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Jens Stoltenberg: la guerra per procura della NATO contro la Russia

di Daniele Perra - 08/05/2022

Jens Stoltenberg: la guerra per procura della NATO contro la Russia

Fonte: Daniele Perra

Jens Stoltenberg è indubbiamente uno stolto. Affermando che la NATO non riconoscerà mai l'annessione della Crimea sta di fatto ammettendo che questo non è un conflitto tra Russia e Ucraina ma tra Russia e NATO (cosa che sulle pagine di "Eurasia", ad esempio, si dice da anni). Inoltre, sta evidenziando un altro fatto (un'altra cosa che il sottoscritto ripete ormai da mesi): la politica estera (ed oggi anche quella interna di Kiev) è commissariata dal 2014 dalla stessa Alleanza Atlantica.
Dicono bene alcuni analisti nordamericani quando affermano che l'errore strategico russo sia stato quello di aver concesso troppo tempo (8 anni) alla NATO per preparare il suo "proxy" al conflitto. Tuttavia, è altrettanto vero che (forse), otto anni fa, Mosca non era pronta sul piano economico alla risposta sanzionatoria occidentale. È altrettanto vero che l'annessione immediata della Crimea (con il suo enorme valore strategico riconosciuto dallo stesso Stoltenberg) ha creato non pochi problemi ad una dottrina fondata sull'esclusione russa dalla fascia settentrionale del Mar Nero. Il piano del "think tank" Rand Corp del 2019, in questo senso, era abbastanza chiaro: bisogna colpire la Russia nel suo lato debole, le esportazioni di gas naturale verso l'Europa. Tuttavia, secondo gli analisti del centro studi assai vicino al Pentagono, era preferibile non arrivare ad una situazione di conflitto ad alta intensità perché la Russia avrebbe potuto ottenere evidenti vantaggi immediati (ad esempio, il controllo totale sul Mare d'Azov).
Il presidente ucraino Zelensky, già nel marzo 2021, firmò un decreto presidenziale in cui si ribadiva la necessità di imporre nuovamente la sovranità di Kiev sui territori ancora in mano alle forze separiste e sulla stessa Crimea. In questo senso, le dichiarazioni di Stoltenberg ci rivelano come l'azione russa, per quanto assai difficoltosa, abbia messo in crisi la strategia regionale atlantista. È fuor di dubbio che l'obiettivo attuale della NATO sia il logoramento della Russia attraverso il prolongamento ad oltranza del conflitto. Tuttavia, parlare di logoramento ora, dopo neanche tre mesi di conflitto, è piuttosto prematuro.
A ciò si aggiunga che l'idea di "resistenza fino alla vittoria finale e totale" è assai ridicola se si prende in considerazione il fatto che la Russia non si ritirerà mai né dal Donbass né dalla Crimea.
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È passato quasi inosservato (per non dire “silenziato”) il fatto che, ormai da diverse settimane, prosegue il dialogo a tre Turchia-Iran-Arabia Saudita a Baghdad. Patrocinatore del tavolo è il primo ministro iracheno al-Kazemi non poco interessato a trovare un punto di incontro tra le “potenze” vicine che (nel bene e nel male) esercitano la propria influenza sull'Iraq. Lo stesso al-Kazemi ha affermato che la firma di un patto di sicurezza regionale tra Iran e Arabia Saudita potrebbe essere prossima.
Ora, è bene ricordare che il Gen. Qassem Soleimani venne assassinato dagli Stati Uniti (sotto l'amministrazione Trump) nel corso di un viaggio diplomatico il cui scopo era proprio quello di tastare il terreno per l'apertura di canali di dialogo tra Ryadh e Teheran. L'obiettivo USA, naturalmente, era quello di perpetrare il “divide et impera”, assicurare l'instabilità regionale ed il profitto per l'industria bellica nordamericana.
Nello specifico, è interessante notare come l'amministrazione Biden, assai scaltra (non che fosse difficile) nel circuire l'Unione Europea (diverso il discorso per i singoli Stati, esclusa la “serva Italia”) sull'Ucraina, si sia dimostrata assai meno lungimirante per ciò concerne il Medio Oriente.
Di fatto, Biden, pur di riaprire il negoziato sul nucleare con l'Iran, anche in modo da separarlo da Cina e Russia  (la loro “unione” era considerata alla stregua di minaccia esistenziale da Brzezinski), ha optato per un netto cambio di paradigma nei confronti dello storico alleato saudita (anche in termini economici, le importazioni di greggio saudita verso gli USA sono crollate negli ultimi anni). Dapprima, si è scelto di rimuovere Ansarullah dalla lista delle organizzazione terroristiche e di ridurre il sostegno logistico all'aggressione allo Yemen che va avanti (nel silenzio della “comunità internazionale”) da oltre otto anni. Successivamente, si è scelto di insistere sull'“affare Khashoggi” nel momento in cui la Turchia ha optato per trasferire il processo nella stessa Ryadh (cosa che equivale all'insabbiamento definitivo). Curioso anche notare come il segretario di Stato Blinken sia ora interessato alle sorti infauste del giornalista saudita (trucidato nell'ambasciata saudita in Turchia). Un interesse che stona con il destino di Julian Assange o di tanti giornalisti ucraini incarcerati o fatti sparire da Kiev sulla base del loro presunto essere “filo-russi”.
La rimozione del movimento di resistenza yemenita dalla lista delle organizzazioni terroristiche ha di fatto consentito all'Iran di aumentarne le capacità tecnico-militari. Cosa che ha portato ad una notevole intesificazione (per volume e precisione) degli attacchi degli Houthi alle infrstrutture petrolifere saudite ed emiratine.
Ed ecco spiegato il motivo del telefono in faccia a Biden (nel momento in cui questo ha chiesto l'aumento delle produzione per sopperire alla mancanza del petrolio russo sul mercato occidentale) e l'idea di utilizzare lo yuan come valuta di scambio nelle transazioni commerciali con la Cina (il più grande Paese manifatturiero al mondo che dall'Arabia Saudita importa il 25% del suo fabbisogno di greggio). Un dato che metterebbe in grave crisi l'egemonia del dollaro come valuta di riferimento negli scambi globali e la stessa globalizzazione americana fondata sulla globalizzazione del dollaro (con gli USA che producono la carta verde e gli altri Paese che producono le merci da scambiare con i dollari). Inutile dire che l'euro è stato storicamente percepito come una minaccia da Washington. Ragione per cui, dal momento della sua nascita (il 1999, l'anno dell'aggressione alla Serbia) ad oggi, è stato costantemente sottoposto ad azioni ostili da parte degli Stati Uniti (dalla crisi del debito greco, alla Brexit, fino all'uscita unilaterale dal JCPOA che, solo per l'Italia, ha significato una perdita in commesse commerciali per oltre 30 miliardi). Significativo anche il fatto che tale perdita sia arrivata dopo l'umiliazione che Roma ha dovuto subire in Libia. L'aggressione di Francia e Gran Bretagna prima, e della NATO nella sua interezza poi (ancora una volta sulla base di prove quantomeno discutibili), ha avuto il “merito” (per Washington) di distruggere la strategia energetica italiana di lungo periodo. Da ormai un decennio, Roma attende una cabina di regia congiuta USA-Italia (promessa da Obama a Renzi e da Trump a Conte) sulla crisi libica che non è mai arrivata. Cosa che dovrebbe far sorgere almeno qualche dubbio sul ruolo dell'Italia nell'Alleanza Atlantica. Siamo sicuri che vi siano vantaggi per l'Italia? Roma ha inviato (e perso) uomini nei principali teatri delle aggressioni statunitensi senza ottenere alcun reale beneficio in cambio (nessun accrescimento dello status internazionale, ad esempio). Non solo, appare abbastanza evidente che se il conflitto con la Russia dovesse assumere una dimensione continentale (o globale), il territorio italiano (che ospita parte dell'arsenale nucleare USA in Europa) diverrebbe automaticamente bersaglio di eventuali rappresaglie.
Torniamo al Medio Oriente, perché gli USA, in questo contesto non sono neanche riusciti ad ottenere un significativo disaccoppiamento tra Iran (il governo Raisi ha avuto il merito di non puntare l'intera politica estera sul negoziato nucleare, cosa fatta dal predecessore Rouhani) e Russia. Mosca e Teheran sono infatti riuscite ad inserire nel negoziato una clausola che esclude dai rapporti bilaterali tra le due il regime sanzionatorio imposto alla Russia. Se a questo si aggiunge il fatto che lo stesso Biden non è capace di garantire all'Iran che un nuovo eventuale accordo venga rispettato dalla prossima amministrazione, appare evidente che i successi diplomatici dell'attuale presidente si possono limitare al mantenimento dell'Europa in una condizione di cattività geopolitica: o meglio, nella distruzione dell'economia europea per rendere artificiosamente competitiva quella americana.

P. S. È altresì curioso notare come quel Regno Unito che solo qualche anno fa definiva l'UE una "gabbia per i popoli" voglia ora farvi entrare ad ogni costo l'Ucraina.