Israele, la guerra, la Bibbia
di Siegmund Ginzberg - 20/02/2024
Fonte: Il Foglio
Usare le Sacre scritture per giustificare ogni strategia non sempre funziona: l’Antico testamento è pieno di contraddizioni. Andare oltre l’ideologia si può. Anche nei conflitti più sanguinosi Dio comanda la distruzione totale di città e viene obbedito. Alla lettera. Il tono cambia quando sono gli israeliti a essere vittime di conquistatori.
Compare presto, nel Libro sacro per eccellenza dell’intero Occidente, una vendetta più atroce dell’oltraggio che vorrebbe vendicare. Due dei figli del patriarca Giacobbe, colui che venne chiamato Israele perché aveva osato lottare con un angelo, si vendicano della violenza subita dalla sorella Dina offrendo al violentatore (che nel frattempo ha rimediato con un matrimonio riparatore) un patto di convivenza pacifica: amicizia tra le due etnie vicine, purché quelli si circoncidano. Due popoli due stati, insomma. “Ma il terzo giorno, quando quelli soffrivano di più [per la circoncisione], impugnate le proprie spade, entrarono nella città che non sospettava di nulla, ed uccisero tutti i maschi” (Genesi, 34:25). Giacobbe convoca i figli impetuosi e li rimprovera aspramente: “Mi avete messo in grave difficoltà, rendendomi odioso agli abitanti di questo paese, ai cananei e ai ferezei. Io ho poca gente, essi invece ora si uniranno contro di me e mi assaliranno” (34: 30).
È quello che Joe Biden continua a dire a Netanyahu: così rischiate di perdere il sostegno del mondo. E quello continua a non sentirci, a rispondere che deve distruggere prima Hamas, che gli ha fatto un grande torto. Così come i figli di Giacobbe avevano risposto ai rimproveri del padre: “E chi gliel’ha fatto fare a quelli di trattare nostra sorella [Dina] come fosse una meretrice?”.
Io non sono indifferente o neutrale. Ci tengo alla sopravvivenza di Israele. Sono ebreo, anche se non credente e non praticante. Come potrei stare dalla parte di chi gli ebrei li vuole massacrare, anzi lo dice e lo fa pure?
Ma credo che la vita di un bambino palestinese valga esattamente quanto quella di un bambino ebreo. È questione di umanità, non di appartenenza. Una volta qualcuno mi ha chiesto in che cosa consiste il mio ebraismo. Ho risposto: far parte di un popolo discriminato, affamato, perseguitato a morte.
È una risposta all’Olocausto. Non voglio far parte di un popolo di persecutori. Sono allibito da come in soli tre mesi siano riusciti a sperperare il capitale di solidarietà per l’aggressione subita il 7 ottobre. Così come resto convinto che tutto bisognava fare tranne che incitare Israele alla vendetta. Non si tratta solo di sproporzione spaventosa tra torto subìto e reazione punitiva. Né di assurda contabilità macabra. Assad padre aveva fatto in pochi giorni 40 mila, non 25 mila, vittime civili bombardando la città siriana di Hama, che gli si era ribellata. Saddam Hussein aveva massacrato forse più curdi e sciiti iracheni di quanti iracheni abbia uccisi l’invasione americana. Anche allora metà erano bambini.
Ma Israele non può permettersi standard morali simili a quelli di Hamas, o dei macellai nei dintorni. Né per vendetta, né per scoraggiare i malintenzionati, né per dimostrare che non è debole. Hamas nell’immagine sanguinaria ci sguazza, è la sua ragione sociale. Israele invece ha dei limiti che i massacratori di professione, quelli che vorrebbero distruggere Israele e gettare a mare gli ebrei, non hanno. Non è questione di immagine, di bon ton in guerra. Tanto meno di bon ton nell’eliminazione dei capi nemici.
È questione di vita e di morte per Israele.
Se non trova un modo per convivere, se viene identificato con l’oppressore, se perde il sostegno del mondo, se litiga con tutti, con l’Onu, il Papa, l’Europa, e anche magari con l’alleato di cui non può assolutamente fare a meno, gli Stati uniti, ne va, temo, della sua stessa sopravvivenza futura.
Tra le molte storie tremende nella Bibbia, ce n’è una in cui si parla di bambini. A rileggerla fa venire la pelle d’oca. È narrata nel Libro secondo dei Re. Tratta delle scorrerie di un popolo nomade semita, gli aramei (la loro lingua era la più parlata in tutta la regione), abitanti la Siria di oggi, contro la capitale dell’antico regno di Israele. Gli aramei usano una tattica antichissima d’assedio. Affamano gli assediati. Gli tagliano tutti i rifornimenti. Avrebbero chiuso anche l’acqua se avessero potuto. “E vi fu una terribile fame in città: l’assedio fu così duro che la testa di un asino morto si pagava ottanta sicli d’argento, e un quarto di kab di bulbi costava cinque sicli d’argento” (2 Re , 6:25). Per la disperazione gli assediati arrivano a mangiarsi tra di loro. Mentre il re di Samaria passa sulle mura viene fermato da una donna. Cos’hai? le chiede. Quella punta il dito contro un’altra, e risponde: “Questa donna mi ha detto: Dammi il tuo bambino, perché lo mangiamo oggi: domani mangeremo il mio. Noi abbiamo dunque cotto mio figlio e l’abbiamo mangiato. Il giorno dopo le ho detto: Dammi il tuo bambino, perché lo si possa mangiare; ma essa aveva nascosto suo figlio” (2 Re, 6:28-29). “E tu, nell’assedio e nelle ristrettezze in cui ti ridurrà il tuo nemico, mangerai il frutto delle tue viscere, le carni dei tuoi figli e delle tue figlie […]” (Deuteronomio 28:53). È la maledizione più terribile che Mosè minaccia al proprio stesso popolo, dovesse trasgredire le leggi di Dio.
Odio chiama odio. Ma devono per forza finire, o venire a un certo punto sospese, anche le guerre tra i nemici più irriducibili.
Anche tra chi si odia di odi incrostati, incancreniti. Talvolta, è vero, le guerre finiscono perché uno dei due viene annientato. Più spesso finiscono perché si crea una situazione di stallo. Non vince nessuno dei due. O perché a chi ha la meglio non conviene distruggere l’altro. E non sempre chi sta avendo la peggio è l’aggressore. O perché, peggio ancora, rischiano di distruggersi reciprocamente. La deterrenza, per quanto possa sembrare paradossale, aiuta. La deterrenza più terribile di tutte, quella atomica, ha aiutato a impedire che la Guerra fredda divenisse una guerra da fine del mondo. Finché uno dei due rivali, l’Urss, è imploso da solo.
Non è bello a dirsi, ma se, malgrado le minacce che di tanto in tanto vengono da Mosca, la crisi Ucraina non è sfociata in guerra nucleare, è grazie alla vecchia atroce deterrenza. Così come, se il conflitto in Medio Oriente non è diventato una guerra mondiale, è anche grazie alle due portaerei inviate nella zona da Biden. Ora ne è rimasta una sola, non è chiaro se per avvicendamento o come avviso a Netanyahu a non tirare troppo la corda. È bastata sinora a tenere a bada l’Iran, Hezbollah e compari. Sinora.
Se non c’è una soluzione militare, se la soluzione militare ha un prezzo più alto del vantaggio che procurerebbe, o se lo sterminio è inaccettabile, allora si deve per forza imparare a convivere. Salvo ricominciare dopo una pausa, magari di decenni. Vale per il Medio Oriente come per l’Ucraina. Si negoziano anche i conflitti apparentemente più insolubili. Prima o poi si devono fermare per forza. Anche se stavolta tutti sembrano intenzionati a tirarla in lungo, in attesa di vedere chi sarà il prossimo presidente Usa.
Ma una cosa è tirare in lungo prima del cessate il fuoco. Altra cosa è continuare a danzare sull’orlo del precipizio, a rischio di farsi dare del genocida. Tirare in lungo prima che l’Onu approvasse una mozione per il cessate il fuoco lo fece anche Golda Meir, nella guerra del Kippur del 1967. Giostrò tra Onu, Casa Bianca di Nixon, e Urss che chiedeva cessazione immediata delle ostilità.
Israele diede prova di diplomazia magistrale, incomparabilmente più accorta ed efficace di quella del governo israeliano di oggi. Aveva evidentemente gli uomini giusti.
Tergiversò finché poteva, per acquisire una posizione più solida sul terreno. Ma poi fece la pace (una pace duratura, che regge ancora) con l’Egitto di Sadat, l’aggressore a tradimento. Ci riuscì anche perché lasciò all’avversario la possibilità di non perdere del tutto la faccia, di potersi vantare, a uso della propaganda interna araba, di aver vinto, non perso, la guerra.
Tutte le paci, anche quella tra Kyiv e Mosca, o quella tra israeliani e palestinesi sono possibili. Anzi necessarie. Purché si sappia che a spingere verso la pace non è quasi mai l’imperativo morale, la religione, l’ideologia. È il puro e semplice interesse. La pace si fa se si riesce a convincere le due parti che gli conviene. Guai a chi si isola, perde consensi per fanatismo. Gli antichi romani, grandi conquistatori, grandi distruttori di città e grandi massacratori, si facevano sempre in quattro per giustificare agli occhi del resto del mondo le loro guerre. “I romani si adopravano al massimo per evitare di dare l’impressione di essere loro a dare inizio a una guerra ingiusta, o di intraprendere guerre per impadronirsi dei vicini, e per mantenere sempre l’apparenza di difendersi e di essere costretti alla guerra”, dice Polibio in un frammento (il n. 99) che gli viene attribuito. Ho trovato affascinante la lettura di una raccolta di saggi sulle guerre, le paci, i trattati nel mondo antico, dall’antica Mesopotamia, dai crudeli assiri, alle prime composizioni tra “superpotenze” rivali quali ittiti ed egiziani, fino al modo in cui si parla di guerra e tregue tra romani e cartaginesi (War and Peace in the Ancient World, a cura di Kurt Raaflaub, Blackwell 2007). Poi ho ritrovato sugli scaffali una raccolta più vecchia contenente saggi di studiosi italiani: La pace nel mondo antico (Vita e pensiero, 1985). Una miniera per la riflessione: offre suggestioni impagabili sulla profondità (e anche le tremende ambiguità) del “pacifismo” tra una e l’altra delle guerre del Peloponneso, l’una e l’altra delle guerre tra Roma e Cartagine.
Per restare alla Bibbia, è zeppa di narrazioni che fanno a pugni tra di loro. No, non mi riferisco a narrazioni contrastanti fatte dalle due parti contrapposte. Fosse così sarebbe fin troppo ovvio. Si tratta invece di narrazioni della stessa parte, nello stesso libro sacro a una delle due parti. Uno degli episodi su cui nella Bibbia si dice una cosa e il suo esatto contrario è la conquista da parte delle tribù di Israele della Terra promessa.
Una delle narrazioni dice che Dio stesso gli ha ordinato la guerra totale, la distruzione completa delle città che resistono, lo sterminio degli abitanti, insomma il genocidio. Viene obbedito. Alla lettera. Presa Gerico con l’aiuto divino, “votarono allo sterminio tutto ciò che vi era nella città: uomini e donne, fanciulli e vecchi, persino buoi, pecore ed asini, tutto passarono a fil di spada” (Giosuè, 6, 21). Passi come questo hanno imbarazzato intere generazioni di interpreti della Bibbia. Che sia Dio in persona a prescrivere il genocidio sembra assurdo alla nostra sensibilità moderna. Più assurdo ancora che qualcuno continui a crederci, a credere (e a praticare) lo sterminio come soluzione del conflitto. Ci crede, a quanto pare, il ministro ultrà del governo Netanyahu che ha proposto di risolvere una volta per tutte la faccenda gettando l’atomica su Gaza.
Ci credeva Yigal Amir, il fanatico che quasi trent’anni fa uccise Yitzhak Rabin perché aveva stretto la mano ad Arafat. Al processo si giustificò citando la Bibbia, riferendosi al precetto divino di non scendere a patti con gli altri “popoli della terra”: “Quando il Signore, Iddio tuo, ti avrà introdotto nel paese, al quale sei diretto per prenderne possesso, numerosi popoli cadranno davanti a te: gli etei, i gergesei, gli amorrei, i cananei, i ferezei, gli evei e i gebusei, sette nazioni più grandi e potenti di te […] Non venire a patti con loro, né concedere loro grazia. Non imparentarti con essi, non dare le tue figlie ai loro figli, né prendere le loro figlie per i figli tuoi, perché distoglierebbero i tuoi figli dal seguire me, per farli servire a dèi stranieri” (Deuteronomio 7: 1-5). Le punizioni più severe, prima ancora che ai nemici, sono riservate agli ebrei che tradiscono il loro dio per dèi stranieri.
Un altro precetto divino è il “Ricorda quel che ti fece Amalek!” (quando, usciti che eravate dall’Egitto, “vi assalì durante il cammino e colpì tutte le persone deboli che ti seguivano [cioè vecchi, malati, donne e bambini]”, Deuteronomio 25:17). Ricorre più volte. Anche in forma di invito di Israele allo sterminio: “Va’ dunque, colpisci Amalek, e vota alla distruzione lui e tutto ciò che gli appartiene. Non risparmiare nulla, ma uccidi tutti: uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini” (Samuele, 15:1). “Dovete ricordare quel che vi ha fatto Amalek, dice la Sacra Bibbia. E noi ce lo ricordiamo”, ha detto Netanyahu subito dopo il 7 ottobre.
Non sono precetti innocenti. Sono serviti a molte apartheid, compreso quello del Sudafrica, a molti genocidi messi in pratica. I puritani si immedesimavano negli israeliti, identificavano gli indiani come canaaniti, li massacravano in nome della Bibbia. Ancora oggi gli ultrà disprezzano il sionismo, che nasce invece laico, anzi socialista. Amir non si è mai pentito e sconta una condanna all’ergastolo. È diventato l’eroe dei coloni israeliani in Cisgiordania. Il leader di ultradestra Itamar Ben Gvir presiedeva il comitato per la sua liberazione. È il ministro per la Sicurezza del governo Netanyahu, uno dei principali sostenitori della linea dura.
I miti sono sempre cattivi consiglieri.
Non si va da nessuna parte con l’argomento che quella terra l’ha promessa e data Dio agli ebrei. Così come non ha portato da nessuna parte i palestinesi sostenere, come faceva Arafat, che gli amorrei e i gebusei di cui si legge nella Bibbia sarebbero i padroni originari, il popolo da cui discendono i palestinesi di oggi. Archeologi e storici sono per lo più del parere che la maggior parte, se non la totalità degli odierni palestinesi sia imparentata più strettamente con gli arabi di Arabia saudita, Yemen, Siria, Giordania, e così via, che con gli antichi gebusei, cananei o filistei. Ma il punto non è neppure questo. Il punto è che con questi argomenti non si fa nessuna pace. Su questi scogli affondò Oslo.
Uno splendido saggio di qualche anno fa, di Michael Walzer, il grande studioso americano di guerre giuste e guerre ingiuste, su The idea of Holy War in Ancient Israel, individuava nei testi biblici due narrazioni diverse e contraddittorie della conquista di Canaan: la guerra totale, di sterminio, genocida, e un conflitto meno intenso, che conosce momenti, talvolta secoli, di tregua, convivenza, negoziato. Stando ai più recenti studi archeologici e storici pare proprio che l’insediamento nella Terra promessa sia stato molto più lento, graduale, molto meno cruento e crudele di quanto lascia intendere il comandamento al massacro e al genocidio.
La coesistenza non è solo possibile. È necessaria. È un dato di fatto. Anche durante la brutale conquista. Della tribù di Efraim si dice che “essi non espulsero i cananei che abitavano in Gezer, e costoro dimorarono, sia pure come tributari, in mezzo agli efraimiti, fino al giorno d’oggi” (Giosuè, 16: 10). E delle città assegnate da Giosuè alla tribù di Manasse, nella valle del Giordano, si dice che “i cananei continuano a risiedere in questo territorio”, anche se in seguito “quando i figli d’Israele divennero più forti, li resero tributari, senza riuscire a scacciarli” (Giosuè 17: 12-13). “Il Signore lasciò dunque sopravvivere quei popoli, senza affrettarsi a scacciarli, né li dette in potere di Giosuè […] I figli d’Israele dimorarono dunque tra i cananei, gli etei, gli amorrei, i ferezei, gli evei e i gebusei. Anzi presero in moglie le loro figlie e diedero le proprie ad essi […]” (Giudici , 2:22 e 3:5). Lo fece, aggiunge il testo, per metterli alla prova, salvo punirli se abbandonavano il proprio dio per gli dèi delle proprie spose. Il Dio della Bibbia, soprattutto di questa prima parte della Bibbia, è geloso, non si fida delle donne. Poco più in là, sempre nel libro dei Giudici, Sansone viene punito, incatenato e accecato a Gaza dai suoi nemici filistei perché si è lasciato sedurre da una donna.
Il tono cambia quando da conquistatori gli israeliti diventano anche loro vittime, assieme agli altri popoli, della furia inarrestabile, delle distruzioni, dei massacri, delle deportazioni in massa di conquistatori più prepotenti: assiri, egiziani, babilonesi, e poi persiani. I toni si addolciscono. Le nazioni “trasformeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci. Una nazione non impugnerà più la spada contro l’altra […] Ciascuno siederà sotto la sua vite, e sotto il suo fico; nessuno verrà a turbare la sua pace”. Così parla ad esempio il Signore degli eserciti per bocca del suo profeta Michea (4:3). “C’è un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace” dice il Qohélet, che, accanto al Cantico dei cantici, è uno dei testi più originali e più poetici (monsignor Ravasi, insigne biblista, dice addirittura “scandalosi”) della Bibbia.
Gli israeliti deportati lamentano, con la voce dei profeti, la “patria bella e perduta”.
Esattamente come nello strepitoso coro del Nabucco di Verdi. I profeti di Israele annunciano, uno dopo l’altro, sciagure avvenute o ancora da venire, strepitano, si lacerano le vesti, elencano quelli che oggigiorno verrebbero definiti crimini di guerra. Amos annuncia l’ira del Signore contro quelli di Damasco “che hanno stritolato Galaad sotto gli erpici di ferro”; contro Gaza e i filistei “perché hanno deportato tutti i prigionieri”; contro il popolo di Tiro “perché tutta la gente fatta schiava l’hanno consegnata agli idumei, e non si sono ricordati del patto di alleanza fraterna” (cioè hanno violato un trattato); contro gli idumei “perché hanno perseguitato con la spada i fratelli, sono andati oltre i limiti nel loro furore”; contro gli ammoniti “perché hanno sventrato le donne incinte, al fine di allargare i loro confini”; contro i moabiti, che hanno bruciato le ossa degli idumei”; ma anche contro Giuda, il regno fratello-coltello dei correligionari, “perché hanno rigettato la legge del Signore e non hanno osservato i suoi comandamenti”; e contro Israele “perché hanno venduto il Giusto per alcuni pezzi d’argento ed il Povero per un paio di sandali”. È l’embrione di un codice di comportamento in guerra, la bozza di una specie di Convenzione di Ginevra di diversi millenni fa.
Ci sono molti modi di leggere la Bibbia. Il peggiore è quello dei fanatici che usano Dio per giustificare le proprie farneticazioni. Il guaio è che vi si può trovare di tutto e il contrario di tutto. Un tempo finiva male chi osasse sostenere, o anche solo adombrare che non va presa alla lettera. L’ebreo, e profugo dall’Inquisizione portoghese, Baruch Spinoza, si sa, fu espulso e maledetto dalla comunità ebraica di Amsterdam perché si ostinava a sostenere che la Bibbia andava letta con cautela. Guai a piegarne la lettera ai propri fanatismi. Guai a considerarlo un libro di storia. Si è osservato che fare storia del Medio Oriente antico basandosi sulla Bibbia sarebbe come pretendere di fare la storia dell’Italia del tempo di Dante, divisa in guelfi e ghibellini, basandosi sul Giulietta e Romeo di Shakespeare. La Bibbia pullula di pulsioni assassine e genocide, di atrocità in nome di Dio. Né più né meno degli annali e delle dediche della vittoria e del massacro ai propri dèi da parte degli antichi re assiri o faraoni egiziani. È trascorso ormai più di un secolo dalla scoperta di una stele in cui, nell’VIII secolo a.C., un re moabita dedica al proprio dio, Chemosh, lo sterminio degli israeliti, con quasi le stesse identiche parole con cui Yahweh, il dio del popolo da lui eletto, comanda nel Deuteronomio, anzi si assume direttamente, personalmente, la responsabilità del massacro delle città e dei popoli che non si sottomettono a Giosuè.
Nessuno ha il monopolio della violenza, della crudeltà, e nemmeno del linguaggio con cui viene raccontata.
Impressionante come, già da millenni, nessuno da quelle parti voglia essere da meno degli altri in fatto di cattiveria, crudeltà, spietatezza. Ognuno dei protagonisti sembra voler copiare dall’altro il peggio. Pena sentirsi sminuito, tacciato di mollezza, non incutere più abbastanza terrore. Niente di nuovo sotto il sole. Neanche il fatto che gli scribi di ciascuna delle parti ce la mettono tutta per calcare la mano, anziché smussare, abbassare i toni. “Estremismo da scrivania”, lo ha definito Moshe Weinfeld, uno dei maggiori studiosi del Deuteronomio. “Proprio come oggi, troviamo, in tutti i paesi, il massimo di esaltazione della guerra proprio in quegli strati di intellettuali che sono più lontani dalle trincee, sanno meno di cose militari”, scriveva Max Weber nel suo Giudaismo antico.