In aliena direzione
di Lorenzo Merlo - 23/11/2025

Fonte: Lorenzo Merlo
Appunti e punti di un firmamento esiziale o verso un disperante morire.
L’autoreferenziale scala verso l’alto, simbolica rappresentazione della modernità e del suo culmine detto post-modernità, può stare nella seguente sintesi: anima razionalista, cuore meccanico, spirito positivista, corpo industriale, valori egoici, fine materiale, progresso opulente, benessere apparente, profondi effetti collaterali, sottrazione delle identità, crescita sconsiderata, controllo capillare, avidità legittimata, fideismo digitale, esaltazione per l’intelligenza artificiale, ebbrezza post-umanista.
Una scala verso l’alto sotto l’egida della tecnologia, del capitalismo finanziario e della digitalizzazione, trinità fautrice del “migliore dei mondi possibili”. Uno slogan del razionalismo di Leibnitz, da lunga data plagiato da certi economisti-illusionisti, sempre estratto alla bisogna dal cilindro per imbambolare ancora, buona parte di noi, con la sua promessa di elargizione di benessere, di pace e di felicità.
Quelli in cima alla scala, ciechi al crollo che li attende, seguitano nella propria autoesaltazione. Un’euforia che coinvolge però anche buona parte della moltitudine più in basso. Gente comune che li sostiene, in equilibrio sul filo ancorato al niente, inconsapevole del vuoto nichilistico d’intorno, disposta – o predisposta – alla guerra tra poveri, pur di strappare al proprio pari le briciole che cadono dall’alto.
Per i critici dello spirito di questo tempo, la scala è destinata a precipitare. In esso vi vedono con chiarezza la cesura dell’uomo dal cosmo. Un’implicita conseguenza della suggestione antropocentrica, del mito della propria indipendenza. Le cui conseguenze sconvenienti sono sempre più somatizzate. Si possono infatti osservare nella metastasica, multiforme e crescente sofferenza cancerogena del mondo, conclamata anche nella sconsiderata politica, monca di qualsivoglia suffragio popolare, in mano a entità autoreferenziali al guinzaglio di potentati privati con il monopolio della comunicazione. Sfacciati affabulatori che ci costringono a considerare l’opera di Orwell e non solo la sua, non più distopica ma realistica. Ma anche e soprattutto nella inquieta infelicità degli individui, nei loro conseguenti violenti scoppi di collera nefasta, dei quali sarebbe opportuno diffondere il piano cartesiano che ne segni l’andamento. Progresso sull’ordinata e calendario sull’ascissa. Forse anche qualche benpensante agnostico soldatino in tweed, velluto a righe e Clarks, potrebbe divenire revisionista del proprio progressismo, potrebbe rinsavire dal proprio inconsapevole ideologismo.
In questo contesto culturale, il libro aperto sull’intera verità della natura, di noi, della vita, come in Fahrenaheit 451, è mandato al rogo dagli ideologisti più temibili, gli scientisti-progressisti. Una specie di individuo che ritiene di poter scomporre la realtà per conoscerla, che crede che la realtà esista indipendentemente da qualcuno che la concepisca, che considera il tempo un viaggio verso il futuro, che pensa di poter svelare il mistero a colpi di speronate razional-materialiste, che non si avvede d’essere espressione, come ogni suo simile ed ogni altra creatura e creazione, di una sola matrice.
Così procedendo non si avvede del ciclo perpetuo con il quale la natura mantiene se stessa, dunque neppure dell’evidenza che la morte fisica è il sistema, l’escamotage, il picco di autoconservazione della vita.
Sebbene si possa fare una strutturale analogia con i mercati che, sotto la tempesta di comunicazioni celebrative della rottamazione, sono tenuti in vita dalla programmata obsolescenza delle merci, non v’è punto di contatto tra i due sistemi né conoscenza per l’uomo, ma solo l’interesse personale. Un culto ontologicamente destinato a figliare ed allattare ad oltranza il lato Caino della storia.
Come una segnaletica o una opportuna lettura del terreno necessarie per superare ostacoli e giungere a destinazione, la morte informa la vita affinché questa possa correggere il proprio procedere e mantenere la via aggiornando se stessa nei confronti di nuovi attacchi e nemici.
Tutte le sostanze materiali e spirituali – alimentazione, respirazione, attività motoria (come conoscenza, non come esecuzione), pensieri, sentimenti, contemplazione, meditazione, preghiera (come diffusione d’amore, non come pretesa) – permettono o impediscono il riconoscimento e il mantenimento dell’appartenenza alla natura.
Se la consapevolezza del potere dell’accettazione è una delle chiavi che apre la porta verso la miglior condizione terrena, a mezzo di essa si può riconoscere che la ricerca del bene presuntuosamente implicata nella modalità scientista ha, invece, importanti e nocivi effetti collaterali.
Questi si mostrano con imperturbabile ed ininterrotta continuità seguendo la via dei valori egoici e materiali, considerati inalienabili diritti, superiori ad ogni altro. Ma è nei momenti delle morti spirituali lungo il corso dell’esistenza e in quello della fine della dimensione fisica che avvertiamo l’alienazione, la distanza incolmabile con i ragionamenti e con l’erudizione nei confronti di noi stessi in quei momenti, se siamo stati protagonisti di una condotta senza spessore.
Una morte aliena corre il rischio d’essere l’apice di un’esistenza creduta nostra, votata ad inseguire l’effimero dell’apparenza, sottomessa alla superficiale conoscenza dei saperi intellettuali, riempita di vanità e di buone maniere, comprese quelle utili per giudicare dall’alto chi non ne ha.
In quei saperi, in quell’esistenza, in quella via marcata da scelte aliene alla natura – in una parola scientiste, per fideismo più o meno consapevole – attaccano e indeboliscono l’energia stessa della vita che si esprime in noi.
In quei saperi generati da un’arroganza ben mascherata c’è la macchia indelebile di un attacco alla conoscenza profonda, la sola che permetterebbe una politica di bellezza e soddisfazione, di emancipazione da quella di abbruttimento e perdizione.
E allora energeticamente e simbolicamente – se non direttamente – è rispettabile prospettare il prosperare dei tumori e delle malattie esiziali quali espressioni, rigurgiti, nodi che la nostra condotta, antropocentrica razional-scientista-materialista, ha provocato alla rete della vita che tutto unisce, alla rotta naturale della conoscenza. Un sapere inquinante – quindi sconveniente se e quando considerato come conoscenza – che possiamo osservare anche nel comportamento dei cetacei, dei pesci, degli animali e degli insetti che perdono la rotta, deviati dalla innocua – così la definiscono – corruzione magnetica provocata dalla rete di elettrosmog che impregna l’atmosfera, la terra e i corpi degli esseri viventi. Campi elettromagnetici considerati indiscussi altari antropico-tecnologici simbiotici al progresso, ma estranei alla natura che, come una qualunque sostanza tossica, ci impone dipendenza e ci allontana dalla purezza. Naturalmente, sotto l’egida di una promessa, anzi garanzia, di elevazione della condizione umana, che occulta però un biglietto per l’inferno.
Il culto dei vaccini, la profusa assunzione delle medicine allopatiche, la presunta innocuità delle trasfusioni, l’indiscusso valore assoluto dei trapianti e della chirurgia gratuita costituiscono anch’essi altri nodi che disorientano e inceppano lo scorrimento dell’energia necessaria all’equilibrio della natura e alla conoscenza dell’uomo, ormai dimentico della propria origine, della propria madre, della propria ragione d’esistenza, salvo quella concepita ed elaborata dal suo pulcioso io.
Tutto ciò è una schiatta d’invasione analitico-vandalico del campo olistico della natura. Le malattie, infettive in particolare, ma tutte in generale, sono informazioni per e del sistema immunitario nostro e della vita.
In questa ottica le grandi epidemie sono per la vita una necessità e un’informazione, affinché si realizzi in essa un sistema di autosostentamento. Un po’ come la segnaletica delle stelle permetteva ai naviganti di giungere a terra. Sottrarre ai marinai il firmamento era destinarli a cattiva sorte. Fornirgli un gps è condannarli a morte in caso di avaria dello strumento. La forza di un marinaio è nella cultura del mare, del vento e del cielo, tutto il resto lo porta all’ignoranza o allo sport.
Dunque tutta la medicina allopatica accanita ed esaurita sui sintomi, incapace di vedere in questi sia la vita sia l’uomo, non fa che alzare il livello di incompatibilità con la salute stessa.
Medicina che, esaltata dalla cultura egocentrica ed egoistica, è obbligata a concepire un uomo meccanicistico e monadico, non quale espressione e portatore di un disegno più ampio di se stesso, di una umanità e di una sacralità.
I mattoni dell’epigenetica individuale costituiscono l’edificio della genetica generale. Un processo nei confronti del quale il singolo individuo individualista, materialista e positivista si sente estraneo e senza responsabilità. La sua misera unità di misura, con la quale riduce il mondo a dati e concetti, in cui crede fino a esaltarsi, uccidere e morire, è il primo impedimento per la sua maturità. Nonché la prima condizione per poter bellamente e scientificamente sbarazzarsi dei tempi della genetica, dei processi evolutivi, della propria partecipazione ad essi. Autopresunto re miope del mondo, su misura per non vedere l’integrità della natura di cui è emanazione e quindi procedere spaccandola a suon di saperi analitici e autoreferenziali.
Il criterio culturale in corso non ha i mezzi per formare persone e medici idonei a distinguere la natura dei loro interlocutori e dei loro pazienti.
Protocolli uniformati, ogm, cloni, a breve, incroci artefatti di specie e/o di razze di mammiferi, microchip incorporati, sono un viaggio siderale a cavallo della tecnologia con destinazione sempre più lontana dal cuore naturale. Ne sono argomento gli allevamenti intensivi, l’agricoltura chimica, gli antibiotici e le proteine animali per gli erbivori, il cibo umano iper-trattato, l’impiego deliberato di conservanti, il mito della crescita costante, il suicidio assistito come prodotto acquisibile e come progresso politico-sociale, l’offesa pubblicitaria, l’arte mortificata.
Abbiamo a che fare con una scienza tanto declinata ad evolvere ed evolversi in tecnologia quanto destinata a nascondere la via alla conoscenza, che non sta nell’erudizione.
L’ormai plurisecolare relazione delle classi dominanti con la macchina e con l’industria ha stravolto il registro precedente dal carattere artigianale, nei confronti della concezione di sé e del mondo.
La separazione cartesiana del pensiero dal corpo ha germinato un sistema prospettico che a breve a generato l’illuminismo e la conseguente supremazia della ragione, non a caso apparso in corrispondenza con l’avvento della macchina.
Quindi di un’idea di progresso in cui la tecnologia dovesse, senza dubbio alcuno, sostituire la tecnica, che il digitale fosse preferibile all’analogico, che l’artigianale potesse essere tralasciato a favore dell’industriale, che l’alieno dimostrasse un miglioramento dell’umano. Che la voce sintetica di un disco fosse all’altezza della carezza di una ninna nanna della madre.
In tale precipitare, festoso per alcuni, indifferente per la moltitudine, penoso per qualcun altro è praticamente inutile lamentare che la corsa verso le comodità ha cancellato il valore della frugalità, delle difficoltà della salita, della semantica spirituale delle due opposte vie: una che nel portare abbondanza, porta con sé anche oblio di se stessi, alienazione, frustrazione e nichilismo, l’altro, che conduce invece verso la scoperta e la presa di coscienza di sé, dell’altro e del benessere.
Lungo quale via sarà disperante morire?

