In assenza del Popolo
di Marco Bordoni - 03/12/2025

Fonte: Marco Bordoni
In primo luogo, riguardo agli Italiani. Nessuno si chiede più cosa significhi essere Italiani. Ovvero cosa abbiamo, noi, di diverso dagli altri abitanti del pianeta e in cosa la nostra esistenza arricchisca, ammesso che lo faccia, il retaggio dell’umanità.
Quando ero ragazzino questo dibattito ancora c'era, sebbene anemico, sebbene schematicamente diviso fra anti italiani ed arci italiani. Spesso puerile, raramente superiore allo spaccio di cliché (la famiglia, la furbizia, l’individualismo, l’inventiva): ma c'era. Ora, il nulla: sei Italiano a caso, come eri nei rossi o nei blu da ragazzino, quando si facevano le squadre e, tutti in fila, si diceva “rosso” o “blu” a turno. E questo è, mi pare, un problema.
Secondo: il popolo non si percepisce come tale. Forse è perché pochissimi lavorano con le mani, e chi lavora al computer, o lavora con le mani ma ha una specializzazione o un ruolo direttivo, per quanto effimero, si ritiene di più del popolo, pur avendo, spesso, un reddito che a malapena gli consente la sopravvivenza. È la classe media terziarizzata, il non luogo sociologico per definizione. D’altronde i poverissimi e gli stranieri che spesso, nella minoranza di quelli che lavorano con le mani, sono addirittura la maggioranza, sono ritenuti e probabilmente si ritengono anche loro (ammesso che a qualcuno interessi cosa pensano), meno del popolo. Oltre a questo gli stranieri, beh, non so se si può dire… non sono Italiani. Per il semplice fatto, scusate se l'erba è verde, che non sono nati qui e non hanno passato la parte formativa della vita, infanzia e adolescenza, qui. Infine ci sono loro: le classi dirigenti, qualunque cosa ciò significhi, l’intellighenzia: questi non solo disertano la loro funzione sociale di elevare lo standard della cultura creata dal popolo, ma si dedicano anzi, con feroce costanza, ad estinguere qualunque scintilla di vita si muova, nella piramide, sotto ai loro piedi.
Quindi: il popolo non esiste. E questo, ovviamente, anche questo è un problema, anzi è un problema ben più grave dell’altro, perché significa che la matrice che genera il sostrato su cui cresce la cultura e l'identità è totalmente inaridita. Certo, ci sono quelli che, come gli indovini dell'inferno dantesco, reagiscono a questo nulla guardandosi indietro, cercando nel passato elementi identitari e se ne vanno ai corsi di dialetto, o di storia locale, o di cucina, o a messa. Ma questo riflesso, per quanto umanamente comprensibile, ed anche, da un certo punto di vista, tragicamente commovente, appare a me stesso, che lo pratico, collezionismo e, ad essere spietatamente autocritici, necrofilia.
Ora, prima di arrivare a una specie di conclusione, vorrei parlare del senso di appartenenza ad altre realtà territoriali: l'occidente, l'unione europea, la città.
Al campanilismo è legata la stagione più illustre della nostra storia, e l'appartenenza al paese è stata tradizionalmente un connotato iper identitario dell'essere Italiani, tanto che si poteva affermare il paradosso che essere in primo luogo del paese era un tratto essenziale dell’essere, di conseguenza, Italiani. Ma tutto questo ovviamente è passato, è stato spazzato via già dai trasferimenti interni e dall’inurbazione degli anni sessanta e settanta. Oggi l'unico elemento identitario è la squadra di calcio e, magari, un vago senso corporativo delle realtà economico politiche locali. Siamo lontani anni luce, come si vede, da un vero sentimento popolare di appartenenza. La vita municipale è spenta, e questo buio si riflette nel buio di quella nazionale.
L'Unione Europea non ha un popolo, né può averlo, e per questo, prima ancora che per le istituzioni che si è data, è anti popolare per definizione. L'occidente è una formulazione propagandistica per definire l'impero americano e le sue colonie (su questo punto ha detto tutto Schmitt). Si tratta di imposizione a senso unico di modelli che, oltre tutto, procede quasi sempre per sottrazione, dal momento che gli imperi lavorano sui minimi comuni denominatori. Tutto questo è stato studiato ad esempio dal conte Trubeckoj, che per la prima volta spiegò il colonialismo (con il suo effetto tipico di alienazione della classe dirigente dal popolo), visto dal lato dei colonizzati. Per come la vedo io, l’Unione Europea e l’Occidente sono istituzioni tanto efficaci nell’impedire lo sviluppo di una coscienza nazionale popolare quanto strutturalmente incapaci di produrne una ad un diverso livello.
Alle volte mi chiedo, come faccio ora, alla fine di questo sfogo senza senso, se da tutto questo usciremo mai. Di certo usciremo, se si intende l’uscita come una qualunque riconfigurazione dei fattori che la storia meccanicamente produce. Ma se si intende, per uscita, un esito risolutivo del problema senza una resa dei conti traumatica, forse addirittura apocalittica, le cose cambiano.
Mi auguro di avere la vista corta, ma, per quanto aguzzi lo sguardo, una rinascita del popolo senza una catastrophé, nel senso etimologico di capovolgimento, certo, ma purtroppo non solo in quel senso, non riesco, ahinoi, a vederla.

