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Non si navighi a vista, ora si fa la storia

di Alessandro Sansoni - 05/04/2020

Non si navighi a vista, ora si fa la storia

Fonte: Cultura Identità

Siamo ormai giunti a quello che si suole definire un crinale della Storia.

Dopo l’emergenza Coronavirus nulla sarà più come prima: non soltanto a causa dei morti, dell’angoscia per la nostra salute, ma anche per i contraccolpi subiti dalle nostre istituzioni democratiche, dal nostro modo di vivere e soprattutto dall’intero sistema economico.

Ne usciremo in un modo o nell’altro, come tante volte è accaduto nella storia del nostro paese (abbiamo provato a raccontarlo in queste pagine), ma molte cose cambieranno e non solo per noi.

In questi giorni è stato citato più volte un volume pubblicato nell’ottobre del 2017 negli Stati Uniti d’America e uscito in italiano per i tipi Einaudi: Il destino di Roma di Kyle Herper.

Impressionante coincidenza, questo libro racconta come il crollo dell’Impero Romano non fu dovuto soltanto alle invasioni barbariche, alla crisi economica, al lacerarsi del tessuto istituzionale, ma anche e soprattutto ai cambiamenti climatici (avvenivano già, anche prima dell’industrializzazione) e alle epidemie, che falcidiarono lo spazio mediterraneo ed europeo dal II secolo in poi.

Particolarmente interessante per noi è il racconto che lo storico sviluppa in relazione all’esplodere della “peste antonina” (in realtà una pandemia di vaiolo). Furono soprattutto le infrastrutture commerciali e lo sviluppo logistico favorito dalla pax Romana a favorire il diffondersi della malattia, anch’essa probabilmente originatasi in Asia Centrale, dove correvano le piste dell’antica Via della Seta. Durante il principato di Marco Aurelio, nonostante la gravità della situazione, l’Impero seppe resistere, ma i focolai epidemici sopravvissero, riesplodendo verso la metà del secolo successivo, al tempo dell’imperatore Filippo l’Arabo, aggravati da seri mutamenti climatici che portarono a un significativo raffreddamento del clima nel bacino mediterraneo. Contestualmente, la pressione migratoria (e militare) delle popolazioni barbare e il collasso di un’economia basata sull’agricoltura e sul commercio, condussero all’anarchia militare del III secolo, allorché sembrò davvero che per l’Impero Romano fosse giunta la fine.

Roma, però, ed è questo l’auspicio che rivolgiamo a noi stessi, seppe reagire in modo sorprendente. Grazie allo sforzo sovrumano messo in campo da una serie di imperatori originari dell’Illiria – la regione danubiana ricca di colonie romane di estrazione militare poste a difesa del Limes – l’impero seppe rifondarsi e rigenerarsi, mutando tuttavia forma e ideologia, riuscendo a sopravvivere, dopo la riforma dioclezianea, ancora un secolo e mezzo in Occidente e fino al 1453 in Oriente.

Shock finanziari, migrazioni di massa, mutazioni climatiche, sfiducia nelle istituzioni, crisi valoriale e ora il Coronavirus. Ce n’è abbastanza per affermare che il parallelismo storico non è azzardato. Come ne usciremo?

Le questioni in ballo sono tante. Una volta superata l’emergenza sanitaria, bisognerà affrontare il disastro economico, che già incombe. Tema cruciale, che ripone al centro l’esigenza dell’intervento della mano pubblica nell’economia, mette in discussione i dogmi delle virtù del mercato e del neoliberismo, soprattutto chiama l’Unione Europea a prendere decisioni non più derogabili ed epocali: cambiare la propria impalcatura istituzionale, rendersi Europa politica e sovrana, oppure schiantarsi inesorabilmente contro il ritorno dei particolarismi nazionali, del si salvi chi può.

Ma non è tutto: davvero la telematica, lo smart working, sono il futuro delle nostre relazioni sociali e professionali? Il governo ha immediatamente pigiato l’acceleratore in questo senso, ma i dubbi sono infiniti, in termini di sicurezza cibernetica, di controllo dei nostri dati personali, e di quelli pubblici, per non parlare della qualità del nostro tempo e della nostra vita lavorativa. Sicuri che invece la soluzione non sia proprio quella opposta, ovvero rallentare, tornare alla cura del nostro spazio reale, della nostra comunità?

Infine, ad essere messa in discussione è soprattutto la globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi trent’anni. Le interconnessioni globali sono sempre esistite, ma la pervasività angosciante prodotta dalla libera circolazione di uomini, merci, servizi, capitali – con annesse standardizzazioni di idee e pensieri, delocalizzazioni produttive che poi ci rendono vulnerabili sul piano strategico, condanna nei confronti di chiunque voglia pretendere un minimo di buon senso nel regolare l’apertura e la chiusura delle nostre porte di casa (i nostri confini) verso coloro che intendono installarsi sul nostro territorio, rapacità della finanza globale – non è più sostenibile. Tutto questo potrebbe, ecco, portare a riconsiderare la nostra collocazione nel mondo, organizzandolo magari in una logica multipolare, fatta di ampie aree continentali semi-autarchiche ed omogenee dal punto di vista economico, sociale, politico, culturale.

Non è più l’ora del piccolo cabotaggio. Bisogna volare alto, darsi una visione e progettare il futuro.