sarebbe stato mortale. E siccome ogni ambito ha la sua verità, per ricostruire la dinamica che ci condurrebbe all’oblio ci vuole poco. Basta mettersi nel punto di mira in cui si traguarda il mondo, la vita, la storia, le relazioni, sotto l’egida ferrea del dominio del denaro.

Prima di chiunque altro, prima di certe destre, la sovranità è stata ceduta, ma che dico, regalata, come un oggetto senza valore, da loro stessi. Mentre porgevano la mano al liberismo, la ritraevano da quella degli elettori. Elettori che – credevano – non li avrebbero abbandonati per acquisiti meriti morali, quelli che prima di loro erano il vanto dei Radicali. L’attenzione alle minoranze li avrebbe salvati dal perdere i consensi di un tempo. Ma è stato un gesto calcolato, senza trasporto, messo in campo per radunare voti.

Un passo alla volta demolivano la struttura sociale e culturale. Un passo alla volta dall’ala sinistra si portavano al centro, da dove era più facile accodarsi verso un futuro senza più piazze e chiavi inglesi, dal quale guardare il mondo da asettici droni. Era un altro espediente di galleggiamento che tronfi di lungimiranza chiamavano progressista, ma che nel singolo caso si chiama trasformismo.

Dalle tavolate delle feste dell’Unità, dove si radunavano a cantare Bandiera rossa mangiando salamelle insieme agli uperari, pur di stare dalla parte giusta del mondo, con passo non sempre felpato passarono ai salotti, dove invece della mescita di spine c’erano spritz e gin and tonic, dove invece di fango e gazebo c’erano pregiati kilim a terra, rassegne di Einaudi e Opere complete di Editori Riuniti nelle librerie, invece di stivali e cerata, scarpe con la para e cravatte di tweed. Invece di parlare di salari, scioperi e diritto dei lavoratori, si dedicavano ad affermare posizioni di corrente, a cercare la strategia per guadagnare consenso interno, a tralasciare il significato popolare della direzione che avevano intrapreso.

Dominati dalla coercizione d’intelligenza imposta dal razionalismo, gli intellettuali si sono sempre allontanati da coloro che vorrebbero, o avrebbero dovuto, rappresentare. La gramsciana “connessione sentimentale” tra chi pensa e chi vive è progressivamente scemata.

Gli intellettuali, a volte pedanti per la capacità di argomentare razionalmente, fanno quadrare il cerchio ma non emozionare. Abili nel sezionare e storicizzare, meno nel coinvolgere e farsi cercare. Cioè capaci di relazionarsi a chi già è sul pezzo. Ma a tenere a distanza chi sul pezzo ancora non è. Capaci di provocare senso di solidarietà ma non bastante per muovere anche i corpi, le gambe e le dita fino a portarci all’urna per mettere la croce sul simbolo giusto, fino a sostenerli con le nostre parole.

Dopo che per anni si sono sentiti accusare di aver abbandonato il popolo dal quale erano nati, recentemente hanno iniziato ad ammetterlo, forse credendo così di poter trattenere ancora qualche nostalgico che davanti al mea culpa potesse impietosirsi e non, almeno lui, ammutinare.

Da anni non si sentono le voci che la sinistra ci aveva insegnato a riconoscere (“Dì qualcosa di sinistra!” Nanni Moretti, attuale dal 1989). Da anni, a partire dalla fine della guida delle ideologie, ciò che prima era nettamente distinto si è liquefatto sotto l’egida del pensiero unico. Frange di ex-nemici si sovrappongono o anche si invertono.

Se in molti a sinistra avevano fatto di tutto per restare in piedi nonostante la tempesta perfetta in cui si erano cacciati, forse ora si possono abbandonare le ricerche. Forse ora, dove prima c’era una massa, si può erigere una lapide.

 

Il senso

Indipendentemente da cosa contenga la Sinistra e dal giudizio culturale e politico che chiunque può esprimere, lo sfascio dichiarato dalle dimissioni del segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, può essere sfruttato per una riflessione extrapolitica, che riguarda le dinamiche emozionali della comunicazione, che riguarda il Comando. Ovvero, il potere magnetico e orientativo.

Un leader è tale quando aggrega. Aggregare è orientare le menti come fa la segatura di ferro davanti alla calamita. Un leader non spiega, non analizza, non argomenta, un leader emoziona. L’emozione condivisa implica la generazione di un corpo comune, dentro il quale ognuno sente la levitazione della propria forza.

Un leader sa che la comunicazione si muove su ponti emozionali, sa che una metafora permette salti di livello che un’argomentazione renderebbe stucchevoli e selettivi. Dunque quale figura è disponibile ora al PD che possa disporre del magnetismo necessario a ricomporre reggimenti, battaglioni, plotoni e squadre capaci di agire per scopi comuni?

Un’esperienza comune erano le manifestazioni di massa, era far parte del proletariato, era sentire il supporto reciproco tra pari grado e dentro la piramide della inevitabile gerarchia, da cui la parola compagno giustamente cercava di eluderne il peso specifico.

Valori e implicita tradizione costituivano il nervo spirituale di una comunità, di un’aggregazione. Esprimevano ideologie per le quali si poteva anche mettere in conto la morte per difenderle.

Ma ora? Dopo aver abbandonato le ideologie ed essere passati all’individualismo, dopo aver partecipato a sciogliere nell’acido dell’edonismo la monade della famiglia, dopo aver accreditato la tecnologia come sinonimo di progresso, il terreno umanistico che si potrebbe definire analogico è stato buttato al macero. Li sento già: “Per forza, siamo progressisti”. Avranno ragione ad essersi buttati a capofitto nel Mondo.2? O avranno dimenticato che l’uomo ridotto alle categorie misurabili del positivismo muore?

I magneti di prima, analogici, nati per durare, sono stati sostituiti da quelli di oggi, digitali, nati ad obsolescenza programmata. La Patria è dimenticata e antiquata, conta il benefit. La guerra tra classi non ha campi di battaglia dove svolgersi, occupati tutti dalla guerra tra poveri.

 

Senza alternative

Se Enrico Letta, il nuovo Segretario del Partito, tutt’altro che uomo di comando, riuscirà a riassestare i suoi subalterni e a recuperare non il terreno ma i voti perduti, significa che la tecnocrazia ha definitivamente sottratto agli uomini il senso della vita. Significa che il senso intellettuale ha asfissiato quello emozionale. Un successo che i razionalisti vanteranno senza avvedersi del boomerang che hanno lanciato.

Identicamente al leader fa il comico. Esso emoziona e tutti lo applaudono. Il comico è un esteta – cavalca l’immediatezza dei sensi non la lentezza dei ragionamenti – e perciò un leader. Diffonde appeal, coglie le lunghezze d’onda che ci fanno vibrare, che ci fanno innamorare o respingere. Quelle che, sole, sanno accarezzarci dove custodiamo la nostra verità. Come il comico, un comandante fa sangue, coinvolge, piace, stravolge, tiranneggia, prende per la pancia e quando serve per la testa. Come il comico, un leader non è politicamente corretto, è emotivamente trainante. Per questo è percepito e riconosciuto come leader anche da chi non ne condivide espressioni e pensiero. Ma il vero risultato non sta nel motto di spirito, di unione e corpo che certo fa bene. Il vero risultato è che la sua ironia, il suo sarcasmo, le sue battute smussano gli angoli del discorso che vorrebbe criticare. Il comico è un digestivo della pietanza più tossica. Colui che si crede libero di criticare il potere di fatto ne è parte, forse la migliore, la più utile. La società dello spettacolo e il consumo di informazione hanno figliato un mostro con tanti seni, sufficienti a nutrire tutti.

E, gran finale, la suggestione, salvo la Champions e il Grande fratello, è quella che non ci siano alternative.