Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La diversità non è la nostra forza

La diversità non è la nostra forza

di Roberto Pecchioli - 17/07/2023

La diversità non è la nostra forza

Fonte: EreticaMente

Se c’è una lezione dell’ennesima rivolta delle periferie francesi – macchie extraterritoriali in mano ai più prepotenti di una popolazione in gran parte di origine non europea – è la sconfitta del multiculturalismo e del concetto di “diversità”. Il multiculturalismo è diventata la religione politica occidentale, l’orientamento che oblitera le culture originarie europee come fonti di trasmissione di valori e idee a favore di un’equivoca “diversità”. Un termine a cui è sottratto il significato: da capacità di accogliere e assorbire le naturali differenze a giustificazione “nobile” della frammentazione sociale, la divisione agonistica, gelosa, astiosa della comunità politica in mille minoranze reciprocamente ostili, ciascuna rinchiusa in un recinto di filo spinato, metaforico o reale.
Ciascuna rivendica spazio, privilegi ed eccezioni, rendendo difficilissima la convivenza. L’esito è l’impossibilità di individuare uno spazio comune, condizione che sfocia nell’anomia, la disintegrazione della norma sociale. Nelle comunità di origini differenti, portatrici di visioni, costumi, modi di vita spesso incompatibili, inutile illudersi: le persone non si fidano più degli estranei.
Presidente, ci invadono, comunicano al bizzarro capo del governo di Freedonia nel film La guerra lampo dei fratelli Marx. Lasciateli fare, risponde il presidente, Groucho Marx. “Prima o poi si stancheranno”. L’umorismo sulfureo della scena sta nell’assurdo di una guerra che si vuole evitare ignorandola, come si evita una sfida a duello rifiutando di raccogliere il guanto. Qualcosa di simile sta capitando all’Europa, in particolare in Francia. Presto la guerra sarà troppo evidente per continuare a negarla.
Il realismo politico insegna che non possiamo negare l’esistenza di un nemico se questi si comporta come tale. Non esiste pace disarmata, se non nella forma della capitolazione vigliacca. Era prevedibile la reazione alla morte di un diciassettenne di ascendenza algerina pluri recidivo da parte della popolazione stanziata in Francia di origine africana, ma di cittadinanza francese. Non è la prima e non sarà l’ultima rivolta, con il suo carico di violenze, vandalismo, saccheggi.
Prevedibile anche la vicinanza ai rivoltosi dell’estrema sinistra francese, riproposizione dello schema visto in America dopo l’uccisione del nero George Floyd da parte di un poliziotto bianco. In quell’occasione sorse il movimento Black Lives Matter e si diffuse l’assurda genuflessione pubblica in suo ricordo, un impressionante rito di sottomissione etnica prima che politica. Nel caso francese, colpisce la necessità di dispiegare cinquantamila poliziotti antisommossa, il triplo degli effettivi mobilitati per le proteste contro la riforma delle pensioni. Lo scontro, infatti, non è sociale ma razziale e di costumi: una parte rilevante dei cittadini francesi di origine extraeuropea odia il paese in cui è nato e vive in apartheid (in parte alimentato dalla Francia ufficiale), è ostile alle leggi e crea zone extraterritoriali sempre più estese e ingovernabili.
Nell’autunno scorso, un’immigrata algerina fu accusata di assassinio con violenza sessuale e tortura. Fu scoperto il cadavere di una bambina di dodici anni, francese di stirpe. Il crimine commosse il paese, ma non ci furono mobilitazioni o manifestazioni pubbliche, né alcuno attaccò fisicamente i connazionali dell’omicida. Siamo in guerra, ma una delle parti nega il conflitto. L’altra non si stancherà, come sperava Groucho Marx.
Viviamo di slogan orwelliani, invertiti nel significato, falsi nel buonismo rassicurante. “La diversità è la nostra forza” è assai diffuso in Francia e in tutto l’occidente. I risultati sono sotto gli occhi di chi non è accecato. La diversità non è la forza di una comunità: è vero il contrario.
Negli ultimi anni del Novecento il sociologo progressista americano Robert Putnam si impegnò in un lavoro sul campo per dimostrare la verità del mantra progressista sulla “diversità” positiva. Scelse come terreno di indagine Los Angeles, una Babele di gente di ogni razza e origine, accomunata dalla condivisione dello spazio territoriale e dalla cittadinanza statunitense. Con orrore, dopo trentamila “interviste”, Putnam scoprì una verità molto diversa da quella che aveva espresso nel saggio “Capitale sociale e individualismo”. Da studioso onesto, contro le sue precedenti convinzioni, concluse che la diversità etnica e razziale è devastante per le comunità e distruttiva dei valori che la reggono. Maggiore è la diversità, maggiore è la sfiducia, ammise.
Nelle società di origine mista, le persone non solo non si fidano degli estranei, ma diffidano anche del proprio gruppo. Si chiudono in se stesse, non partecipano ad attività comuni, non vanno a votare. “Le persone che vivono in ambienti etnicamente diversi sembrano vivere chinate, si trascinano come tartarughe”, scrisse. Tendono a “ritirarsi anche dagli amici intimi, ad aspettarsi il peggio dalla propria comunità e dai suoi capi, fare meno volontariato e beneficenza, lavorare meno frequentemente a progetti comuni, a non registrarsi per le elezioni; finiscono per rannicchiarsi miseramente davanti alla televisione.” Sono passati oltre vent’anni e la menzogna emolliente è diventata verità ufficiale: Il lavoro di Putnam accumula polvere senza essere più letto e studiato. Eppure le sue conclusioni restano ineccepibili.
Non erano neppure nuove: furono anticipate nel XIV secolo dal grande pensatore arabo Ibn Khaldun, forse il primo sociologo della storia. Viaggiatore instancabile, storico, uomo politico, aveva notato che l’ingrediente principale nelle società prospere e ben governate era l’“asabiyyah” la coesione sociale. Ritenne questa lealtà istintiva, comunitaria, spesso collegata al sangue, il legame fondamentale della società umana e la forza motrice della comunità.
Senza di essa, quando a dominare è una “diversità” agonistica, priva di riferimenti comuni, non esiste più comunità né società, ma gruppi dispersi di individui costretti a invocare il potere politico come arbitro, momentaneo paciere delle continue dispute. Un formidabile instrumentum regni. È il sistema che, senza bisogno di alcun complotto, si sta imponendo in Occidente, uno spazio che vive (ancora)in una bolla di prosperità, pace e apparente libertà che fa credere nell’universalità dei suoi valori. Siamo convinti di non essere una civiltà tra le altre, bensì l’umanità intera. Invece non siamo che una tribù in piena decrescita infelice, demografica, civile, etica. La nostra irruzione sulla scena del mondo non ha magicamente fatto sparire condotte, credenze, modi di vivere secolari e millenari, le idee che hanno mosso ogni popolo nel corso della storia. Il mondo è molto più grande di noi, la storia non si ferma. Ignorare il nemico, fingere che non sia tale, che tutto possa essere appianato con il “dialogo” multiculturale, non lo fa sparire. La debolezza che mostriamo – chiamata tolleranza, civiltà, neutralità assiologica e in mille altri modi per credere ai nostri sogni – ci rende più vulnerabili: il vuoto è sempre riempito da qualcuno. Chi si fa pecora – convinto che i lupi non esistano o siano buoni come quelli dei fumetti – è destinato a soccombere. In un senso contorto e sinistro, l’Occidente è malato di moralismo deformato e masochista.
Su ogni tema si chiede sempre chi abbia ragione per rispondere invariabilmente che è qualcun altro, poiché noi siamo i peggiori, i più cattivi: l’odio suicida di sé. La storia non si muove così; nella realtà, opposta al polpettone dolciastro politicamente corretto, se un popolo può impossessarsi della terra, della ricchezza e delle risorse di qualcun altro, lo farà. Lo sta già facendo. Prima o poi l’Occidente dovrà risvegliarsi o rassegnarsi a perire e non certo per dissolversi nell’irenica utopia progressista. Non è lontano il giorno in cui la domanda non sarà più qual è la tua opinione, ma qual è la tua gente, qual è il popolo a cui appartieni. Che cosa risponderemo? Nel caso francese, sorprende per ingenuità (o disperazione) un appello del governo ai genitori dei rivoltosi. Le autorità, solenni e “repubblicane”, si rivolgono impotenti alle famiglie, addirittura ai padri, i grandi assenti della modernità, ancor più nei ghetti degradati in cui imperano traffici illeciti, musica trap e modelli consumistici. Prima distruggono le famiglie – quelle degli immigrati nelle grandi aree metropolitane non fanno eccezione – poi si sorprendono dell’assenza dei genitori. Curiosi, da parte della laicissima “nation” gli appelli ai capi religiosi, a conferma che l’appartenenza, la comunità, contano assai più della cittadinanza e della screditata repubblica, oggetto di scherno, utilizzata al più per le provvidenze sociali. L’Islam conta, eccome, ma neanche il Corano è padrone delle banlieues, preda del degrado, della febbre del consumo e di chi ha il fegato di prendersi ciò che desidera, automobili, ragazze, droga, abiti firmati. Nichilismo occidentale in formato esportazione per masse sradicate lasciate a se stesse. Un’altra lezione: l’infezione occidentale – consumismo più materialismo più tabula rasa – non risparmia alcuno, prova ulteriore della sconfitta del mito multiculturale.
La Francia è la terra della rivoluzione, ma quale rivoluzione propongono i ragazzi delle periferie? Credono forse in un’alternativa di governo, in un sistema sociale, in un modello diverso dalla colonna sonora trap e dalla violenza fine a se stessa? Non sono popolo, massa e neppure folla, tutt’al più una muta, nell’accezione di Elias Canetti. Lanzichenecchi figli di un degrado di cui sono le prime vittime. Lo saprebbero se avessero gli strumenti culturali per discernere. Perfino i saccheggi, perpetrati nei centri commerciali dei brand e degli apparati elettronici, nelle farmacie delle magiche pasticche e delle siringhe (l’economia della tossicodipendenza) mostrano disagio sociale e deserto etico, non miseria. Non sono sufficienti le spiegazioni neomarxiste e banalmente sociologiche. Difficile interpretare una non-società spappolata e disidentificata, che sa soprattutto ciò che non è, che odia – con qualche buona ragione – il paese in cui vive. La Francia di ieri puntava sull’assimilazione, impossibile per l’imponenza del fenomeno migratorio e in quanto i francesi non credono più in se stessi, e perché, infine, l’olio non si unisce all’acqua. Il virus multiculturale vettore del globalismo tracima e impedisce di trasformare masse sradicate – che a loro volta sradicano – in “enfants de la patrie”. Non è la carta d’identità che fa diventare francesi, italiani o britannici. L’orgogliosa République è sconfitta innanzitutto in quanto soccombe la nazione francese. Se i suoi giovani cittadini la odiano, si manifesta qualcosa di profondo, anteriore a ogni rivolta. Il fatto è che i valori repubblicani – l’insipido patriottismo costituzionale – non esprimono nulla di comune, tranne le leggi. Nulla che riguardi il piano storico, culturale, spirituale, nulla che richiami alla coesione sociale – ovvero comunitaria – di Ibn Khaldun.
Il modello multiculturale fallisce in quanto consacra allo stesso tempo l’accoglienza e la sua immediata negazione, la separazione. Il globalismo di cui Macron è l’agente mandatario in Francia ha prodotto due realtà coincidenti: l’integrazione coatta dell’altro da sé insieme con il suo allontanamento fisico. Chiunque critichi il modello è accusato di razzismo dall’alleanza tra il denaro – l’ideologia liberal liberista – e la nuova sinistra “diversitaria”. Il risultato è che l’ostentato multiculturalismo diventa a-culturalismo, il vuoto interiore di massa unito al ritardo sociale, riempito dalla violenza, dal nichilismo, dalla smania di consumo: l’imitazione rozza, violenta, della Francia oltre le barriere dei quartieri che circondano anche i piccoli e medi centri.
Alla fine, chi viene e chi c’era già si assomigliano: solo i ricchi possono permettersi il lusso di non avere patria, scrisse Ramiro Ledesma. Un francese, il cattolico Charles Péguy, lo disse con altre parole: la patria è ciò che resta a coloro cui è stato tolto tutto. Non è strano che i magrebini di Francia se la portino dentro perfino se l’hanno mai vista e che gli altri – noi – impoveriti materialmente e spiritualmente, ci aggrappiamo ad essa come a un amuleto che offre sicurezza, identità, potenza simbolica. Due eserciti sconfitti, uguali e contrari.