La vera separazione è tra italiani e magistrati
di Marcello Veneziani - 23/11/2025

Fonte: Marcello Veneziani
Un grande interrogativo, o forse uno sciame di interrogativi si addensano all’orizzonte del futuro referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati. Come sempre accade, il quesito referendario è solo l’occasione e la facciata, se non il pretesto, per esprimere un giudizio sulla magistratura e sui suoi poteri; sui rapporti tra politica e magistratura, e su governo e opposizione nettamente spaccati tra il si e il no. Ancora una volta, il meta-referendum schiaccia e oscura il referendum vero. Un’altra incognita importante sarà misurare il grado di partecipazione al voto referendario, se gli italiani lo riterranno decisivo, importante, facoltativo o poco rilevante e poco pertinente per il cittadino comune. Un referendum insidioso, un’arma a doppio taglio, e non solo per i magistrati ma per il governo e per l’opposizione, come è già accaduto in passato.
Ma resta sullo sfondo la domanda regina: cosa pensano gli italiani dei magistrati? Un’antica diffidenza, mista a timore, conviveva nel nostro Paese con una certa rispettosa deferenza nei confronti del magistrato e del suo potere. Dall’unità d’Italia in poi una parte cospicua d’Italia non si fidava dello Stato e dei suoi rappresentanti, lo considerava intruso, incline ai soprusi, comunque estraneo, calato dall’alto. Ma col passare del tempo, i pregiudizi si erano affievoliti e in certi casi rovesciati nel nome della legge e dell’ordine. La scarsa visibilità dei magistrati, la discrezione e la penombra circondava la loro figura di un alone quasi sacrale, perduto con il loro recente protagonismo. Per certi versi erano il tabernacolo dello Stato, e la toga stessa assumeva quasi il significato di un paramento rituale e liturgico, quasi di un sacerdozio laico. E ancora più prestigio assumevano se correlati alle forze dell’ordine, a partire dai carabinieri, garanzia di sicurezza e di legalità.
Poi venne negli anni settanta la guerra allo Stato e alle sue istituzioni e i magistrati cominciarono a essere colpiti e discreditati come servi collusi del potere, dei padroni e della giustizia di classe. Dall’altro verso cominciava l’infiltrazione nei ranghi della magistratura di un ceto di militanti ideologici che si assumevano il compito di “democratizzarla” e sottrarla sia alla presunta neutralità che alla subordinazione ai potentati. Una fetta rilevante della magistratura restava organica al potere politico, mentre cresceva dal basso un’altra magistratura ideologizzata, quella dei pretori d’assalto e delle toghe rosse.
L’anno decisivo per la magistratura fu il 1992 perché intrecciò due storie che resero la magistratura centrale nella vita etica, pubblica e civile del nostro Paese: da una parte l’inchiesta di Mani pulite e dall’altra la lotta alla mafia con l’assassinio di vittime illustri come Falcone e Borsellino. Fu allora che la magistratura ebbe il massimo di popolarità, la gente invocava Di Pietro e il pool mani pulite per spazzare la corruzione politica e guidare l’Italia; il magistrato venne visto come l’eroe contro la criminalità comune e il malaffare politico. Col tempo però, soprattutto la lunga guerra tra i magistrati e Berlusconi minò la loro credibilità, radicalizzò le posizioni pro e contro la magistratura. Poi troppi casi di errori, abusi e malagiustizia gettarono discredito sui magistrati. Oggi è difficile dire se sia più malvisto il ceto politico o il ceto togato. Il referendum sarà anche un test di questo tipo.
Oggi si può dire che la stragrande maggioranza della gente ha superato sia il giustizialismo forcaiolo che l’iper-garantismo ed ha nausea di queste baruffe permanenti sulla giustizia. Peraltro, l’emergenza giustizia non riguarda solo le carriere dei magistrati o i rapporti col potere politico. L’Italia è il paese europeo figlio della più alta tradizione giuridica e padre delle più infami situazioni giudiziarie. La politicizzazione della magistratura è un problema reale ma riguarda una minoranza organizzata, e comunque non è il problema principale della giustizia: l’Italia è il paese che ha il maggior numero di leggi (inapplicate), il peggior tempo per concludere i processi, il più alto tasso d’impunità dei reati commessi e di sentenze capovolte nei gradi successivi. Quattro condizioni che rendono patologica la giustizia in Italia.
Il conflitto tra poteri – esecutivo, legislativo e giudiziario – entro una certa soglia, è garanzia di libertà e di diritto perché indica che non c’è un potere egemone sugli altri; c’è una bilancia di equilibri, un’autonomia di sfere e una dialettica tra poteri, anche aspra. Ma quel conflitto ha varcato il livello fisiologico, è patologico e non si può vivere una guerra civile e penale permanente. Senza considerare le invasioni di campo delle corti internazionali oltre le frequenti incursioni delle alte corti nostrane (dalla Corte Costituzionale alla Cassazione alla Corte dei Conti).
C’è poi un altro fattore insidioso: da tempo nei processi conta troppo il clima. Le sentenze e i percorsi sono troppo influenzati dal momento, dai reati che fanno più tendenza, più notizia e più impressione mediatica. Ci sono cicli colpevolisti e cicli innocentisti che si abbattono periodicamente su molti tipi di reati e si allargano e si restringono a seconda dei momenti e del grado di mobilitazione intorno ad essi. Fa paura una giustizia emotiva, psicolabile e variabile come le condizioni del tempo. Vedremo che clima farà al tempo del referendum. Però, com’è fragile e cagionevole la giustizia in Italia.

