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Non essere più colonia: una questione di educazione

di Franco Maloberti - 03/02/2024

Non essere più colonia: una questione di educazione

Fonte: Come Don Chisciotte

Cambiare il paradigma scientifico educazionale. Per contrastare il dominio dell'inglese e per rendere effettivo il calcolatore.

Introduzione

Da tempo l’attività scientifica e tecnica, e in particolare quella elettronica, si basa su due caratteristiche chiave, l’uso della lingua inglese e l’impiego del calcolatore sia per calcolo e simulazioni, che per rappresentare l’informazione. Le comunità tecnico scientifiche riconoscono quelle prassi come fondamento e condizione necessaria per la validazione e la descrizione delle scoperte. L’uso dell’inglese e del calcolatore sono una consuetudine consolidata, diventata ormai un paradigma. Lo studio deve conformarsi a quel paradigma e ciò vale, in particolare, per gli studente che vogliono diventare membri di quella comunità scientifica con la quale più tardi dovranno collaborare. Come insegna Thomas S. Kuhn, i ricercatori e scienziati apprendono i fondamenti della loro disciplina secondo uguali modelli concreti, e la loro attività successiva sarà in accordo con quelle regole fondamentali di tradizione di ricerca. Ci sono punti fermi, descritti in libri e manuali scientifici scritti in inglese che descrivono teorie riconosciute come valide e che illustrano molte o tutte le applicazioni coronate da successo e confrontano queste applicazioni con osservazioni ed esperimenti.

Esistono però limiti fondamentali all’approccio, principalmente dovuti all’uso della lingua inglese. È pur vero che comunicare in inglese è importante, perché collega tra loro realtà distanti, territorialmente e culturalmente. Nelle occasioni di incontro di ricercatori e tecnici provenienti da più parti del mondo, si possono condividere e formulare nuove idee, raffinare soluzioni e migliorare, globalmente, le capacità produttive. La collaborazione in ambito scientifico e tecnologico ha anche effetti benefici sull’innovazione specie se fatta da gruppi eterogenei, dato che le diverse “culture” compensano o annullano vicendevoli i pregiudizi cognitivi.

Il problema comunque è l’inglese. Questo è un grande vantaggio per i madre-lingua ma è un notevole svantaggio per gli altri. L’attività scientifica e tecnica non prescinde dalla propria cultura, identità e, in particolare, la lingua, il cui ruolo influenza da sempre ogni aspetto della vita. Dover usare l’inglese da un lato obbliga a “tradurre” i messaggi ma, ancor più, distorce le sensazioni che vengono scambiate con gli interlocutori madre-lingua. In aggiunta, si corre il rischio di iniziare a pensare in inglese, perdendo in questo modo aspetti culturali specifici della propria identità, senza diventare abili nelle attitudini anglosassoni. Questo secondo aspetto è rilevante, dato che le capacità matematiche e scientifiche degli anglosassoni sono limitate i quali, invece, hanno predisposizione ad aspetti organizzativi. Ne consegue una distinzione gerarchica tra chi produce innovazione e chi viene padroneggiato da chi è esperto in gestione. Questo è, in effetti, quello che succede frequentemente nelle Università americane: il professore non genera idee: queste sono frutto della creatività degli studenti stranieri, ma si occupa del procacciamento di fondi e di questioni di politica universitaria.

Differenze culturali e apprendimento

La cultura è, in senso antropologici ed etnologico, quel patrimonio sociale di una popolazione che viene tramandato di generazione in generazione. Esso comprende il modo di vita, le ideologie, le norme, i valori che si sono sviluppati e che influenzano l’attività entro la società. La loro trasmissione tra le generazioni dipende dall’efficacia dell’apprendimento. Lo studioso Geert Hofstede nel 1991 ha individuato quattro categorie per misurare la tendenza all’apprendimento linguistico. Possiamo usare alcuni degli stessi parametri per misurare la predisposizione all’apprendimento tecnico-scientifico.

I parametri di Hofstede sono: distanza emotiva tra docente e studente, l’individualismo in opposizione al collettivismo, il genere e il rifiuto dell’incertezza. Questi quattro fattori sono influenzati dall’uso di una lingua non madre. La distanza emotiva tra “docente e studente” viene distorta. Nelle culture dove si da molta importanza alle relazioni gerarchiche, e si ha rispetto non solo alla “fonte di sapere” ma anche alla figura che lo trasmette. Si genera un improprio ossequio per che usa solo e in modo fluente la lingua straniera. Laddove c’è un grande rispetto, l’insegnate non solo è considerato fonte di sapere ma anche è un modello di comportamento. Ne consegue che, anche se in modo indiretto, attraverso la lingua straniera vengono impartiti modi di pensare e qualità morali e comportamentali non conformi alla propria cultura e tradizione. Per quanto riguarda il secondo parametro, l’uso di una lingua straniera limita le attività collettive; di conseguenza, spinge verso l’individualismo. Nelle società collettivistiche, dove l’apprendimento è favorito dalla collaborazione e da gruppi di studio, come ad esempio in Cina, la spinta verso l’individualismo porta a una minore efficacia dell’apprendimento. Il livello di incertezza è aumentato dall’uso di una lingua straniera. Si rende più difficile la memorizzazione, non solo quella superficiale ma anche quella che implica la comprensione di quanto appreso.

Colonialismo Linguistico

Pur se non è così evidente, il processo di colonizzazione, che è la tendenza di certe nazioni ad espandersi e dominare altre realtà per il controllo e supremazia economica, non è solo ottenuto con mezzi militari, ma anche con altri strumenti; in particolare, l’esportazione della cultura, dell’organizzazione, dell’architettura delle città, dei modelli educazionali e della lingua. Il risultato lo si può ottenere in modo impositivo, ma molto meglio in forma nascosta. La tecnica è molto antica: venne inizialmente usata dai romani per la sottomissione della Britannia. I conquistatori favorirono la romanizzazione della provincia edificando città conformi allo stile romano, e, come riferisce Tacito, “ammaestrando i figli dei capi nelle arti liberali … in modo che lo sdegno verso la lingua di Roma si trasformasse in ossequio per la sua eloquenza. … Anche il modo di vestire dei romani divenne apprezzato … “. Il progetto era, in definitiva, quello di esportare e imporre la propria cultura e lingua come superiore, in modo che le persone la accettassero in modo positivo e non come lo sradicamento dei propri use e tradizioni.

L’importanza della esportazione della lingua inglese fu ben argomentata da Winston Churchill che in un discorso che fece nel 1943 agli studenti di Harward, disse:

“Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente.”

Si deve allora supporre che l’uso dell’inglese, pur per comunicazioni tecnico-scientifiche, abbia alcuni inconvenienti. E questi sono molto più del costo, non trascurabile, che si deve sostenere per imparare la lingua, per pagare l’ausilio necessario a produrre manoscritti in inglese fluente e, sempre più, per scrivere proposte per finanziare la propria attività tecnico-scientifica.

Uno studio fatto su 900 ricercatori ha mostrato che quelli non madre-lingua impiegano un doppio del tempo per leggere, scrivere o revisionare pubblicazioni in inglese. La probabilità di vedere rifiutato un articolo per motivi linguistici è 2,5 volte maggiore dei madre-lingua. Le difficoltà incontrate sono spesso legate a motivi stilistici o sintattici piuttosto che al contenuto scientifico delle pubblicazioni. Ne risulta che a parità di capacità tecnico-scientifica gli studiosi non madre-lingua hanno anche ridotte opportunità di impiego in istituzioni internazionali.

Tra gli altri inconvenienti c’è anche l’estromissione della lingua nazionale da ambienti “di prestigio” come università, centri di ricerca e laboratori scientifici. Come conseguenza c’è la riduzione a un secondo livello dell’importanza della lingua nazionale, che diventa pertanto la lingua parlata da fasce sociali “basse”.

L’uso del calcolatore

È innegabile che il calcolatore è ormai indispensabile per ogni attività e, specialmente, nel trasferimento della conoscenza scientifica e tecnica, ovvero per l’educazione a tutti i gradi di formazione. Non serve illustrarne i notevoli vantaggi, è invece opportuno discuterne gli inconvenienti. In particolare, è utile analizzare i limiti che riguardano sia la comunicazione scientifica che l’efficienza educazionale.

Gli studiosi fino a pochi decenni fa usavano carta, penna e la stampa tipografica. La carta e la penna servivano per fermare le idee e sintetizzare i ragionamenti. Sono ben note le pratiche di scienziati che tramettevano i loro pensieri scarabocchiando su tovagliolini di carta o ricevute del ristorante. La carta o solo la penna erano anche importanti per gli studenti che prendevano appunti alle lezioni o sottolineavano e scrivevano note a margine nei libri.

Per la comunicazione scientifica, la stampa tipografica ha fatto da padrona per centinaia di anni. C’erano (e ci sono tuttora) libri di testo, riviste scientifiche, manuali, tutti ben classificati in biblioteche. Il sistema non era ottimale, dato che che l’accesso all’informazione era spazialmente limitato ed era economicamente problematico. Ma chi voleva e aveva risorse, superava gli inconvenienti e, eventualmente, aveva una propria biblioteca personale di piccole o anche grandissime dimensioni. Ci sono molti vantaggi nell’uso della carta stampata. I libri sono di facile uso, richiedono attenzione e concentrazione, emanano sensazioni che vanno oltre al messaggio letto, come l’odore della carta, il tatto e il fruscio delle pagine. I libri consentono pause, la loro lettura è cadenzata dal lettore, rendendo facile la rilettura di particolari già letti. Infine, un aspetto di fondamentale importanza, è la durabilità nel tempo. Pur essendo “fragili” i libri resistono all’usura del tempo per centinaia di anni. Io, ad esempio, ho, tra gli altri, riposti su uno scaffale, un libretto intitolato Teatro Antico Italiano (tomo secondo) stampato a Londra nel 1786, una copia del primo volume della Divina Commedia del 1852 (Tipografia di Pietro Fraticelli) e Gli amori pastorali di Dafne e Cloe, tradotto da Annibal Caro e stampato nel 1800. In biblioteche molto più serie si trovano pubblicazioni ben più remote. Non è forse chiaro a cosa servano queste anticaglie, dato che, se utili, si possono scansionare e metterle in rete. Poi, si possono anche bruciare. Il loro significato, comunque, è che la forma tipografica dell’informazione dura tantissimo e, molto più importante “lascia un segno”. E questo, a mio avviso è la cosa più rilevante.

Con l’avvento del calcolatore e con la credenza che la carta danneggi l’ambiente, il modo di comunicare è completamente cambiato. Le scritte e le figure nascono e muoiono in pochi minuti sopra di un monitor o un display, senza dare la possibilità di annotazioni o sottolineature. Le lezioni e le presentazioni sono fatte con schermate che si susseguono velocemente senza avere (tipicamente) il tempo di una reale comprensione. Nel campo scientifico il tradizionale scambio di informazioni tra studiosi che era attraverso pubblicazioni cartacee, la ricerca nei cataloghi delle biblioteche, la discussione nei convegni e seminari, è diventato tutto informatico. I documenti sono quasi esclusivamente digitali, disponibili ovunque e trasferiti direttamente nella casa o nell’ufficio dell’utente. Si dice che, oltre che ridurre i tempi di comunicazione, si ha una diminuzione dei costi. Gli autori possono trasmettere direttamente il contenuto di un articolo, lo aggiornano e interagiscono per il suo miglioramento usando strumenti informatici. Bel vantaggio, la velocità esecutiva! O, … forse, no.

La circolazione delle idee è resa semplice e immediata, ma il problema è la qualità delle idee. Purtroppo, le società moderne misurano l’innovazione a peso, indipendentemente dalla qualità. Nelle università si avanza in carriera se si pubblica tanto e con certi buoni parametri che, ahimè, hanno una minima relazione con la qualità, quella che dura nel tempo. Il risultato è che di documentazione scientifica ce n’è in abbondanza, e districarsi diventa quasi impossibile.

Un aspetto essenziale riguarda il diritto d’autore (o copyright). Questo, se si vuole pubblicare, viene ceduto alla rivista o all’editore. Una volta, tale cessione mirava alla diffusione reale della conoscenza attraverso la stampa tipografica. Chi acquistava il libro o la rivista aveva la reale disponibilità del prodotto nella forma di scritto su carta. Oggi, invece, il prodotto è disponibile in modo virtuale. Solo se si scarica il testo si ha una reale disponibilità, pur informatica. Frequentemente, i testi sono letti sul monitor e, al massimo, vengono spediti su quella frazione di nuvola che si ha a disposizione. Il risultato è che la cessione del diritto d’autore non è per una effettiva distribuzione della informazione ma per creare, in pratica, un monopolio egemonico di chi prende il possesso dei dati. Una rilettura di un testo, che è gratuita nel caso di carta stampata, invece, dipende dalle regole dell’egemone che verifica se l’abbonamento è ancora valido, può stabilire nuove regole d’uso, decidere di cancellare l’informazione o negarne l’accesso.

La durabilità è un altro fattore critico. I metodi di conservazione dei dati evolvono nel tempo. Negli anni ’50 c’erano i nastri magnetici, Poi vennero gli hard-disk. Negli anni ’70 si usavano i floppy disk, seguiti poi dai CD-ROM, dai DVD e più recentemente dalle chiavette USB e le memorie flash. Infine, (per il momento) ci sono i servizi di cloud storage. Memorie remote dove l’utente “salva” i propri dati accedendo con una connessione web. A questo punto è lecito chiedersi quanto si sia salvato dei dati che erano, ad esempio, sui floppy disk di tempo fa. Io, personalmente, ricordo di averne buttati in gran quantità, senza avere la possibilità pratica di cernita e di trasferimento su supporti più moderni. Il risultato è che la durabilità dei dati è poco più di una generazione delle unità di “conservazione” dei dati stessi. Al massimo vent’anni.

Una conseguenza “a latere” è che l’uso del computer non “lascia segni”. Una civiltà è caratterizzata da “segni” che i posteri ammirano con stupore. Ci sono siti archeologici e grandi realizzazioni che vengono visitate da migliaia di persone. I musei raccolgono oggetti e manufatti prodotti dagli antenati. Nelle università ci sono raccolte di strumenti scientifici e manoscritti di scienziati famosi. L’era attuale, al contrario, non lascia nulla! Non ci sarà nulla di cui ricordarci! C’è solo del software e quel poco di hardware che c’è diventa obsoleto e gettato via poco dopo. E questo, da un punto di vista sociale, non è un gran risultato: saremo considerati una generazione invisibile.

Cambiare il paradigma scientifico educazionale

La conclusione di questa lunga analisi della modernità è che esistono, in aggiunta ai vantaggi, delle negatività significative. Cosa fare, specie per l’educazione tecnico-scientifica, è un argomento di urgente analisi. Solo un dibattito e attente proposte possono trovare la via da seguire.

 

Franco MalobertiProfessore Emerito presso il Dipartimento di Ingegneria Elettrica, Informatica e Biomedica dell’Università di Pavia; è Professore Onorario all’Università di Macao, Cina, dove è stato insignito della Laurea Honoris Causa 2023.