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Insegnare le scienze non esclude il trascendente

di Francesco Lamendola - 04/05/2019

Fonte: Accademia nuova Italia

Lo notava un grande scienziato come Enrico Medi e anche noi, da parte nostra, ne abbiamo parlato in più d’una occasione (cfr. spec. l’articolo: Una bene intesa didattica delle scienze può sacrificare del tutto lo spazio della fantasia?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 06/08/10 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 01/10/17): non si deve ridurre la trasmissione del sapere scientifico a qualcosa di esclusivamente tecnico, duro, meccanico e deterministico; bisogna far vedere agli studenti anche il lato affascinante e poetico della natura, in modo da non chiudere la finestra sulla domanda metafisica e da non spogliare il mondo del suo splendore intrinseco. Di fatto, specie dalla seconda metà del Novecento, l’insegnamento delle scienze naturali, della biologia, della geologia, dell’astronomia, sono diventati la punta di diamante di una visione brutalmente darwinista e totalmente immanentista del reale, come se la conoscenza dei segreti della natura togliesse via via spazio a ogni credenza nel soprannaturale, sino a farla scomparire del tutto. Questa è la visione evoluzionista e positivista ottocentesca, secondo la quale ad ogni avanzata della scienza corrisponde una proporzionale ritirata della fede religiosa; la sua origine risale all’illuminismo, con la sua idea di una ragione libera e spregiudicata, ben diversa da quella concepita, finalisticamente, da Aristotele e da san Tommaso d’Aquino; e prima ancora dalla rivoluzione scientifica galileiana, secondo la quale il grande libro della natura è scritto da Dio in caratteri infallibili, per cui lo scienziato non può errare, mentre la Bibbia è scritta in caratteri umani, e quindi può essere interpretata in maniera erronea. Di fatto, così concepita, la didattica delle scienze è divenuta una delle forme più massicce d’indottrinamento dei giovani secondo il verbo scientista, cioè secondo la concezione che assolutizza la scienza e svaluta, rispetto ad essa, ogni altra forma di conoscenza, considerata inaffidabile o inattendibile, proprio perché non-scientifica. È ovvia la tautologia della premessa: se solo la scienza, intesa in senso materialista e meccanicistica, rappresenta il vero sapere umano, è chiaro che ogni altra forma di conoscenza non può che risultare squalificata e rimpiccolita, forse anche ridicolizzata. Tuttavia, che la premessa sia giusta non viene dimostrato, e neppure discusso: viene posto in maniera assiologica. In altre parole, i fautori di uno scientismo tanto rozzo quanto banale si sentono forti perché giocano in regime di monopolio: non devono mai prendersi il disturbo di confrontarsi con una critica alle loro premesse: hanno conquistato il terreno a causa dello slittamento di tutta la cultura, anche di quella filosofica e storica, e dell’intera società, in senso materialista, pragmatista ed efficientista. Si sentono come altrettanti astronomi copernicani che non hanno alcuna necessità di confutare la cosmologia tolemaica, perché sarebbe come sprecare il loro tempo in una inutile battaglia di retroguardia, mentre hanno cose assai più importanti da fare, ossia sviluppare al massimo la nuova visione del mondo. Inoltre si sentono forti del numero e del fatto che tutti i testi scolastici e tutte le cattedre universitarie, o quasi, condividono il loro universo mentale, mentre i loro eventuali critici sono talmente pochi da costituire, ai loro occhi, una quantità irrilevante. Però la similitudine con gli astronomi copernicani non regge, perché gli sviluppi del sapere scientifico, soprattutto della fisica nel corso del XX secolo non avvalorano affatto la loro concezione rigidamente materialista e meccanicista; il principio di indeterminazione di Heisenberg, per non parlare della relatività generale di Einstein, indicano semmai la direzione opposta. Ma  Piero Angela, Margherita Hack e Piergiorgio Odifreddi  non lo sanno; e l’indirizzo generale della didattica scolastica delle scienze, in Italia, paradossalmente è indicato da divulgatori come loro, non da scienziati come Enrico Medi, Luigi Fantappié o Antonino Zichichi. Quanto alla forza del numero, è superfluo ricordare che si tratta di un argomento di nessun valore epistemologico: la quantità dei consensi non è mai un fattore significativo in una questione riguardante la verità. Pertanto non è un destino che le scienze si debbano insegnare a quel modo, sbattendo la porta in faccia alla poesia e alla bellezza che socchiudono una finestra sulla trascendenza.

C’è stato un tempo in cui la didattica delle scienze non era stata ancora monopolizzata dagli scientisti arrabbiati e dai darwinisti di ferro; e non solo c’era spazio per consentire agli studenti di vedere, se lo desideravamo, un pezzo di cielo, cioè per scorgere, al di sopra della lotta per la vita o del succedersi delle ere glaciali e interglaciali, un fine, un significato, nonché una suprema armonia nei fenomeni della natura, ma in cui questo tipo di approccio veniva loro esplicitamente suggerito, senza che ciò suscitasse lo scandalo o attirasse sui malcapitati professori, o sugli autori dei libri di testo, la terribile accusa di voler fare della teologia di contrabbando. Quel tempo è finito più o meno negli stessi anni nei quali si registrava l’irruzione vittoriosa e inarrestabile della cultura moderna in tutti gli ambiti del conoscere, e l’instaurasi dello stile di vita moderno sulle macerie delle forme della vita pre-moderna, fossero queste la civiltà contadina oppure la millenaria civiltà cattolica, le quali avevano custodito una concezione del reale e un relativo codice etico fondati su presupposti totalmente diversi da quelli della modernità, i quali sono nati con la rivoluzione scientifica, la massoneria e l’illuminismo. Stiamo parlando, naturalmente, degli anni ’50 e ’60 del Novecento: gli anni dell’industrializzazione, dell’americanizzazione, del nascente consumismo, del libertinismo di massa – come lo chiamava Augusto De Noce -, culminati nel Concilio Vaticano II e poi nel ’68 studentesco. Fino agli anni ’40, cioè ancora qualche anno dopo la conclusione, per noi infelicissima, della Seconda guerra mondiale, la concezione tradizionale della vita e quindi anche della cultura, sostenuta dalla famiglia patriarcale contadina, dal patriottismo e soprattutto dalla religione cattolica, ancora capace, benché in declino, d’improntare di sé la vita di una bella fetta del popolo italiano, consentiva un approccio scolastico non schiacciato e appiattito sotto il peso del totalitarismo scientista, che era testimoniato dall’impostazione dei libri di testo sui quali hanno studiato e si sono formati i nostri genitori e i nostri nonni. 

Ecco cosa diceva, ad esempio, a proposito dei rapporti fra i vegetali e l’uomo, un testo allora assai noto, Zoologia e Botanica di Vittorio Guizzardi (citiamo dall’edizione per l’Istituto Magistrale e Tecnico Superiore, vol. 2, Biologia ed igiene, Bologna, Cappelli Editore, 1947, pp. 246-249):

 Molteplici sono i rapporti fra i vegetali e l’uomo, non solo perché l’uomo riceve dalle piante alimento, ma anche una quantità di prodotti per le sue industrie, per la medicina, per il sostentamento del bestiame; e anche perché delle piante l’uomo fa uso a scopo ornamentale, o si vale di esse per soddisfare al suo piacere (tabacco) o alla sua vanità (essenze e profumi).

Di questo rapporti abbiamo trattato nel corso del nostro studio. Vogliamo però aggiungere anche un’altra cosa. Non è soltanto l’utile che deve infornare la vita degli uomini. Vi è qualche cosa in noi che non deve essere soppresso; e questo qualcosa è la natura, fine a se stessa. Parte integrante della natura sono le piante; sorgente di poesia quanto mai suggestiva sono gli alberi. Dove vi sono alberi il paesaggio si anima e si trasforma. Ogni albero ha infatti la sua fisionomia, la sua caratteristica, la sua bellezza. I Cipressi, che alti e solenni si drizzano verso il cielo col loro verde cupo, di un tono quasi nero, o esili e minuti si spargono sulle colline, come nei ridenti colli toscani, dove crescono insieme agli Ulivi dalle foglie di un verde chiaro azzurrognolo; le Querce dai tronchi possenti e dalle chiome rigogliose, simbolo della robustezza e della forza; i Pini dalla larga chioma ad ombrello, che hanno una loro linea estetica di singolare eleganza; i Castagni dai tronchi annosi e cavi e ritorti che formano boschi dal denso fogliame, sotto le cui ombre umide vegetano rigogliose le felci, le eriche e tutta una flora di Muschi, di Funghi, e di Crittogame fra lo stillicidio delle acque sorgive; i cupi Abeti che formano grandiose associazioni sulle alte montagne; gli alti Faggi dal tronco chiaro e dall’ampia chioma formante come una cupola immensa di una cattedrale nelle faggete dell’alto Appennino; i Pioppi dal tremula fogliame, disposti in filari sulle rive dei fiumi e dei torrenti; e poi gli Ontani, i Salici, gli Olmi, e tanti altri; ognuno di questi alberi ha un suo aspetto particolare, una sua linea e, possiamo aggiungere, una sua anima. Variabile a ch’essa, questa anima, col variare del tempo e della stagione. Infatti altro è l’albero ancora giovinetto e in via di sviluppo, altro è l’albero grave di anni, fatto adusto dalla longevità, che reca nel fusto e in ogni sua parte le stigmate delle dure lotte sostenute nella vita. Altro è l’albero che in primavera si riveste di tutti i suoi fiori ed espande nell’aria e ai venti la sua gioia di vivere e di amare, e altro è l’albero del tardo autunno che si colora delle tinte più forti e vivaci, dal rosso sanguigno e porpora, ai gialli di cadmio e cromo, agli azzurri e agli indachi più sfumati, simile a una sinfonia musicale possente che canti il trionfo della natura prima che questa si prepara ad avvolgersi nel gelido manto inverale. Altro è l’albero che dorme il suo letargo profondo e stende nel cielo brumoso dell’inverno i suoi rami nudi e scheletriti, e altro l’albero che nel pieno meriggio estivo dà ristoro con la sua ombra allo stanco viandante.

L’amore per gli alberi risponde ad un bisogno dell’animo umano, e da quando la pittura di paesaggio divenne fine a se stessa, i più grandi artisti espressero in tele immortali la bellezza e la poesia degli alberi. E non solo gli artisti, ma il popolo tutto sente fortemente questo amore per gli alberi. In ogni tempo i ricchi fecero costruire nelle loro ville parchi e giardini, nei quali il gusto dell’epoca si rivela, e che l’Italia conserva ancora con cura gelosa, con le loro piante rare, con le loro statue, i loro laghi, le loro fontane, e i loro tempietti. Roma e dintorni sono pieni di queste classiche bellezze: la Villa d’Este con i suoi giganteschi cipressi e le sue cento fontane, la Villa Borghese coi suoi lecci, i suoi lauri, i suoi olmi; la Villa Doria coi suoi magnifici pini. Non v’è città italiana che non sia adorna di giardini, un tempo privati,  ora di dominio pubblico.

I meno abbienti si contentano del loro giardino, nel quale basta un larice, un abete, una pianta da frutto, per rompere la monotonia della architettura delle case d’intono, e per creare un’oasi di verde intorno al grigiore delle tinte dei muri delle facciate. I Comuni, in vista dei criteri estetici ed utilitari, hanno cura dei viali alberati di platani e di ippocastani, e in alcune nazioni, come in Italia, in Olanda, Svezia, Danimarca, Francia, Inghilterra, ecc., vi sono strade alberate e giardini pubblici che ingentiliscono e rallegrano le principali città.

 

Proviamo a evidenziare alcuni passaggi chiave di questo discorso: 1) Non è soltanto l’utile che deve informare la vita degli uomini. 2) Vi è qualche cosa in noi che non deve essere soppresso; e questo qualcosa è la natura, fine a se stesso. 3) Ogni albero ha la sua fisionomia, la sua caratteristica, la sua bellezza. 4) Ogni albero ha un suo aspetto particolare, una sua linea e una sua anima. 5) L’albero in primavera si riveste di tutti i suoi fiori ed espande nell’aria e ai venti la sua gioia di vivere e di amare. 6) I più grandi artisti espressero in tele immortali la bellezza e la poesia degli alberi. Dunque, non si studia la botanica solo per conoscere scientificamente le piante, ma anche per ammirarne disinteressatamente la bellezza. Gli alberi non hanno solo delle qualità estetiche; hanno anche un’anima. E non hanno solo delle attività fisiologiche, possiedono anche una loro gioia di vivere e perfino di amare. Quale autore di un libro di testo di scienze, ai nostri giorni, oserebbe esprimersi così? È giusto, penserà qualcuno: questa è poesia, non scienza. Nossignori; questa è scienza, ingentilita da un velo di accettabilissima poesia. È un saggio modo di introdurre i giovani nel mondo della scienza, facendo vedere loro anche l’aspetto della bellezza, della gioia di vivere e dell’amore. Gli alberi che esprimono l’amore! Romanticismo? No: un modo di vedere le cose che unisce il rigore del naturalista alla sensibilità dell’osservatore, non freddo e impassibile, ma partecipe e trepidante davanti allo spettacolo di tanta bellezza. L’idea che davanti allo spettacolo della natura bisogni indossare il camice bianco, chiudere la mente e il cuore a ogni sollecitazione estetica e spirituale, e ridurre la meraviglia di ciò che si rivela ad una serie di “fenomeni”, intesi in senso puramente materialista e riduzionista, come un qualcosa che si può isolare dal contesto e isolare anche dalla nostra sensibilità di osservatori, significa imporre ai giovani una visione dura, tagliente, asettica del mondo naturale. Così, quando i nostri genitori o i nostri nonni studiavano le scienze naturali su dei testi di questo genere, scoprivano che è possibile gettare un ponte fra la visione scientifica del reale e quella artistica; che si tratta di forme diverse di conoscenza, ma che possiedono ciascuna la propria dignità, nel rispettivo ambito; che studiare gli alberi sotto il profilo della botanica non esclude, anzi, invita ad ammirare, per il puro godimento estetico, le opere dei grandi pittori che sono state ispirate dal paesaggio vegetale, specie da qualche maestoso albero colto nel rigoglio primaverile o nello splendore autunnale. Questa, oggi, viene pomposamente chiamata interdisciplinarità e spesso è tirata per i capelli mediante accostamenti forzati e artificiosi. Invece, in questa pagina d’un vecchio libro di biologia, quanta naturalezza nel collegare le diverse discipline...