Musk biliardario della povertà
di Massimo Fini - 05/10/2025
Fonte: Massimo Fini
La povertà di chi è più ricco (Friedrich Nietzsche)
Elon Musk guadagna circa 555 milioni di dollari l’anno, Donald Trump, che è il più ricco presidente Usa, 400 mila dollari. Sono ricchezze totalmente prive di senso. Musk dovrebbe vivere cento vite per esaurirle.
“Per quanto comprino dipinti, statue, vasellame cesellato, per quanto abbattano edifici appena costruiti per ricostruirne altri, insomma per quanto dilapidino e maltrattino il denaro pubblico in tutti i modi pure non riescono a esaurire la loro ricchezza con i loro infiniti capricci. Per noi la miseria in casa, i debiti fuori, triste l’oggi, spaventoso il domani. Che abbiamo, insomma, se non l’infelicità del vivere?” discorso di Lucio Sergio Catilina ai congiurati.
Ma le macroscopiche ricchezze di Musk e Trump non sono che il segno di una sperequazione più generale che esiste oggi negli Stati Uniti. Se voi andate in California trovate, ai confini di quello Stato, migliaia di homeless che innalzano un ironico cartello: “Benvenuti nello stato più ricco del mondo”. Negli Usa, facendo una scala del reddito, il primo decile si accaparra il 48,5 percento mentre l’ultimo quinto ha solo il 3,2 percento. E se si sale ancora verso il vertice della piramide si vede che l’un percento delle famiglie ha il 6,8 percento del reddito nazionale, cioè più del doppio di quello che hanno tutte insieme il 20 percento delle famiglie americane più povere. Il rapporto è di 40 a uno. Eppure gli Stati Uniti non sono solo lo stato più ricco del mondo, ma godono delle rendite di posizione dovute alla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale.
Una cosa è vivere in un luogo dove tutti (o quantomeno la maggioranza) sono poveri, altra dove brilla una ricchezza insolente. Questo genera l’invidia che oltre a non essere un sentimento particolarmente nobile (Dante sotterra gli invidiosi nell’ottava bolgia dell’Inferno) è motivo di sofferenza. Peraltro, l’invidia è la molla dell’attuale modello di sviluppo. Anche Ludwig von Mises, uno dei più radicali ma anche dei più coerenti sostenitori di questo modello, scrive pressappoco: “L’operaio invidia il capofabbrica, il capofabbrica il dirigente, il dirigente il presidente della società, costui l’imprenditore che guadagna un milione di dollari” e così via.
Parlando in termini generali l’invidia era pressoché inesistente nei “secoli bui del Medioevo”. Come si sa, quella era una società divisa in caste: i nobili, il clero, il Terzo stato (in realtà anche il clero era composto di nobili, i cadetti delle grandi famiglie, scordiamoci la favola del buon fraticello). Non è colpa mia se non sono nato re, non è colpa mia se non sono nato nobile.
Ma nemmeno i contadini se la cavavano così male, a parte la fatica del loro lavoro (“la terra è bassa” dicono). Anche Adam Smith si meraviglia dei bassi canoni che il contadino doveva pagare al feudatario: un pollo, una gallina, una quaglia una volta l’anno. Certo c’erano le corvée personali che han tanto indignato gli illuministi ma si trattava di ben poco, di servire il feudatario quando dava delle feste (lo ius primae noctis, a quanto pare, non fu mai esercitato). Inoltre il feudatario, che viveva fianco a fianco con la massa dei suoi contadini, non poteva fare troppo lo stronzo perché avrebbe rischiato una rivolta. Tutte le rivolte vandeane sono in buona sostanza rivolte di contadini e nobili decaduti contro la borghesia.
Uno dei segni della povertà di un popolo è l’autosufficienza alimentare (qui a Milano si fanno code infinite alla Caritas che distribuisce cibo) ora l’Africa Nera è stata autosufficiente alimentarmente fino a pochi decenni fa e lo era ancora, sostanzialmente, nel 1961, ma l’autosufficienza è scesa all’89 percento nel 1971 e al 78 percento nel 1978. Oggi è alla fame, la brutale fame. E non basteranno i cannoni di Salvini per fermare questa gente.
Il colonialismo classico è pur sempre meglio di quello economico. I colonialisti si accontentavano, diciamo così, di rapinare a queste popolazioni materie prime di loro interesse di cui peraltro gli indigeni non sapevano che farsi. Cercavano soprattutto l’oro, che era la moneta internazionale dell’epoca, ma gli indigeni si mettevano a ridere perché, quando non si affidavano al baratto, scambiavano in conchiglie cauri. La progressiva eliminazione del baratto ebbe però le sue conseguenze. Canta un poeta africano ai primi dell’Ottocento: “Com’era bello il tempo in cui se tu avevi il sale e io pepe, tu mi davi un pizzico di sale ed io un pizzico di pepe”.
Non venivano alterate la socialità, le tradizioni, i costumi di quei popoli che, a parte avere sulla testa quegli stronzi, continuavano a vivere, e a volte prosperare, come avevano sempre vissuto, di baratto sostanzialmente. Per la verità un primo vulnus a questo sistema si deve proprio ai colonialisti classici che imposero una tassa su ogni capanna, costringendo così gli autoctoni a entrare nel sistema del denaro (si è detto di passata: oggi si cerca di bloccare in ogni modo le immigrazioni, cioè gli uomini non avrebbero diritto di spostarsi, il capitale sì trasferendosi nei luoghi dove è meglio remunerato).
La Rivoluzione francese segnò l’ingresso trionfale dello spirito del capitalismo nell’età medievale europea. Come dicevo, tutte le rivolte vandeane sono rivolte di contadini e di nobili decaduti contro la borghesia, perché il borghese introduce nel sistema il profitto, la proiezione nel futuro (i nobili spendevano e scialacquavano tutto ciò che entrava nelle loro casse, non pretendevano di più, un onesto pareggio insomma). I borghesi invece vogliono il profitto. Lo spiega bene una lettera che un proprietario indirizza al suo fittavolo: “Ti ho affittato i miei beni nel gennaio del 1789, quando su di essi gravavano diversi diritti signorili. Se non ti avessi obbligato a osservarli il mio affitto sarebbe stato maggiore. Quello che deve approfittare dell’abolizione dei diritti feudali sono io, il proprietario, non tu, l’affittuario”.
Quella che si sconta oggi è una progressiva erosione del ceto medio, lo si vede bene anche qui a Milano dove, per la gravosità degli affitti e del costo delle case, il ceto medio è stato sbattuto in “non luoghi” dell’hinterland, paesi che del paese hanno solo il nome, spesso non hanno una piazza e nemmeno, in un Paese cattolico come il nostro, una chiesa.
Marx sosteneva che col tempo i ricchi sarebbero diventati sempre più ricchi, ma sempre meno numerosi, per cui per cacciarli non ci sarebbe stata bisogno di alcuna rivoluzione, sarebbe bastata una pedata nel culo. Così non è stato. È vero che i ricchi sono diventati sempre più ricchi e anche un po’ più numerosi, ma è altrettanto vero che i poveri sono diventati sempre più poveri e molto più numerosi, com’è esperienza nell’Italia di oggi.
Quello che viene eroso progressivamente è il ceto medio che faceva da collante fra i ceti ricchi e quelli più poveri e questo, prima o poi, porterà a un pericoloso scontro frontale.