Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La verità è la moderna Terra Incognita?

La verità è la moderna Terra Incognita?

di Francesco Lamendola - 15/03/2019

La verità è la moderna Terra Incognita?

Fonte: Accademia nuova Italia

L’uomo ha sempre avvertito il fascino dell’ignoto; e l’ignoto collocato nello spazio ha sempre sollecitato la sua curiosità, evocando l’immagine di vaste regioni e meravigliosi paesaggi esotici che attendono di essere scoperti e di rivelare i loro tesori. Dall’Odissea alle Mille e una notte, dai romanzi di Chrétien de Troyes al Milione di Marco Polo, i paesi sconosciuti non cessano di tentare la fantasia, posti come sono al confine, non solo in senso geografico, fra possibilità reale e pura immaginazione. L’Atlantide esiste davvero, oppure esistette?, si chiedevano i nostri antenati; e il paese del prete Gianni, era realtà o fantasia? Così, l’idea della Terra Incognita rappresentava una sfida costante, e quegli spazi vuoti sulle carte geografiche, come quello a sud del Sahara, del quale i romani dicevano semplicemente Hic sunt leones, spronavano gli animi più avventurosi a mettersi in cammino, o più spesso in navigazione, per verificare quanto di vero e di reale esistesse nelle leggende popolari e nei racconti dei marinai su quei paesi favolosi. Ma il mito più seducente e più persistente, dopo che Bartolomeo Diaz ebbe doppiato l’estremità meridionale dell’Africa e Cristoforo Colombo ebbe raggiunto il Nuovo Continente, era quello relativo alla vastissima e fertile terra che si sarebbe trovata più a Sud: e ciò, sin dall’inizio, a dispetto dell’evidenza e del buon senso, visto che il mare posto a sud del Capo di Buona Speranza, così come quello che doveva trovarsi a sud dello Stretto di Magellano, scoperto dall’omonimo navigatore portoghese, non poteva che lambire una terra la quale doveva essere, se pure esisteva, fredda e inospitale. Per secoli, nondimeno, ma specialmente fra il XV e il XVIII, gli scienziati europei, e soprattutto i geografi, furono ossessionati dalla questione della cosiddetta Terra Australis Incognita, il grande continente che avrebbe dovuto trovarsi nell’emisfero meridionale, a fare da contrappeso meccanico – secondo le idee degli antichi geografi greci e romani – alle masse continentale presenti dell’emisfero nord. Dopo che i geografi l‘ebbero ipotizzata, i navigatori ne andarono alla ricerca, sollecitati dai governi e finanziati dai banchieri e dai mercanti; solcarono i mari australi in lungo e in largo, ma non la trovarono. Pure, per molto tempo, non si scoraggiarono: mano a mano che le sue estremità – l’isola di Pasqua, la Terra del Fuoco, l’isola Bouvet, e infine la stessa Australia e la Nuova Zelanda - rivelarono la loro natura insulare, non si persero d’animo e rivolsero la prua ancora più a mezzodì; finché si resero conto, giunti fra le nebbie e i ghiacci galleggianti, che quella fantomatica terra, se pure esisteva, non valeva la spesa di seguitare a cercarla, perché doveva trattarsi di un luogo spaventoso e del tutto inabitabile.

Collegato al mito della Terra Incognita è quello delle Colonne d’Ercole, il limite del mondo conosciuto, che svolge la doppia e contraddittoria funzione di monito, affinché gli uomini non si spingano oltre, rispettando il limite del loro statuto ontologico di creature finite, e al tempo stesso di sollecitazione affinché essi, spinti dal loro desiderio di conoscenza, osino farlo. Questa ambivalenza è evidente nella vicenda dell’Ulisse dantesco, nel XXVI canto dell’Inferno: le colonne poste dall’eroe greco all’estremità del mondo conosciuto sono indicate con l’espressione dov’Ercule segnò li suoi riguardi, / acciò che l’uom più oltre non si metta; eppure Ulisse sente che la vita umana non può consumarsi ristretta nel limite di ciò che è già conosciuto, ma deve spingersi oltre; e dice ai suoi compagni: Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a vivere come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza. Sappiamo come finisce il folle volo di Ulisse e dei suoi compagni, e sappiamo anche la causa della catastrofe finale: ad esser punito non è il desiderio di conoscenza in se stesso, ma l’atteggiamento con cui viene attuato, che è quasi di sfida verso Dio; un atteggiamento caratterizzato dalla curiositas, ma non accompagnato dalla necessaria virtus. E non è certo un caso che Francesco Bacone, uno dei padri fondatori della modernità, affermi (nei Pensieri e conclusioni sulla interpretazione della natura), che le colonne che impediscono di passare oltre sono più che mai fisse e non v’è quindi affatto da meravigliarsi che non si raggiunga ciò che gli uomini non hanno la volontà  né la speranza di conseguire.

Di qui alla similitudine fra le Colonne d’Ercole e la Terra Incognita da una parte, e la ricerca della verità dall’altra, il passo è breve. La metafora non è nostra, ma di un filosofo ebreo tedesco che studiò in Germania negli anni del nazismo e della Seconda guerra mondiale e che dopo il 1945 rimase in Germania, ad insegnare filosofia, per tutto il resto della sua vita, in diverse università tedesche (circostanze degne di nota, e che si prestano a qualche considerazione): Hans Blumenberg, nato a Lubecca nel 1920 e morto ad Altenberge, nel land della Renania Settentrionale-Vestfalia, nel 1996. Egli sostiene, in opere come Paradigmi per una metaforologia e La leggibilità del mondo: il libro come metafora della natura, che le grandi scoperte geografiche del XV secolo rivelarono agli europei quanto piccola fosse la parte del mondo da essi abitata e come vi fosse, al di là delle Colonne d’Ercole, un mondo assai più vasto di quello da essi conosciuto, ciò che diede loro il presentimento che delle parti decisive della verità non erano state ancora scoperte. Blumenberg ha ragione di cogliere in questo atteggiamento degli europei del XVI secolo, bene illustrato dal knowledge is power di Francesco Bacone, un aspetto centrale della modernità, ossia il sentimento di trepidante inquietudine che scaturisce dall’aspettativa di essere all’inizio di un mondo in procinto di realizzare un accrescimento incommensurabile delle sue conoscenze – è l’ideologia del progresso illimitato; ma ha torto, a nostro avviso, quando ipotizza che, cinque secoli fa, gli europei ebbero la coscienza, o l’intuizione, che parti decisive della verità dovevano ancora essere portate in luce. Per dire meglio: questa idea del Blumenberg è un’idea tipicamente moderna, nata e coltivata entro il paradigma della modernità, e quindi non si presta a spiegare la genesi del pensiero moderno in maniera oggettiva, ma solo soggettiva. Del resto, è tipico del pensiero moderno credersi il vero pensiero, e non concepire nemmeno che esistano altre forme di pensiero, altrettanto logiche e razionali, altrettanto valide e coerenti, ma fondate su presupposti diversi, sia di tipo dogmatico (ogni paradigma, come ogni sapere, ha necessariamente i suoi dogmi), sia su una differente ermeneutica. E diciamo che Blumenberg è in errore perché la sua idea della verità è essenzialmente di tipo quantitativo, il che si evince dall’affermazione che gli europei del 1500 presentirono come le parti decisive della verità fossero ancora da scoprire: perché la verità, parlando in un senso rigorosamente filosofico, non ha parti, esattamente come il punto geometrico: è indivisibile e irriducibile, non può essere frazionata, né semplificata, né manipolata in qualsiasi altra maniera: essa è, per definizione, il tutto, e se non viene considerata come tale, cioè come il tutto, come l’intero, allora non è più nemmeno se stessa, non è più la verità, perché una parte della verità non è una quasi verità, ma una falsificazione della verità. Per la stessa ragione, non esistono parti decisive della verità: se così fosse, essa dovrebbe contenere anche delle parti secondarie; ma questo è contrario al puro concetto della verità: la quale è totalmente, radicalmente decisiva come un intero, perché nulla vi è fuori di essa, se non l’errore, cioè la non conoscenza della verità, o - peggio - la menzogna, cioè la sua contraffazione intenzionale. Ciò detto, proviamo a vedere se la metafora dell’idea moderna di verità come un andare oltre le Colonne d’Ercole, ossia oltre limite conosciuto, possa rivelarsi utile per comprendere meglio cosa sia la verità in senso moderno, e cosa sia, invece, nel senso classico della metafisica (e, ovviamente, della teologia).

Per la cultura moderna, la verità è un processo, e più precisamente è un processo continuo e tendenzialmente illimitato: non si finisce mai di conoscere la verità; però, almeno, una cosa è certa: che i moderni ne sanno qualcosa in più, o ne vedono una porzione maggiore, dei pre-moderni, appunto perché la verità è accrescimento, e chi viene dopo può giovarsi di una massa maggiore di conoscenze. Questo, ripetiamo, è un concetto sostanzialmente quantitativo della verità: ed è un concetto erroneo, perché la verità non è un processo, ma un atto: adaequatio rei et intellectus, corrispondenza fra la cosa e il giudizio che viene dato di essa. Inoltre, se fosse un processo, la verità sarebbe tale solo in un determinato contesto temporale: vi sarebbe quindi una verità per gli antichi, una per i medievali, una per i moderni, eccetera. Ma la verità, in se stessa, non è soggetta ad essere storicizzata: la verità è assoluta e quindi permanente, o non è. Una verità che sia “vera” solo in un determinato contesto, non sarebbe più la verità. Lo storicismo è una forma di relativismo ed è incompatibile con la metafisica. L’attacco alla metafisica è un elemento fondamentale della modernità: la modernità vorrebbe storicizzare tutto, proprio perché detesta l’idea di una verità assoluta. E la detesta per la semplice ragione che essa nasce da una rivola contro l’Essere, che è la verità, in nome dell’autonomia dell’uomo, che non è un assoluto, ma un relativo: un relativo con la nostalgia dell’assoluto. Bisognava e bisogna, dunque, adoperarsi affinché gli uomini sopprimano in se stessi, scordino e rimuovano la nostalgia dell’assoluto: solo allora saranno degli uomini pienamente moderni, cioè totalmente immanenti e autocentrati. Tutta la costruzione della modernità è caratterizzata da quest’opera di attacco, demolizione e rimozione della tensione umana verso l’assoluto, cioè verso l’Essere, in nome di una non meglio specificata “libertà”. Se Dio esiste, spiega, invero assai rozzamente, ma efficacemente, Bakunin, l’uomo non è libero, ma servo; però l’uomo vuole essere libero, quindi Dio non esiste. Ecco dunque perché la modernità detesta la metafisica, al punto che un altro dei suoi padri fondatori, David Hume, raccomanda di gettare nel fuoco tutti i libri di metafisica (nella sua Ricerca sull’intelletto umano):

 Quando scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi principi, che cosa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità e sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatti e di esistenza? No. E allora, gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie e inganni.

La metafora moderna della verità come “nuova” Terra Incognita ci sembra sbagliata, dunque, per diversi motivi. Primo, perché suggerisce un’idea quantitativa, estensibile o ritraibile, della verità: mentre quello che aumenta o che diminuisce non è la verità, ma l’apertura del nostro sguardo verso di essa. Tuttavia, si potrebbe obiettare, è la stessa cosa: si dice che la verità si accresce per intendere l’accrescimento del nostro sapere. Nossignori: sono due cose del tutto diverse. Forse che un albero cresce di altezza per il fatto che qualcuno lo guarda? O una montagna? Il problema è sempre lo stesso: l’antropocentrismo, che parte dall’umanesimo e arriva fino a oggi, distorcendo la nostra percezione del reale. Kant, il grande macellaio, ha tagliato via la metafisica, come fosse un arto infetto, fra il plauso dei lillipuziani che odiano le montagne, perché li fanno sentire quel che in realtà sono: piccoli. E da allora non siamo più usciti dal circolo vizioso del soggettivismo: non è vero quel che è vero, è vero quel che è vero per me; fino al solipsismo: il reale sono io. Una volta caduta la diga, la strada era aperta per ogni delirio e fumisteria, a cominciare da Hegel, il grande coribante, il quale direttamente o indirettamente (col marxismo, ma anche con l’idealismo crociano) ha condizionato tutto il pensiero del XIX e del XX secolo. Secondo motivo per cui quella metafora è sbagliata: suggerisce l’idea che la verità si possa conquistare, così come un esploratore conquista un nuovo orizzonte geografico. Niente affatto: la verità ci è data, più precisamente ci viene donata, se noi siamo abbastanza umili per esserne degni. La verità resiste ai superbi e agli orgogliosi, e soprattutto resta inaccessibile agli egoisti e ai prepotenti, a quelli che sanno dire solo io: ma si offre allo sguardo limpido dei miti e dei generosi. Terzo, suggerisce l’idea che noi siamo una cosa e la verità sia un’altra cosa, un oggetto da possedere. Ma la verità non è un oggetto, così come non è un processo, bensì un atto: e se è un atto, allora vuol dire che noi siamo in funzione di lei, perché noi siamo enti transitori, mentre la verità è l’assoluto. La verità è l’Essere ed è garantita dall’essere: se non vi fosse l’essere, non vi sarebbe la verità, così come non vi sarebbe nulla. Noi siamo, perché l’essere è; e siamo nella verità perché l’essere ce la svela (è il concetto greco dell’aletheia, nonché quello cristiano della epifania) e non perché noi ce la diamo. Noi non possiamo darci nulla. L’ente dà sempre e solo l’ente; solamente l’essere dà l’essere. Noi non siamo l’essere, tuttavia vi partecipiamo, perché in noi vi è sia la nostalgia, sia il presentimento del nostro destino eterno. È un delitto sopprimere quella nostalgia e ignorare quel presentimento: un delitto contro noi stessi. Pure, ogni volta che c’immergiamo nell’orizzonte del finito come se non ve ne fosse un altro, noi perpetriamo quel delitto. Grazie alla modernità siamo divenuti i peggiori nemici di noi stessi. Fino a quando resteremo in quest’arida terra d’esilio, e quando torneremo a desiderare il nostro vero bene?