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Onore e gloria al popolo ucraino martire

di Franco Cardini - 26/04/2022

Onore e gloria al popolo ucraino martire

Fonte: Franco Cardini

Hi qui amicti sunt stolis albis, qui sunt et unde venerunt? (Apocalisse, 7, 13). Oggi, prima domenica dopo Pasqua e festa del martire san Giorgio, anche se egli è stato espunto dal catalogo ufficiale dei santi perché pare che di storico avesse pochino: era molto più simile al semidio Perseo. Ma per noi, per il popolo cristiano, Giorgio uccisore di draghi, liberatore di principesse e martire nel nome del Cristo è molto più vero dei tanti documentatissimi che popolano gli Acta Sanctorum. Di qualcuno di loro, potremmo anche dare e meno: di lui, no. Mai.
Eppure i martiri coperti di candide stole dei quali parla il Veggente di Patmos sono tantissimi, e non appartengono solo al tempo di Gesù e dell’apostolo Giovanni. A due mesi esatti dall’inizio di quella che per molti è stata l’aggressione russa all’Ucraina ma che per un numero sempre crescente di cittadini è la guerra della NATO contro la Russia rea di non aver voluto subire il suo controllo nucleare ai suoi stessi confini, la schiera dei martiri si è spaventosamente allungata. Sono le migliaia d’innocenti vittime del conflitto: i bambini, le donne, gli anziani, gli ammalati. E anche i soldati caduti compiendo con onestà e semplicità il loro dovere, difendendo i loro concittadini o la loro terra, combattendo magari ma senza commettere crimini: dall’una come dall’altra parte.
Io non sono certo sospetto di russofobia: e difatti onoro i militari russi caduti e quelli che continuano a combattere. La guerra è comunque una cosa orribile, ma la si può combattere restando esseri umani consci di esser tali. Tuttavia, in questa come in tante altre guerre sono gli inermi innocenti a farci sentire più colpevoli, a suscitare più profondamente, insieme con la pena, il nostro senso di colpa.
Onore al popolo ucraino: è un popolo martire, che sta soffrendo per colpe non sue. Un popolo tradito e ingannato anzitutto dai suoi politici e soprattutto dal suo governo. Tradito e ingannato dal leader che senza dubbio molti di loro (davvero la maggioranza, al di là dei risultati elettorali?) si erano scelti: un miserabile guitto che per mesi ha organizzato la vessazione di una parte di quella che avrebbe comunque dovuto essere la sua gente, sicuro com’era di assicurazioni che gli provenivano dall’Occidente, anche da molto in alto; che ha tirato troppo la corda fino a provocare una reazione forse fatale da parte del Cremlino, anzi che forse ha tirato troppo la corda appunto perché così doveva fare, perché queste erano le condizioni degli appoggi che riceveva e perché convinto che riuscire a provocare quella reazione gli avrebbe fruttato ancora di più in termini certo politici e forse anche economici; che dinanzi alle reazioni degli occidentali a quanto egli aveva provocato altro non ha saputo che pretendere aiuti sempre più ingenti e accusare istericamente di vigliaccheria quegli stessi cui doveva la possibilità di resistere a forze che altrimenti lo avrebbero schiacciato; che oggi è attanagliato dalla paura ma al tempo stesso continua a confidare in un esito che premi la sua megalomania e che lo proietti domani nella grande politica europea; e per questo è il miglior alleato del suo amico di Washington che vuol proseguire e forse dilatare il conflitto, lo sconsiderato Joe Biden.
Ma gli ucraini, quelli che sono in buona fede con lui e quelli che lo avversano, e soprattutto quelli che subiscono le conseguenze della macchina infernale della quale egli è stato complice, loro no. Gli ucraini, di qualunque posizione politica, sono soltanto delle vittime: e si può solo sperare che, comunque vadano le cose, il loro paese trovi la strada giusta.
Da oltre un secolo il popolo ucraino lavora, soffre e combatte per affermare la sua identità nazionale: o quanto meno il suo diritto a veder riconoscere il suo paese, l’Ucraina, come una “patria”; e se stesso appunto come “popolo”.
La cosa non è così semplice come sembra. Che la parola “Ucraina” derivi da un’espressione russa che indica lo stare “sul margine”, “sul confine”, lo sanno ormai tutti: o meglio, dovrebbero saperlo, se i media italiani – ordinariamente mediocri – non avessero nella fattispecie del conflitto in corso superato se stessi in ignoranza, disonestà e capacità di diffondere menzogne (e non chiamiamole fake news, per piacere, come se si trattasse di qualche eccentrica piacevolezza alla moda: sono bugie immonde, che la spennellatura british non abbellisce affatto). E dovrebb’essere chiaro che, se da una parte è proprio nella Rus’ di Kiev che la grande nazione russa trova la sua radice profonda, dall’altra non c’è dubbio che la stessa marginalità delle genti che “ucraine” sono state nel tempo definite comporta una quantità di variabili e di dinamiche tali da non poter essere né sottovalutate né schematicamente inquadrate in una realtà univoca. Lo stesso idioma ucraino, nelle sue varianti, può forse essere definito un “dialetto” russo, ma è per molti versi più vicino al bielorusso o al polacco: e non manca chi lo definisce una vera e propria lingua. Sappiamo anche da altri casi e da altri modelli – si pensi al caso del sardo rispetto all’italiano – che la questione in ultima analisi è definibile solo in quanto e nella misura in cui la si considera anche sotto il profilo politico. È stato difatti detto e ripetuto che una nazione non è tale sotto il profilo “naturale”, per quanto “naturali” possano essere considerati molti aspetti che la connotano, bensì tale è (o diventa) nella misura nella quale nasce, si sviluppa e s’impone tra chi ne è parte una consapevolezza “culturale” identitaria. In altri termini: si è nazione quando, e nella misura in cui, si vuole esserlo o divenirlo. Israele ne è una prova chiara e profonda, proprio data l’originale estraneità etnica di base di molti popoli che hanno contribuito a costituirla: e dato che israeliticità non è affatto sinonimo di ebraicità, nonostante l’ebraismo ne costituisca il fondamentale sigillo storico-religioso. Gli Stati Uniti d’America, che si autopropongono come “nazione americana” e alla base dei quali v’è un altro tipo di pluralità-estraneità reciproca delle genti che li compongono, sono un altro esempio di nazione che tale è stata in quanto e nella misura in cui tale ha energicamente voluto essere. Gli abitanti prevalentemente (non esclusivamente) britannici delle colonie atlantiche soggette al Regno Unito stabilirono con un atto comunitario – la Costituzione – di riconoscersi come “nazione americana”: fu un gesto rivoluzionario, inizialmente illegale sul piano del diritto delle genti, che si conquistò con le armi il suo diritto alla legalità universalmente riconosciuta. E vi furono sulle prime cittadini onesti, illustri e coraggiosi che tale gesto rivoluzionario non vollero riconoscere che si mantennero, in quanto sudditi leali e fedeli di Sua Maestà Britannica, estranei alla nazione che si stava fondando.
L’esempio americano è, mutatis mutandis (con moltissimi mutanda da mutare), abbastanza calzante per comprendere il “caso” ucraino: che a sua volta in qualche misura dipende, storicamente e morfologicamente, proprio dagli esempi e dai modelli rivoluzionari americano e quindi francese, dai quali è scaturita l’idea contemporanea di “nazione” significativamente diversa e addirittura opposta – in due modi tra loro peraltro diversi – sia al trono, sia all’altare. E la nazione è stata il motore della storia europea fra tardo Settecento e praticamente intero Novecento, mentre grazie alla diffusione di una forte forma culturale è largamente penetrata, fra XIX e XXI secolo, anche negli altri continenti uscendo da quella cultura che con espressione sia pure per molti versi ambigua si usa definire “occidentale”.
Oggi, in un mondo che anche ufficialmente si riconosce per nazioni, e che ha espresso addirittura la peraltro imperfetta volontà di volersi reggere unitariamente come “concerto tra e delle nazioni”, vale a dire come “nazioni unite” – salvo poi accettare contraddittoriamente sul piano concettale e cinicamente su quello etico il concetto di “nazioni-guida” dotate ciascuna di “potere di veto” paralizzante la volontà generale dell’organizzazione istituzionale che le unisce, l’ONU –, è chiaro che una parte non trascurabile anzi forse maggioritaria (a parte la difficoltà di procedere a tale riguardo a un còmputo obiettivamente affidabile, dati i dubbi sulla legittimità e regolarità della varie competizioni elettorali fino ad oggi celebrate) del popolo ucraino intende definirsi ed essere accettata come “nazione” alla pari delle altre.
Non possiamo dire se e fino a che punto questa volontà, che presenta ancora molte debolezze sul piano dell’autocoscienza sociostorica mentre è tuttora discutibile su quello dell’autocoscienza sociolinguistica, sia a tutt’oggi nettamente riconoscibile. Quel che possiamo dire è cha il popolo ucraino, nella sua componente forse maggioritaria che aspira a riconoscersi e a farsi riconoscere come nazione e in quella forse minoritaria che si rifiuta si tagliare nettamente e definitivamente i suoi legami con il sia pur composito mondo russo e che continua a sentire la Santa Madre Russia come la sua Großvaterland, sta affrontando una prova fondamentale nella sua esistenza collettiva: una prova che forse coincide largamente, e molto più di quanto noi “occidentali” non riusciamo a comprendere, con un’autentica guerra civile. Non a caso, come i francesi sconfitti nella “Guerra dei Sette Anni” intesero intervenire nella Guerra d’Indipendenza americana mossi in parte dagli ideali della philosophie illuministica ma in parte anche da un desiderio di revanche antibritannico, e come alcune nazioni di native Americans dell’area oggi statunitense-canadese si mossero invece spinti da spirito di leale fedeltà a Sua Maestà Britannica dalla quale ritenevano di avere ricevuto riconoscimenti e privilegi, così noi oggi vediamo – su una scala internazionale ben più ampia – governi estranei a quelli russo e ucraino in questo momento in lotta intervenire massicciamente per imprimere a un conflitto locale fra popoli confinanti, affini e in parte compartecipi della medesima storia (e alla contesa tra i quali si aggiunge, implicita e magari addirittura occulta, un’autentica guerra civile), una soluzione ritenuta in qualche modo da ciascuno di essi auspicabile o comunque opportuna. E vediamo anche sezioni, o spezzoni, o schegge di società civili appartenenti a paesi europei o asiatici – con l’esplicito o l’implicito consenso o con l’esplicita o l’implicita proibizione da parte appunto dei governi di tali rispettivi paesi – scontrarsi sul territorio ucraino combattendo entro i suoi confini una sorta di guerra civile che essi considerano in atto o in potenza come anche la loro. Che, sia pure in dimensioni ridottissime e perfino ridicole (il che non ne annulla affatto né il significato né la tragicità) oggi si stiano confrontando in Ucraina – come avvenne durante la guerra civile spagnola del ’36-’39 – formazioni paramilitari di non-ucraini e di non-russi riconducibili a schieramenti neobolscevichi e neonazisti (lunatic fringes, le avrebbe definite il presidente Franklin D. Roosevelt), è uno degli indici del punto al quale è arrivata ormai la notte che stiamo attraversando.
Onore e lode e solidarietà profondi, dunque, all’eroico popolo ucraino. Può darsi che di qui ad alcuni decenni esso sarà riconosciuto a tutti gli effetti come nazione, mentre oggi si stenta ancora a farlo: e che gli ucraini saranno riconosciuti, come i polacchi – che hanno avuto a loro volta un duro Calvario da sopportare – una nazione a tutti gli effetti, vicina ed affine a quella russa ma con essa non identificabile. Quello al quale stiamo assistendo è forse il processo epico della nascita di una nuova nazione: da considerare con rispetto e con ammirazione, sia o non sia da condividersi.
Certo è però che degli aspetti più duri e tragici di questo processo noi non siamo né estranei, né innocenti. Quella che oggi gli ucraini vivono come una guerra per la loro identità o per la dignità di restare parte di una millenaria storia comune con un popolo amico e fratello, noi la viviamo come il risultato di un’aggressione a sua volta obbligata – da parte degli aggressori – in quanto legittima difesa di confini e di territori minacciati dalla prospettiva di un ricatto nucleare e di una possibile aggressione che avrebbe potuto in qualunque momento essere scatenata. Russi e statunitensi – questi ultimi come potenza-guida di un’organizzazione formalmente “difensiva”, la NATO, che tale non è mai del tutto stata e che tale non è comunque per nulla dopo il triennio 1989-1991 – stanno combattendo una guerra tra loro, che potrebb’essere preludio di una terza guerra mondiale o che è già il primo atto di essa. Noi italiani, in quanto membri – e membri fra i più docili e sottomessi – della NATO, siamo cobelligeranti in questa guerra e dunque complici dei massacri che vi avvengono, dei crimini che vi sono perpetrati. Gli ucraini, dal canto oro, combattono o subiscono una “guerra in conto terzi”, “per interposto popolo”. Il presidente Biden, che dopo sette decenni di guerre imperialistiche combattute dagli USA in tutto il mondo – e guerre ripetutamente perdute – sa bene di star già raschiano il barile della sua popolarità: sa già che le madri americane difficilmente tollererebbero ancora le salme dei loro figli riportate a casa avvolte nelle bandiere stars and stripes “legate strette” – cantava anni or sono Fabrizio de André – “perché sembrassero intere”. Per questo Biden è ben deciso a far di tutto per combattere questa guerra contro la Russia: e combatterla fino in fondo. Fino all’ultimo ucraino. Magari per passare poi se ciò non basta ad altre provocazioni: è già pronta la circonvenzione della Finlandia, poi magari sarà il momento della Svezia. Dovunque ci sia un confine con la Russia che sia possibile occupare, dovunque la mano armata della NATO possa minacciarla con una parvenza di legalità internazionale: sarà poi la propaganda a persuadere l’opinione pubblica internazionale che la colpa di tutto risiede nell’imperialismo revanscistico della Russia dominata da Mad Vlad, tiranno sanguinario, nuovo Hitler e nuovo Zar.
Sarebbe ora che l’Europa si svegliasse per impedire che tale criminoso disegno possa proseguire.