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Per un nuovo socialismo

di Gennaro Scala - 14/12/2020

Per un nuovo socialismo

Fonte: Italicum

Intervista a Gennaro Scala, autore del libro “Per un nuovo socialismo” a cura di Luigi Tedeschi

 

1) Le prospettive di un futuribile mondo globalizzato, dominato dall’unilateralismo americano sembrano essere tramontate. Sembra invece affermarsi la nuova geopolitica del mondo multipolare, che avrebbe come protagoniste le potenze continentali. Tuttavia l’Europa in tale contesto multipolare, appare sempre più isolata e marginalizzata, perché incapace di adeguarsi alle mutate condizioni storico – politiche del mondo multipolare. Il fallimento della globalizzazione coinvolge la UE, in quanto, come lei afferma nel suo libro “Non si può pensare di creare artificialmente ciò che la storia non ha creato”. Ma tale fallimento non era già implicito nello stesso codice genetico della UE, dato che l’Unione Europea è stata concepita come potenza locale atlantista funzionale alle strategie di espansione degli USA in Eurasia? Quello della UE, non si è dunque rivelato un progetto fallimentare in quanto essa non solo non è una creazione della storia, ma ha determinato anche la fuoriuscita dalla storia dell’Europa stessa?

Gli Stati o le aggregazioni multiculturali di Stati (quest’ultime nel passato le abbiamo conosciute solo nella forma degli Imperi) non nascono a tavolino ma dal conflitto reciproco, in varie forme, e corrispondente risoluzione tra i raggruppamenti umani. Nel passato con Napoleone si è verificata la massima spinta raggiunta dal sistema di stati europei verso la formazione di un’entità sopra-statale. In essa vi era sia il fattore egemonico, la presenza di strati sociali negli altri stati europei, in particolare la “borghesia”, che guardavano con simpatia a Napoleone, principalmente in Germania e in Italia (basti ricordare un Hegel che vedeva in Napoleone l’“anima del mondo a cavallo”), sia il fattore della forza, la potenza dell’esercito napoleonico. Purtroppo tale tendenza ha trovato solo il genio militare napoleonico, non affiancato da un eguale genio politico. Come scrivo nel libro, Napoleone (che disse di portare sempre con sé Il Principe) non imparò dall’accorta politica con cui i romani stabilirono il loro dominio sui popoli italiani descritta da Machiavelli nella Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Sulla tendenza alla formazione di un super-stato intrinseca alla conflittualità tra gli stati europei vorrei consigliare l’interessantissimo libro della accademica americana, originaria di Hong Kong, Victoria Tin-bor Hui, War and state formation in ancient China and early modern Europe. Tale tendenza non necessariamente avrebbe dovuto ricalcare il modello “imperiale”, dato il salto qualitativo a vari livelli, economico, scientifico, culturale, sul piano delle forme statuali. Non è questa la sede per affrontare tale questione nei dettagli, restiamo al fatto generale che con Napoleone è il massimo momento. Taluni hanno paragonato Hitler a Napoleone, ma se nel primo non era certo assente la potenza militare mancava invece del tutto la capacità egemonica, impossibile con il nazionalismo razziale. Inoltre Hitler non aveva come obiettivo stabilire un dominio europeo, fondato comunque solo sulla pura forza, quanto sostituirsi alla Gran Bretagna nel dominio mondiale, oppure affiancarsi ad essa come lascerebbe pensare il mancato affondo nei confronti della Gran Bretagna a Dunkerque. Al di là di questi complessi problemi storici, in merito ai quali sono state scritte intere biblioteche, possiamo indicare il movimento storico della conflittualità secolare all’interno del “sistema di Stati” europeo che cerca la sua soluzione nella creazione di un’entità sopra-statuale, non la trova con Napoleone e finisce per esplodere in due guerre mondiali che hanno posto fine alla civiltà europea con subordinazione degli stessi Stati europei agli Stati Uniti. Il risultato alla fine è stata la sconfitta di tutta l’Europa, compresi gli Stati formalmente vincitori. Se dopo la II guerra mondiale vi sono stati “70 anni di pace” è solo perché gli Stati europei si sono acquietati nella comune subordinazione agli Usa. Il dominio statunitense in Europa ha avuto un momento egemonico (nel senso che non era basato sulla pura forza). L’Italia, pur all’interno della “sovranità limitata”, ha potuto compiere il suo sviluppo economico. Per questo il dominio statunitense ha avuto anche un consenso nella maggioranza della popolazione che dura tuttora (oggi più che altro per inerzia e mancanza dell’idea stessa di un’alternativa).
Non sorprende quindi che l’Unione Europea sia nata come un progetto statunitense, promosso in modo più o meno segreto (vedi in merito il saggio del 1996 di Richard j. Aldrich, OSS, CIA e Unità Europea: il Comitato Americano per l’Europa Unita, 1948-60, tradotto sul sito del Fronte Sovranista Italiano). Della questione vi è stata discussione in Gran Bretagna, lanciata da partiti e intellettuali favorevoli alla brexit, ma di essa si è avuta solo una debolissima eco nella stampa italiana. Con il ritorno della potenza russa, e con l’ascesa della Cina, è sorto però il problema per gli Usa di una Germania naturalmente attratta ad Est, e che possa perseguire una politica troppo autonoma, per cui è stata lasciata libera di “espandersi” in Europa, e la prima vittima è stata la Grecia. Paragono l’Europa ad un recinto carcerario. All’interno di questo recinto il tuo nemico più pericoloso può non essere il guardiano (gli Usa), interessato principalmente alla tua permanenza nel recinto, ma l’altro carcerato più grosso e violento, interessato ai tuoi soldi e per questo disposto a farti la pelle. Di fatto le norme di Maastricht, il vincolo di bilancio, e la cessione della sovranità monetaria hanno devastato l’economia italiana e possono essere per questa esiziali. Per questo hanno le loro ragioni coloro che si sono concentrati sull’uscita dall’euro, ma non bisogna dimenticare questo quadro più generale. Anche se il dominio statunitense, sorto da uno sconvolgimento mondiale e probabilmente, finirà in seguito ad un nuovo sconvolgimento mondiale, non è questione di volontà espressa “democraticamente” seppure essa ci fosse. C’è anche chi ritiene, ottimisticamente, che gli Usa un giorno potrebbero “mollare” volontariamente l’Europa, troppo onerosa per le loro capacità imperiali attuali. Cosa che angoscia i dirigenti europei attuali e la popolazione che li segue, perché li getterebbe nel vuoto totale. Trump, non si sa quanto seriamente, aveva ventilato un’ipotesi del genere. Comunque, Biden ha già chiarito che vorrà rilanciare l’egemonia statunitense, quindi è probabile che “l’Europa” troverà “un nuovo ruolo” nel rilancio delle manovre contro la Russia.

2) Come da lei affermato, anche se la storia del movimento operaio si è conclusa, la questione sociale rimane attuale. Allo stesso modo, anche se i movimenti nazionali non hanno più la loro ragion d’essere, la problematica della sovranità nazionale oggi nel mondo globalizzato si ripropone. L’incapacità della sinistra di pervenire ad una sintesi tra questione sociale e sovranità nazionale è da annoverarsi tra le cause del proprio fallimento. In realtà, la causa principale del declino storico della sinistra marxista non risiede nell’aver fatto propri i fondamentali presupposti ideologici del modernismo liberale, quali il laicismo, il cosmopolitismo, il positivismo scientista, il progressismo? Gli orizzonti globalisti marxiani si sono rivelati utopistici, mentre il globalismo capitalista si è compiutamente realizzato. Ma i movimenti marxisti non sono risultati vincenti solo nelle guerre anticoloniali in cui hanno assunto un rilevante ruolo storico identificandosi con i movimenti di liberazione nazionale per l’indipendenza dei popoli oppressi?

Infatti, per quanto riguarda l’Italia, nei confronti dell’UE, si ripropone un’autentica questione nazionale, l’entrata nell’euro ha significato un costante impoverimento della popolazione, e la prospettiva, con l’accelerarsi della crisi dovuto al covid, è quella del ritorno della miseria vera e propria in ampi strati di popolazione. Urge ripristinare gli strumenti della sovranità monetaria dello Stato, strumento indispensabile, anche se non il solo, per attuare delle politiche economiche. La tara principale della teoria marxiana è il ruolo dello Stato e relativa “questione nazionale”. Lenin effettuò un cambio di paradigma portando al centro la lotta all’imperialismo e relativa “autodeterminazione delle nazioni”, ma la sua teoria si applicava soltanto alle nazioni soggette all’imperialismo. Autentiche questioni nazionali si ponevano e si pongono anche nei paesi imperialisti (ammesso che l’Italia attualmente si possa ancora considerare un paese imperialista, se non di riflesso per la partecipazione al club dei paesi occidentali). Un’autentica questione nazionale si poneva in Germania in seguito alle sanzioni imposte dal trattato di Versailles. Date le difficoltà teoriche, non è un caso che un dirigente di rilievo del movimento operaio tedesco, Heinrich Laufenberg, cercasse di assimilare al colonialismo il rapporto tra la Germania e le potenze vincitrici della I guerra mondiale. Come scrivo nel libro non aver riconosciuto tale questione nazionale giocò un ruolo non indifferente nell’affermazione del nazismo. Un’autentica questione nazionale si pone anche oggi per l’Italia, fra la sinistra marxista vi è qualcuno, come Domenico Moro, che ha inteso bene il problema, e invita a non ripetere gli errori del passato (senza però un’approfondita riflessioni sugli stessi).
Questione sociale e questione nazionale sono strettamente intrecciate. Il neo-liberismo diventato egemone in seguito al crollo del muro significa in Europa l’accrescimento delle diseguaglianze tanto tra le classi sociali che tra le nazioni. Si potrebbe arrivare in futuro ad un commissariamento dell’Italia simile a quello fatto con la Grecia. Successivamente sarà il momento della Francia che al momento si illude di poter convivere in una diarchia con la Germania. La crisi della civiltà europea dopo la fase distruttiva conclusasi con due guerre mondiali, inizia una fase auto-distruttiva, auto-fagica direi. Un’Europa germanica non ha nessuna possibilità di diventare una nuova potenza capace di relazionarsi alle grandi potenze odierne, gli Usa, la Russia, la Cina, l’India. Tutto si concluderà o nel caos o in una nuova tragedia. L’unica possibilità per gli italiani è ritrovare l’identità nazionale, insieme agli strumenti della sovranità nazionale, e sulla base di questa ricercare alleanze a partire dalle nazioni dell’Europa mediterranea. Non è facile concepire come gli italiani possono ritrovare l’identità collettiva dallo smarrimento odierno, ma l’alternativa è la disgregazione dello Stato italiano, senza che qualcos’altro lo sostituirà. O identità o morte.

3) Le guerre, quali conflittualità tra gli stati, hanno costituito nella storia un decisivo fattore di trasformazione sociale. Esse infatti hanno comportato la necessità di riorganizzazione interna degli stati. Dalle guerre sono dunque scaturite le rivoluzioni moderne, sia quella francese che quella russa, rivoluzioni che hanno generato la visione di un mondo nuovo, la modernizzazione della società, nuovi modelli sociali che comportassero il riscatto degli oppressi. Dal mito rivoluzionario nacque l’idea del “Soggetto della trasformazione” (il terzo Stato, la classe operaia), quale “Soggetto che plasma la storia”. Il marxismo divenne quindi una ideologia che si tramutò in una sorta di messianesimo laico, con relativa degenerazione nello storicismo e nel giustificazionismo storico. La concezione della rivoluzione quale necessità storica immanente si è rivelata fallimentare. Mi chiedo dunque, se per elaborare la teoria di un nuovo socialismo, non sia necessaria una rilettura del pensiero di Sorel la cui critica nei confronti del marxismo ortodosso si rivela illuminante riguardo alle cause della sconfitta epocale subita dall’ideologia marxista alla fine del ‘900. Non sarebbe quindi necessario richiamarsi alla prospettiva soreliana della “scissione” della classe proletaria dalla società capitalistica al fine di superare la dialettica classista borghesia / proletariato che ha condotto alla economicizzazione del conflitto, rendendo le istanze riformiste della classe operaia omogenee e funzionali allo sviluppo del capitalismo?

Confesso di non conoscere il pensiero di Sorel in merito. Ho visto che Alessandro Monchietto, allievo di Preve, da lei intervistato, ha scritto un libro su questo argomento. La cosa mi incuriosisce e appena possibile cercherò di colmare la lacuna. Siccome anch’io mi considero, a modo mio, un allievo di Preve, mi pare di intuire il complesso di problemi da cui sorge questa rilettura di Sorel. Preve aveva preso atto dell’“incapacità intermodale della classe operaia”. A differenza della borghesia non è stata capace di gestire il passaggio ad una società diversa. Anch’io ne prendo atto. La proposta centrale del mio libro è il passaggio dall’obiettivo della conquista del potere da parte della classe operaia all’esercizio di contro-potere da parte delle classi inferiori, compresa la classe media, all’interno di un’articolazione di poteri e contro-poteri. Tenendo conto anche che dai tempi di Marx e Lenin vi è stata una sostanziale trasformazione sociale per cui la classe operaia odierna non è più quella protagonista della prima rivoluzione industriale. Sebbene in crescita numericamente a livello mondiale, la classe operaia nei paesi “avanzati” declina, e la prospettiva è quella di un declino numerico qualitativo simile a quello della classe contadina. Soltanto in parte il mio può essere assimilato al concetto di contro-potere di alcuni gruppi extraparlamentari negli anni Settanta. Un contro-potere se è tale si esercita al di fuori dello Stato, al di fuori della dialettica parlamentare, e prevede il momento dell’“autonomia” (altra parola d’ordine dei suddetti gruppi extraparlamentari) e quindi la capacità di auto-organizzazione e di auto-difesa. Tuttavia un contro-potere, come dice la parola stessa, è un potere che si erge contro un altro potere rispetto al quale vuole fungere da correzione, ma rispetto al quale viene necessariamente dopo. Non vi può essere contro-potere se non vi è potere. Quindi in questo la mia concezione è sostanzialmente diversa da quella di derivazione anarchica, anzi direi opposta. Non so se vi siano delle affinità con la teoria di Sorel, ma anche la mia proposta intende non smarrire l’identità di classe. Di Sorel credo che ci sia da riprendere il concetto di non fondare in termini esclusivamente razionali il conflitto di classe. C’è conflitto di classe per vari motivi, ma c’è conflitto per l’esistenza stessa delle classi. Io sono convinto delle mie ragioni, perché sono le mie ragioni e le ragioni della mia classe. Ci credo perché credo in me stesso e nella mia classe sociale. Il conflitto tra gli esseri umani è dettato dalla Natura, è connaturato agli esseri umani, e cioè qualcosa che va oltre le ragioni immediate, visto che è universale e presente in tutti e tempi e tutte le latitudini, così come l’opposta necessità che gli esseri umani hanno di cooperare. Il conflitto è un fatto naturale, sta alla politica incanalarlo in forme non distruttive ma costruttive. Il socialismo non è un luogo o uno stadio da raggiungere, ma un processo (mi richiamo all’ultimo libro di Lukács sul “processo di democratizzazione”), sono quelle misure, leggi, istituzioni che le classi sociali inferiori ottengono solo attraverso il conflitto e che solo attraverso il conflitto possono conservare.

4) Anche la filosofia di Marx si colloca in un contesto storico – culturale caratterizzato dell’eurocentrismo. Il dominio globale europeo, iniziato nel XV° secolo, fu reso possibile dal balzo in avanti compiuto dalle potenze europee che fu reso possibile dal progresso tecnologico e dall’organizzazione sociale. Al tramonto dell’eurocentrismo fece seguito il globalismo, con relativo dominio mondiale dell’unilateralismo americano. Esiste comunque un rapporto di continuità storica tra l’eurocentrismo e il globalismo, rappresentato dalla perpetuazione del ruolo egemonico imperialista degli USA, quale successore diretto dell’imperialismo britannico. L’imperialismo eurocentrico comunque, nel suo ruolo dominante, non fu in grado di assumere le sembianze di un universalismo che incidesse sulle identità politiche e culturali dei popoli soggetti. Dopo il fallimento del globalismo dell’Occidente americano, oggi, con l’emergere di nuove potenze (Cina, Russia, India), si delinea una nuova geopolitica multipolare. Tuttavia, la nuova geopolitica multipolare, non è strutturata sul confronto / conflitto tra sistemi politici e sociali tra loro alternativi. Infatti il mondo multipolare si configura come un confronto tra varie potenze continentali capitaliste. Pertanto, con il multipolarismo, non si impone universalmente un unico modello economico – sociale di sviluppo del sistema capitalista che, come scrisse György Lukács comporta un modello di riproduzione “del moderno capitalismo in una vera e propria colonizzazione totalitaria della vita quotidiana” in grado cioè di omologare l’intera umanità con relativo sradicamento delle identità dei popoli? Il multipolarismo non potrebbe rivelarsi un globalismo compiuto? Cioè una occidentalizzazione del mondo realizzata con altri mezzi e altri soggetti geopolitici?

Nel libro avanzo un’ipotesi relativa alla diffusione del “modello occidentale” alle potenze eredi di grandi civiltà storiche, la russo-ortodossa, la cinese e l’indiana grazie alla “minaccia mortale” (Toynbee) costituita dall’espansionismo globale europeo-occidentale. Tali potenze per non soccombere hanno dovuto adottare il modello di sviluppo occidentale, per quanto riguarda il sistema produttivo, ma anche per quanto riguarda le forme statuali e l’esercito, mentre altre civiltà che hanno resistito maggiormente alla modernizzazione, come quella araba, non sono state finora in grado di contrastare l’espansionismo occidentale, e ne sono rimaste maggiormente soggette. Il fatto che Cina, Russia, India abbiano adottato alcuni modelli occidentali vuol dire che si va verso un’omologazione generalizzata? Secondo me, permangono ancora notevoli differenze culturali tra un cinese e un europeo, e anche tra un europeo e un russo, nonostante, in quest’ultimo vi sia maggiore vicinanza culturale. La modernizzazione è un passaggio obbligato, ma appunto un passaggio, le differenze culturali torneranno ad evidenziarsi, anche se non credo che sarà una pura riproposizione delle tradizioni culturali, poiché la tradizione culturale stessa si mantiene viva, nel rinnovarsi di generazione in generazione. La modernità è un passaggio molto difficile, ma un’umanità in cui sarebbe spenta ogni differenza culturale è un po’ un mondo da incubo, o la proiezione di un incubo. Così come con il globalismo c’è stato un movimento verso l’uniformazione, con l’affermazione del multipolarismo potrebbe verificarsi un movimento opposto verso il recupero dell’identità culturale.

La questione dell’omologazione culturale è simile alla questione dell’omologazione individuale, dell’appiattimento individuale nella società di massa. Intere generazioni cresciute in balìa dei media sono diventate incapaci di relazionarsi ed organizzarsi politicamente. Tuttavia la manipolazione non è grado di sopprimere i problemi reali, mentre le collettività sono deprivate di quelle conoscenze e capacità necessarie ad affrontarli. Aumenta la pressione sull’individuo. E si arriva a vagheggiare da parte delle classi dominanti la creazione, attraverso un “great reset” facilitato dal covid, di una società composta da individui completamente de-socializzati che fanno tutto al computer. In questo modo è probabile che si arrivi ad un punto di rottura, con il rischio dell’esplosione di rivolte cieche e irrazionali, che però rimetteranno tutto in questione. La manipolazione non può sopprimere la natura sociale dell’essere umano.

5) Il repubblicanesimo machiavelliano potrebbe rappresentare un paradigma per l’elaborazione una nuova teoria politica. Esso non è una ideologia, ma una teoria politica che postula una propria morale politica, con la preminenza della comunità rispetto all’individuo ed ha la funzione di costituire una “repubblica ben ordinata”, quale istituzione che garantisca la libertà dei cittadini. Il fine della politica è diverso dalle visioni generali della religione, della filosofia, dell’ideologia. Esso si realizza nel governare la conflittualità tra le classi sociali e preservare l’unità dello stato. Diversamente dalle ideologie, che, teorizzando la fine di tutte le conflittualità si tramutarono in totalitarismi, il repubblicanesimo prevede l’autonomia delle classi sociali e la conflittualità tra di esse. La conflittualità si rende dunque necessaria al fine di generare una sintesi degli interessi particolari in nome del bene comune. Tuttavia, dato che le conflittualità devono essere la fonte del dinamismo e dell’integrazione sociale, quali elementi necessari per rafforzare l’unità dello stato, la conflittualità stessa potrebbe anche dar luogo a divaricazioni insanabili tra varie “sette”, che condurrebbero fatalmente alla distruzione dello stato. Occorre dunque che i conflitti sociali interni abbiano luogo in un contesto sociale caratterizzato dalla preminenza di valori etici condivisi posti a fondamento delle istituzioni politiche. Ma i valori etici sono fondati su basi culturali di carattere religioso o filosofico, che nell’impatto con la realtà storico – politica, sono inevitabilmente destinati ad ideologizzarsi. Tra i valori ideologici di per sé totalitari e la teoria politica del repubblicanesimo di natura democratica non si potrebbe dunque instaurare un conflitto permanente? Lo stesso Costanzo Preve, che affermava la necessarietà della religione, così come dell’ideologia quali componenti antropologici ineliminabili della natura umana, così si esprimeva: “E’ vero che nessuno ci impedisce di coltivare l’utopia positiva e l’idea regolativa di una umanità capace di autofondare le propria razionalità in modo puramente artistico, scientifico e filosofico, ma l’esperienza non solo storica ma anche antropologica ci dice che l’uomo, pur restando un essere razionale e sociale, tende irresistibilmente ad autorappresentarsi i propri interessi non solo collettivi ma anche comunitari in forma ideologica, e cioè antropomorfizzante se però lo sappiamo, possiamo attuare una prevenzione che di fatto assomiglierà sempre più alle prevenzioni mediche, sanitarie e dietetiche. E non è certo poco”.

Come dicevo, propongo un cambiamento di prospettiva: considerare i conflitti non dovuti a motivi razionali, economici, culturali, religiosi ecc. ma dovuti in prima istanza al fatto stesso dell’esistenza di individui e gruppi sociali differenti, tale conflitto poi assume la forma razionale dei diversi interessi economici, la forma politica, le diverse forme di identità culturale e religiosa, che è bene indagare razionalmente nel miglior modo possibile in quanto compito perenne della politica è riportare questa diversità, da cui sorge il conflitto (forse è il caso di precisare che utilizzo il termine conflitto nella sua accezione più ampia), all’unità necessaria alla convivenza umana. Di per sé il confitto non è un male né un bene, è un fatto per così dire fisiologico. Dunque è vero che questi conflitti hanno sempre al fondo una base identitaria di cui il politico-medico deve tenere conto se vuole operare una prevenzione, nei termini previani, al fine che questi conflitti non assumano forma rovinosa per il corpo sociale. L’identità religiosa, culturale, e in parte anche linguistica non impedì i feroci confitti dell’età comunale in Italia. L’identità religiosa non ha impedito i secolari conflitti tra le nazioni europee, mentre ci sono stati Imperi che hanno tenuto insieme diverse identità etniche, linguistiche e religiose. Non esiste una formula con cui la politica possa assolvere il suo compito di riportare ad unità la connaturata tendenza umana al conflitto. Per questo la politica è assimilata ad un’arte. Il pericolo maggiore è quando in una collettività si perde questa arte.

Per quanto riguarda il repubblicanesimo machiavelliano da lei ben sintetizzato, vorrei evidenziarne l’attualità. Fu il movimento operaio a trasformare l’oligarchia liberale basata sul censo, in un sistema più democratico, più vicino anche se non proprio corrispondente a quel “sistema misto” propugnato da Machiavelli, che prevede la rappresentanza politica anche delle classi inferiori.

È una tendenza di lungo periodo che è propria degli Stati europei, continuata anche dopo il crollo della civiltà europea con la seconda guerra mondiale. Lo Stato sociale del dopoguerra è una continuazione di questa tendenza, interrotta con l’affermazione del neo-liberismo che è una forma di ri-oligarchizzazione.

Bisognerebbe ripristinare questo sviluppo interrotto. Secondo la sua stessa sintesi, il repubblicanesimo machiavelliano pur dando preminenza alla comunità sa contenere all’interno della stessa il conflitto tra le classi sociali. Mentre Costanzo Preve, senza il cui lavoro non avremmo compreso la centralità della comunità, dovette porre il problema nei termini di un comunitarismo comunista che alla fine mira, seppure asintoticamente, all’”estinzione delle classi”, obiettivo che effettivamente può sfociare in una deriva totalitaria, se persegue coerentemente l’obiettivo di spegnere la tendenza connaturata delle società alla differenziazione interna. Ciò non toglie che sia tutto da rivedere il rapporto tra le classi sociali, visto che la diseguaglianza sociale ha raggiunto oggi forme abnormi, mostruose, ingiustificabili, che alla fine sono risultate fatali per tutte le società precedenti incamminate sulla stessa strada. L’acquisizione del modello repubblicano machiavelliano ritengo sia il mio passo avanti fatto rispetto a Costanzo Preve, e credo sia il modo migliore per onorare i maestri. La ringrazio per lo stimolante e credo produttivo confronto.