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Non usciamo dal fatalismo della decadenza

di Marcello Veneziani - 14/06/2025

Non usciamo dal fatalismo della decadenza

Fonte: Marcello Veneziani

Da cent’anni a questa parte, l’Italia, l’Europa e forse l’Occidente sono perseguitati da una parola che viviamo come un destino: decadenza. Le prime avvisaglie furono dopo la prima guerra mondiale, col declino degli imperi centrali e poi lo smantellamento graduale dell’impero britannico. Sul piano economico la decadenza si fece crisi, come la Grande crisi economica degli anni venti. E sul piano culturale la letteratura della crisi esplose cent’anni fa, sulla scia del Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler. Poi venne la seconda guerra mondiale e da lì nacque una società in decadenza, salvo alcune parentesi di benessere economico e sociale, come quelle legate al boom tra la fine degli anni cinquanta e gli anni sessanta. La decadenza riprese il sopravvento dagli anni settanta in poi, e negli ultimi cinquant’anni è stato un continuo sottofondo epocale. La decadenza produce scoramento, scarsa vitalità, depressione. L’Italia è in decadenza da svariati decenni, gli italiani sono in fuga dal proprio paese anche quando restano a casa. E’ una forma di emigrazione mentale, che è perfino peggio dell’emigrazione reale, perché li situa fuori dal proprio paese, con la testa rivolta in un imprecisato altrove. E’ inutile negarlo o attribuirlo solo ad un sordo gioco mediatico e ideologico che vuol gettare fango su questa precisa Italia, sotto questa guida politica. La propaganda c’è, l’uso fazioso del malessere pure, figuriamoci; ma il disagio c’è, si tocca con mano. Se fingiamo che non esista, poi non capiamo il resto. Dobbiamo avere la cruda franchezza di ammettere che il paese è in decadenza, è spompato, è scoraggiato. Nella realtà del nostro presente cogliamo la decadenza in una serie di fattori empirici e oggettivi, prima che psicologici e filosofici, che rendono evidente il declino. Provo a elencare in estrema sintesi i segni visibili e invisibili della decadenza.
Per cominciare, le morti superano le nascite. Il paradigma biologico della morte che supera la nascita è già la rappresentazione oggettiva della decadenza. Poi, connesso al precedente, i vecchi superano i giovani. Ossia l’età media sale e la senilità avanza. Corollario psicologico alle due notazioni biologiche: si accorcia l’aspettativa di futuro, l’avvenire è percepito più come timore che come speranza. La frase chiave nel rapporto tra padri e figli si è capovolta: ieri la preoccupazione era che i figli vivessero una vita migliore, più agiata, di quella dei loro genitori, oggi l’angoscia è che i figli perdano gli agi e il tenore di vita dei loro genitori. Il declino biologico si applica anche alla sfera economica e alle difficoltà delle imprese, non solo per la globalizzazione, dall’industria al commercio, ai negozi. I debiti sormontano i crediti, le sofferenze bancarie crescono a danno dei patrimoni, calano i consumi. Ogni potere è rigettato e delegittimato. Si diradano le grandi opere in ogni senso e in ogni campo, nonostante il Pnrr.
Alla decadenza oggettiva va poi aggiunta la percezione della decadenza che ne amplifica l’effetto. Ai fattori reali di decadenza si unisce la psicosi della decadenza. Il mito del progresso ha collassato ormai da tempo, sono sparite le ideologie proiettate sul radioso avvenire. La percezione di vivere in un emisfero calante rispetto alle più giovani e vitali potenze asiatiche, alla crescente demografia del sud del mondo, ma anche alla disperata vitalità dei migranti, ci confermano che la decadenza è visibile, pensabile, reale e ne siamo immersi.
Il problema, semmai, è periodizzare la decadenza, cioè collocarla sul piano storico, o drammatizzarla come il decorso di un disfacimento finale. Qui ci soccorre la visione storica, il paragone col passato e il ciclico ricorrere dei periodi di decadenza. Di decadenza si parlò a proposito del mondo antico, poi dell’impero romano, quindi dell’autunno del Medio Evo; la decadenza ossessionò Machiavelli, riguardò imperi e singoli regni, dinastie e civiltà.
Da svariati anni si parla di decadenza italiana in senso lato, passando dalla demografia all’economia e alla politica, dall’etica alla cultura, dalla fede ai costumi, dalla gerontocrazia alla sclerosi del paese e alla stanchezza di vivere. Gli spazi vuoti della denatalità vengono riempiti da folle di migranti. Il paese non crede più in niente, ha perso fervore, non ha aspettative e vive un’infelice e rancorosa vecchiaia.
Ma questo vasto e ricorrente scenario della decadenza mostra altresì che non si può assolutizzare il concetto di decadenza, ritenerlo irreversibile e definitivo, al punto da confonderlo con la morte. Non si può opporre all’ingenuo schema ottimistico del progresso infinito, il tetro schema catastrofista e fatalista della decadenza infinita. Più saggio è ritenere che la storia abbia i suoi cicli, con le sue parabole fatte di ascesa e declino; la decadenza si situa al termine di un’epoca.
Certo, non è una riforma politica o costituzionale, e non è un Principe-Presidente, un leader decisore, un dantesco Veltro, che può arrestare la decadenza. Occorre una più vasta mutazione culturale, un cambiamento diffuso di mentalità, di valori, di assetti, di priorità e di paradigmi. Ma si tratta di un primo livello efficace di risposta e bisogna prima trovare grandi motivazioni ideali e reali. Per fronteggiare la decadenza occorre la lungimiranza dei princìpi e l’incisività dei prìncipi. Di fatto, però, la decadenza induce a considerare il processo più grande delle nostre volontà, scritto nei cieli o nella storia, inarrestabile; perciò ci rassegniamo e inventiamo singole strategie di sopravvivenza, antica risorsa e alibi degli italiani. Il dramma non è la decadenza in corso, ma la convinzione che sia impensabile uscirne. Dopo aver combattuto una guerra totale al Destino, sentendoci noi liberi protagonisti della storia, ci siamo consegnati a un sordido fatalismo che non ci permette nemmeno di sperare che le cose possano cambiare. Chiamatelo progresso…