Marxiani sì. Marxisti, no
di Alessio Mannino - 05/05/2025
Fonte: La Fionda
Il 5 maggio 1818 nasceva a Treviri quel pensatore geniale, profondo, infaticabile, febbrile, utopista suo malgrado, politicamente autoritario e filosoficamente imprescindibile che fu Karl Marx. Sulla sua biografia e opera esistono sterminate biblioteche, e non è il caso di azzardare qualche fantomatica nuova interpretazione (di cui, per altro, non siam degni). Ma l’anniversario ci offre il destro per mettere, almeno secondo chi scrive, un punto e a capo sulla sua attualità: il marxismo resta vivo e fecondo come metodo analitico, mentre è decaduto e inservibile come disegno palingenetico. E’ un’idea, questa, da sempre eretica nel campo marxista (il primo a teorizzarla formalmente fu il tedesco Karl Korsch cent’anni fa, una sorta di anti-Lukacs, finito nel dimenticatoio proprio perché appestato e reprobo). Ma la tesi rimane esattamente quella. Tanto più oggi, dopo i fallimenti pratici del comunismo applicato, quando possiamo, e anzi, a parere di chi scrive, dobbiamo dirci marxiani ma non marxisti.
Marx, com’è arcinoto, è un allievo ribelle di Hegel. Il filosofo prussiano, nello scritto del 1802 La Costituzione della Germania, dà una definizione dello spirito borghese come “costante preoccupazione” per la proprietà. Il borghese è, anzitutto, un individuo caratterizzato dall’ansia. Qualche anno dopo, nel suo opus magnum Fenomenologia dello Spirito, formula la celebre concezione del lavoro come dovere di emancipazione, “disciplina del servizio e dell’obbedienza” senza la quale la paura della morte, che è propria dell’essere umano, “resta interiore” inquinando la coscienza, che perciò “non diviene coscienza a sé stessa”. Per Hegel, come pure qua sanno anche i sassi, a costituire la storia dell’umanità è il processo dialettico di progressiva autocoscienza dello Spirito. Marx, nel suo proposito di “rimettere sui suoi piedi” la dialettica hegeliana, sostituì allo Spirito la materia (materialismo storico), mantenendo però l’aspirazione al progresso, al miglioramento, all’umanizzazione, secondo lui ostacolati dalle strutture sociali oppressive, a quel tempo dominate dalla borghesia. Vale a dire dal borghese doverista verso la sua roba anziché, come il proletario, verso l’emancipazione dell’intera umanità, che un giorno sarebbe stata addirittura affrancata dal lavoro in quanto tale, grazie al comunismo (“da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”).
Come faceva notare Simone Weil nelle fulminanti Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, in realtà Marx attribuiva al sogno rivoluzionario il compito della liberazione “non degli uomini ma delle forze produttive”. L’attenzione marxiana si spostò via via dall’uomo concreto alla produzione: non a caso il concetto di alienazione (la perdita di umanità dell’uomo schiavo della macchina capitalistica), così centrale e significativo per i posteri, cioè per noi, non viene sviluppato dal Marx maturo, che lascia invece incompiuta quella magniloquente cattedrale teorica che è Il Capitale.
L’immagine della società comunista è lasciata sul vago, identificata sostanzialmente con l’estinzione dello Stato. A sostituire quest’ultimo avrebbe dovuto essere un’organizzazione sociale modellata sul regime iper-razionale della grande industria, sintetizzata così da Friedrich Engels: “dal governo degli uomini all’amministrazione delle cose”. Un’immensa distesa di comunità tendenzialmente pacificate in quanto rette da princìpi, diremmo oggi, di razionalizzazione delle risorse, volta al massimo sviluppo della produttività. Diciamolo: un incubo, più che un sogno. Osservava sempre la Weil, infatti, che il macroscopico limite di Marx consiste nel fatto che il suo anticapitalismo “si accordava profondamente con la corrente generale del capitalismo”. Ossia la meccanizzazione, la concentrazione, la managerializzazione, tutto quell’impianto di schiavizzazione che si sarebbe visto all’opera con il fordismo-taylorismo americano. In una parola: il produttivismo, che ai giorni nostri è traducibile nel dogma della crescita economica infinita. Un’esigenza puramente macchinale, un automatismo di sistema, un articolo di fede che di razionale, di ansiogeno, di disciplinare e alienante ha tutto. Ma di ragionevole e di umano, proprio niente.
La parte cadùca del barbuto di Treviri non sta tanto, quindi, nell’errata previsione della tendenziale caduta del saggio di profitto, ma nell’escatologica visione da fine dei tempi di un futuribile regno di Saturno, libero dalla fatica del lavoro e dalle asprezze del conflitto. Ecco perché il marxismo, inteso come pensiero sistematico, non ha più molto da dirci, dopo il Novecento: non perché il capitalismo abbia battuto in efficacia ed efficienza le esperienze di comunismo realizzato, ma prima ancora per la disumanizzazione che portava nel Dna, e in cui immancabilmente finisce per rovesciarsi ogni tentativo di perseguire un ideale astratto e riduttivamente razionalistico. È un fatto accertato: il perseguimento cieco della felicità collettiva conduce alla cieca persecuzione e all’infelicità cronica degli individui, presi nelle loro interazioni, relazioni e rapporti sociali. Nella loro vita, insomma. Occhio, dunque, a chi tuttora vagheggia rivoluzionarismi dal sapore messianico, trafficando troppo in trascendenze e atti di fede. La rivoluzione è possibile, ma per volgere secondo giustizia la conflittualità a favore degli alienati. Non per sopprimerla, cosa umanamente impossibile e indesiderabile. Qui, il Machiavelli repubblicano e per l’appunto conflittualista, può fungere da ottimo antidoto (non per nulla Machiavelli, questo caposaldo che va molto al di là del machiavellismo di maniera, è un autore totalmente ignorato, da Marx).
In cosa Marx rimane non soltanto utile, ma indispensabile? Nella diagnosi della malattia capitalistica (termine, beninteso, che lui non avrebbe usato, lo usiamo noi per indicare tutta la deformità e insalubrità di cui è vittima la condizione psicofisica, oltre che politica, dell’animale-uomo: l’alienazione, appunto, a parere di chi scrive assimilabile per molti versi all’inevitabile flagello del nichilismo, diagnosticato invece da Nietzsche). Nella messa allo scoperto della natura del denaro, che provoca un’inumana mancanza di empatia soffocando alla radice il naturale bisogno di comunità (“indifferenza”, la chiama Marx). Nella profezia del capitolo III del Capitale, questa sì puntualmente avveratasi, sull’“aristocrazia finanziaria” che avrebbe esteso il suo dominio al mondo intero. E infine, sebbene sembri banale sottolinearlo, nella lucida subordinazione di ogni giudizio al rigoroso esame delle forze in campo nel momento storico dato, così da collegare le sovrastrutture ideologiche alle sottostanti strutture di potere (senza per questo scadere in un’infantile economicismo – erroraccio in cui, diversamente da certi suoi epigoni, Marx non cadde mai). Marx, quindi, è ancora vivo. Il marxismo, molto meno. Del resto, nonostante la gestione dispotica e ferocemente polemica che contraddistinse il Marx politico attivo nel movimento operaio, fu lui stesso a dire, stando a una testimonianza di Engels, che “quel che è certo, è che io non sono marxista”. Dopo due secoli, a maggior ragione possiamo permetterci di non esserlo noi.