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Iran, Rohani vince a mani basse: le ragioni della scelta popolare

di Mirco Coppola - 23/05/2017

Iran, Rohani vince a mani basse: le ragioni della scelta popolare

Fonte: l'Opinione Pubblica

Sono arrivati nella notte i risultati ufficiali delle elezioni presidenziali nella Repubblica Islamica dell’Iran. Il presidente Rouhani è stato riconfermato per un secondo andato presidenziale ottenendo la maggioranza al primo turno.

 

Come già anticipato il giorno della presentazione del candidati ufficiali, che ha escluso dalla partita l’ex Presidente Mahmoud Ahmadinejad e il suo delfino, Hassan Rohani non aveva avversari credibili che potessero sbarrargli la strada. Il presidente dei “moderati” ha battuto il suo principale avversario Raizi, distanziando il candidato conservatore di quasi 20 punti percentuali (57% contro il 38,5% di Raizi). Naturalmente al rieletto presidente iraniano sono arrivate le congratulazioni di Vladimir Putin e di Bashar al-Assad.

Un risultato scontato che evidenzia la tendenza del popolo iraniano a preferire, in mancanza di alternative, una leadership moderata e centrista come quella di Rohani, che si pone a metà strada tra progresso economico, un’immagine all’estero che risulti gradevole all’Occidente e un riformismo culturale che riesca ad essere compatibile con il quadro valoriale dei conservatori/principialisti, questi ultimi ampiamente rappresentati in Parlamento insieme ai riformisti.

In questi quattro anni di presidenza, Rohani ha saputo rilanciare l’economia iraniana, riportando l’inflazione a circa il 6% dopo gli squilibri del 2012-2013, mentre il tasso di disoccupazione, così come nell’era Ahmadinejad ha vissuto alti e bassi: diminuito di circa 3 punti percentuali nei primi due anni (dal 12,5 al 9,5%), è tornato a crescere nel 2016 fino a superare di nuovo quota 12.

Tuttavia la crescita costante del PIL, attorno al 4% annuale piazza l’Iran subito dietro le economie del MINT, sigla che identifica i 4 maggiori paesi in via di sviluppo, dopo quelli dell’ormai celebre gruppo BRICS: Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia. Già annoverato nei Next Eleven circa dieci anni fa dalle analisi della Goldman Sachs, secondo le stime di alcuni analisti internazionali (vedi PWC), l’Iran potrebbe diventare entro il 2030 una delle prime sedici economie del mondo per Prodotto Interno Lordo reale.

Chi si aspettava un cambiamento radicale nei costumi sociali della Repubblica Islamica è rimasto invece deluso. Alle belle parole di Rohani sui diritti della donna, sulla censura di internet, e sul codice di abbigliamento sono seguiti pochi fatti, anche per il limitato potere di intervento che la Costituzione prevede per il Presidente nella Repubblica Islamica su fatti che riguardano la legge religiosa. Anche dal punto di vista dei diritti umani, tanto criticati durante la presidenza Ahmadinejad non è cambiato nulla: il numero delle pene capitali in Iran è rimasto costante da un quadriennio all’altro.

Anche in politica estera accantonata l’inclinazione di Ahmadinejad verso il socialismo del XXI secolo (forte la sua amicizia con Chavez e gli altri neobolivaristi dell’America Latina) e riabilitata una certa tendenza della Repubblica Islamica a costruire un fronte islamico filosciita, regna la continuità. L’accordo di Rohani con i paesi del 5+1 a Losanna nel 2015 non ha scalfito e ha anzi riabilitato a tutti gli effetti la forte alleanza tra Teheran e Mosca, che ha raggiunto il proprio apice con la formazione del fronte comune con Mosca e l’Hezbollah libanese in sostegno del governo siriano guidato da Bashar al-Assad.

Guardando a oriente, resta solida anche la partnership con la Repubblica Popolare Cinese che ha progressivamente sostituito il Giappone nelle importazioni iraniane, dove la Cina è seconda soltanto agli Emirati Arabi. Attualmente la Repubblica Popolare è il primo paese nelle esportazioni iraniane, l’Iran infatti contribuisce a gran parte del fabbisogno energetico cinese, mentre Pechino contribuisce agli investimenti di Teheran nelle infrastrutture (sistema di trasporti, dighe etc.) oltre che in alcuni generi alimentari.

Ma la partnership tra Teheran e Pechino è anche politica: nonostante la tradizionale cautela dei cinesi nel rapportarsi con un paese controverso e formalmente agli antipodi rispetto alla PRC e ai valori espressi dal PCC come la Repubblica Islamica dell’Iran, i due paesi hanno un rapporto consolidato sin dagli anni ’70. Entrambi si ritrovarono, nonostante le differenze ideologiche sia durante il regime dello Shah che dopo la Rivoluzione islamica, a sostenersi a vicenda sposando la linea terzomondista dell’antiimperialismo, considerata alternativa sia a quella degli Usa che a quella sovietica, quest’ultima vista come una minaccia sia da Pechino che da Teheran, dopo la rottura dell’URSS con la Cina di Mao Tse Tung.

La Repubblica Popolare ha contribuito non solo allo sviluppo delle infrastrutture civili, ma anche allo sviluppo militare e strategico dell’Iran. Sono da annoverare soprattutto con lo sviluppo di alcune centrali nucleari costruite a scopo di ricerca sia a Isfahan che a Bushehr, mentre a livello militare la RPC ha contribuito alla formazione dei quadri dirigenziali dell’esercito iraniano come alla fornitura di tecnologia avanzata. Una partnership che ha scricchiolato davanti alla decisione cinese di sostenere le sanzioni contro il programma nucleare iraniano al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ma che ha retto davanti alla mutua necessità di vendere e comprare materie prime, mercato indispensabile per entrambe le economie.

L’Iran quindi non ha spostato il proprio asse geopolitico, restando ancorato al Gruppo di Shangai (SCO) e al Gruppo Brics non spostandosi di molto dall’Iran che abbiamo conosciuto negli ultimi anni, se non per una maggiore apertura all’occidente, grazie all’accordo sul programma nucleare.

In un contesto politico nel quale sia l’ala riformista più intransigente che l’ala più populista vengono tenute fuori dai giochi, la popolazione iraniana ha chiaramente espresso la sua voglia di stabilità con il voto di ieri. Gli iraniani, aldilà di quello che si dice dal 2009, hanno dimostrato che per molti versi non vogliono allontanarsi dalla rotta intrapresa con la Rivoluzione khomeinista, piuttosto anelano a riformare il paese dall’interno con lo sviluppo economico e umano della Repubblica islamica.

La stretta sulle candidature compiute dalla Guida Suprema garantiscono un equilibrio centrista rispetto ai canoni iraniani, dove né l’ala più estrema dei conservatori né quella più estrema dei riformisti hanno possibilità di trionfare. Non ha dato però la garanzia ai conservatori sostenuti dalla Guida stessa di ottenere la leadership esecutiva e legislativa del paese. Raizi a differenza di Ghalibaf quattro anni fa ha ottenuto un cospicuo numero di preferenze (più di 15 milioni di persone hanno votato il candidato conservatore), ma è stato di nuovo Rohani a trionfare con la maggioranza assoluta dei voti, come era successo nel 2013.

È chiaro che dopo i fatti del 2009 i riformisti hanno rinunciato alle tentazioni da regime change che avevano portato alle proteste giovanili e all’arresto di Moussavi e Kharroubi, e il fatto che il primo è ancora in carcere la dice lunga sul taglio netto che i riformisti hanno dato con il loro passato per sposare la linea più pragmatica di Khatami-Rohani. Una tattica che si sta rivelando vincente. Da parte dei conservatori invece è mancato il coraggio di sposare la linea populista dell’ex alleato Ahmadinejad che ha tolto alla fazione vicina alla Guida una grossa fetta di consensi.

La linea di continuità che si percepisce nell’alternanza alla guida dell’esecutivo tra Ahmadinejad e Rohani (nonostante le diversità tra i due) sta a indicare che la direzione intrapresa dalla popolazione iraniana diverge da quella dell’apparato khomeinista facente capo alla Guida Khamenei. Le fasce più basse della società iraniana, ancora maggioranza assoluta della popolazione, hanno votato Ahmadinejad nel 2005 quando l’ingegnere ex sindaco di Tehran prometteva welfare, istruzione, crescita economica e occupazionale; nel 2013 quasi lo stesso tipo di elettorato è passato a sostenere Rohani che sembrava avesse le idee chiare sulla ripresa economica, dopo le difficoltà avute dagli ultimi due anni di presidenza del suo predecessore (2011-2012) e l’isolamento dovuto alle sanzioni del programma nucleare iraniano.

Il 2017 ha dunque confermato che né gli strenui difensori dello status quo del conservatorismo khomeinista, né i sostenitori di un progressismo troppo estremo per un paese musulmano o peggio di un regime change hanno troppo spazio tra i consensi all’interno del paese, gli iraniani preferiscono un riformismo graduale che riesca a dare sviluppo e modernità alla società iraniana pur senza rinunciare alle peculiarità storiche e culturali del paese, come vorrebbero alcuni osservatori esterni.

Per ora ai conservatori sembra star bene l’attuale condizione, vedremo se alle prossime legislative e finito il mandato di Rohani, avverrà un processo di cambiamento o si continuerà sulla linea moderata inaugurata dall’attuale presidenza.