Quale futuro per l'asse della resistenza?
di Daniele Perra - 10/06/2025
Fonte: Strategic Culture
Nel racconto autobiografico degli anni prerivoluzionari (pubblicato in Italia con il titolo “Cella n. 14”), l’attuale Guida Suprema della Repubblica Islamica riporta un episodio avvenuto mentre si trovava in una delle carceri della Savak (la polizia segreta dello Shah). Ali Khamenei venne colto di sorpresa dalla notizia della morte di Gamal Abdel Nasser, il presidente egiziano per lungo tempo protagonista della politica mediorientale e dell’opposizione al sionismo. Così, mentre le guardie festeggiavano la dipartita di quello si poneva anche come un avversario delle politiche dello Shah, il futuro capo politico-religioso dell’Iran prova empatia per una figura che, tra alterne fortune e rovinosi fallimenti (la “guerra dei sei giorni” o la disastrosa partecipazione attiva alla guerra civile yemenita), aveva comunque cercato di costruire, con il suo panarabismo, un polo geopolitico alternativo allo schema bipolare della Guerra Fredda; una terza posizione capace di opporsi sia al liberal-capitalismo dell’Occidente, sia al comunismo del blocco orientale (come noto, Nasser, pur ricevendo cospicui aiuti dall’URSS, non è mai stato particolarmente gentile con il Partito comunista egiziano).
Nel suo testo più importante e famoso, “Filosofia della rivoluzione”, Nasser fa riferimento all’Egitto come ad un asse capace di esprimere potenzialità geopolitica su tre dimensioni: 1) quella dello Stato-nazione (tendenzialmente, gli studi accademici individuano solo tre Stati-nazione nel senso moderno del termine nel Vicino e Medio Oriente: la Turchia, l’Iran e proprio l’Egitto); 2) quella dell’influenza decisiva sul mondo arabo nella sua interezza e dunque sulla diffusione del sentimento panarabo; 3) quella legata all’Islam come religione dall’afflato globale.
Paradossalmente, Nasser, nonostante uno spesso frainteso secolarismo (in realtà, il presidente egiziano non era un laico nel senso occidentale del termine – era maggiormente favorevole al controllo statale sul messaggio religioso), riconosceva in quest’ultima dimensione quella con il maggiore potenziale di coesione/opposizione ai disegni egemonici dell’Occidente nell’area che dal Nord Africa arriva fino all’Iraq.
A prescindere dalle più che ovvie differenze – Khamenei è stato anche un lettore e traduttore di Sayyid Qutb, uno dei più importanti pensatori musulmani del XX secolo, morto nelle carceri egiziane proprio sotto Nasser – appare chiaro che questa terza dimensione sia stata quella sulla quale si è costruita anche la geopolitica della Repubblica Islamica subito dopo la sua nascita, con l’enfasi riposta nell’esportazione del messaggio khomeinista all’infuori dei confini iraniani.
Ora, sarà bene riportare che proprio il fallimento dell’esperimento nasseriano ha aperto le porte ad una sorta di rinascita (o risveglio) dell’Islam in tutto il Vicino Oriente (ed anche al di là degli Stati arabi). Questo, ad esempio, appare con forza in un altro testo autobiografico: “La spina ed il garofano” del defunto leader di Hamas (morto in combattimento) Yahya Sinwar. E nel mondo extra-arabo bisogna sottolineare come il risveglio islamico in Turchia sia il prodotto di una lenta ed inesorabile costruzione dell’egemonia culturale (in stile puramente gramsciano) iniziata a partire dagli anni ’70 ed arrivata al successo intorno alla fine degli anni ’90; mentre in Iran sia iniziato anche prima, con la rivolta religiosa dei primi anni ’60.
Questo risveglio islamico è indissolubilmente legato a quella che viene definita come “geopolitica delle religioni”. A questo proposito, è del tutto erroneo l’assunto secondo il quale tale disciplina sia solo lo studio della strumentalizzazione religiosa per legittimare le parti coinvolte in un conflitto politico. Le religioni – e soprattutto quelle di origine abramitica – sono quasi sempre anche prassi realizzativa, oltre che mero discorso astratto su dimensioni ultramondane. È così per il giudaismo, per l’Islam; ed è stato così per il cristianesimo, almeno prima della Modernità. La religione, dunque, non si può mai ridurre solo al lato spirituale; così come è impossibile pensare ad una politica completamente desacralizzata (pure nel dogmatismo della laicità occidentale si possono cogliere aspetti pseudoreligiosi). Mentre è assolutamente possibile pensare ad una politica in cui il sacro viene utilizzato per scopi diametralmente opposti a quelli naturali (la giustificazione religiosa di stermini e così via).
Con la vittoria della Rivoluzione Islamica in Iran, l’ayatollah Khomeini pensò che questa avrebbe costituito la miccia che avrebbe innescato simili fenomeni in tutta la regione. E così è stato, almeno inizialmente: dall’assalto alla moschea della Mecca, fino ai tentativi repressi dal regime di Saddam Hussein di esportazione della Rivoluzione in Iraq (si pensi alla persecuzione brutale dei membri del Partito al-Dawa). Di fatto, la guerra Iran-Iraq ha rappresentato lo scoglio contro la quale si è abbattuta la progettualità khomeinista. Un conflitto logorante, anche sul piano della propaganda, che ha profondamente limitato le capacità della neonata Repubblica Islamica di proiettare la propria influenza a livello regionale. Il solo reale successo venne dalla formazione di Hezbollah in Libano; mentre il suo corrispettivo nella Penisola Arabica (Hezbollah al-Hijaz) ebbe vita relativamente breve.
Se l’esportazione della Rivoluzione si è risolta in un sostanziale insuccesso, lo stesso non si può dire per la creazione di quello che è stato definito come “Asse della Resistenza” (sebbene i critici vi abbiano intravisto una forma di imperialismo neosafavide), al quale si lega indissolubilmente la cosiddetta “Dottrina Soleimani”: la costruzione geopolitica di un sistema di alleanze informali tra gruppi, organizzazioni, Partiti politici regionali, anche eterogenei, ognuno con i propri interessi nazionali (Palestina, Yemen, Libano) ma col medesimo obiettivo di fondo: la graduale erosione dell’egemonia occidentale (ed in particolare del binomio USA-Israele sulla regione).
Appare ovvio che quest’Asse sia comunque un prodotto della Rivoluzione Islamica. Di conseguenza, deve essere analizzato tenendo conto di aspetti prettamente geopolitici e di altri connessi alla “geografia sacra”. Qui, si partirà dal secondo aspetto. La geografia sacra, come noto, studia il rapporto tra i “luoghi santi” delle diverse religioni e le modalità attraverso cui questi stessi luoghi influenzano il pensiero geopolitico (si tratta, in altri termini, di un ramo della geopolitica delle religioni, nonostante l’origine remota di tale materia).
È cosa nota che i “luoghi santi” siano spesso oggetto di contesa. Si pensi alle continue minacce sioniste alla spianata delle moschee a Gerusalemme; alle provocazioni degli stessi sionisti nella Chiesa del Santo Sepolcro (sempre a Gerusalemme); al fatto che Gerusalemme è stata a lungo oggetto di contesa tra l’Islam e di il mondo cristiano (il fenomeno politico-religioso delle Crociate); oppure, alla lotta plurisecolare tra Impero ottomano e Impero safavide nell’attuale Iraq (dove si trovano importanti santuari sia sciiti che sunniti).
In questo senso, la “Dottrina Soleimani” è stata costruita in primo luogo sulla difesa di questi “luoghi santi” dalla loro “desacralizzazione” o “occidentalizzazione islamista” (per tramite gruppi terroristici). Una difesa che si accompagnava ad una proiezione di influenza ed alla costruzione di un sistema di difesa della Repubblica Islamica a sfere concentriche e capace di contrastare i progetti occidentali di accerchiamento della stessa. Dunque, se la Repubblica Islamica dell’Iran è un santuario (come affermava lo stesso Generale delle Forze Quds delle Guardie Rivoluzionarie), senza la difesa dei luoghi santi dell’Islam (e non solo, si pensi al Monastero di Sadnaya in Siria) in Libano, Siria ed Iraq era impossibile difendere la stessa Repubblica Islamica. E ciò è particolarmente vero perché, ad oggi, con la caduta di Damasco (nonostante gli errori evidenti di Bashar al-Assad, il quale – è bene ricordarlo – è stato quasi costretto a portare avanti una politica antioccidentale e, nel corso dei suoi primi anni al potere, ha spesso sostenuto di essere pronto ad interrompere il proprio sostegno ad Hezbollah in cambio della restituzione delle alture del Golan), la Repubblica Islamica ha perso una importante linea di difesa, con l’Iraq che rimane l’ultimo fronte (a notevole rischio di nuova destabilizzazione, se consideriamo la presenza di gruppi sciiti vicini a Tehran, ed una crescita demografica ed economica che spaventa non poco Israele).
Aspetti concernenti la “geografia sacra” sono particolarmente evidenti anche dall’altro lato della barricata. Molti membri dell’attuale governo israeliano sono infatti convinti che i confini dell’entità sionista dovrebbero seguire quelli indicati nella Torah: “dal fiume d’Egitto al grande fiume, l’Eufrate”. Sorvolando sulla diatriba rabbinica concernente il “fiume d’Egitto” (alcuni pensano sia il Nilo, altri un piccolo fiume ormai scomparso che si trovava in prossimità dell’attuale confine tra l’Egitto e la Striscia di Gaza), appare chiaro che, spingendosi fino all’Eufrate, Israele possa arrivare a lambire i confini dell’Iran ed i luoghi santi dello sciismo in Iraq. Questa potrebbe sembrare “fantageopolitica”; tuttavia, solo poche settimane prima della caduta di Damasco e la definitiva distruzione della Siria, il ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich aveva affermato che Damasco era stata promessa da Dio al popolo di Israele (secondo i saggi rabbini del passato). Bene, oggi Israele, con l’ausilio di milizie druse affiliate, è a pochi chilometri da Damasco.
Questo ci conduce all’analisi degli aspetti più prettamente geopolitici. Perché la “Dottrina Soleimani, superando l’idea di esportazione della Rivoluzione di matrice khomeinista (lo stesso Soleimani suggeriva ai suoi uomini di non concentrarsi esclusivamente su aspetti religiosi per tenere a mente un più ampio disegno di costruzione di un fronte anti-imperialista), si è dimostrata capace di sviluppare un progetto contro-egemonico che per diversi anni ha minacciato seriamente il controllo occidentale sull’Heartland mediorientale.
Facendo riferimento alla dottrina dell’Heartland del geografo britannico Halford Mackinder, non si può non riconoscere l’esistenza di una molteplicità di “regioni cuore” a livello globale e non del solo Heartland eurasiatico (fondamentale per l’egemonia mondiale) da lui indicato. Nel caso mediorientale, questo Heartland è facilmente individuabile nell’arco di territorio che va dall’Iran sud-occidentale, al sud dell’Iraq, fino all’Arabia Saudita nord-orientale: dunque, tutto l’arco settentrionale del Golfo Persico. Questa regione è ricca in termini di storia, risorse naturali e la maggioranza della popolazione è sciita.
Il controllo di questa regione è fondamentale per il controllo dell’intero Medio Oriente. Qui la “Dottrina Soleimani” ha conosciuto le sue fortune, visto che l’Iran (a seguito della seconda aggressione occidentale all’Iraq) è riuscito a proiettare in modo decisivo la sua influenza. E sempre da qui, con l’assassinio dello stesso Soleimani (mentre si trovava in visita diplomatica) da parte della prima amministrazione Trump, è partita quella che può essere definita come la “controffensiva occidentale” nella regione.
L’Occidente, di fatto, ha storicamente cercato di prendere possesso di quest’area. I britannici la ritenevano fondamentale per avere il diretto controllo dell’area che dal Mediterraneo Orientale arriva fino all’India. Ed è per questo motivo che hanno contrastato i disegni infrastrutturali tedeschi nei primi anni del Novecento (ferrovia Berlino-Baghdad) e, tra le prime azioni della Prima Guerra Mondiale, hanno scelto di attaccare l’Impero ottomano proprio in Iraq. Ancora, durante la Seconda Guerra Mondiale, hanno sia represso la ribellione irachena che invaso l’Iran meridionale per garantire il flusso di aiuti all’Unione Sovietica attaccata dalla Germania nazionalsocialista.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno dapprima cercato di attuare una sorta di bilanciamento dei poteri capace di evitare una eccessiva concentrazione di forza in un solo Stato regionale (nello specifico, hanno scelto di attaccare l’Iraq, dopo averlo aiutato contro l’Iran, per il semplice motivo che la sua occupazione del Kuwait avrebbe trasformato il Paese in una serie minaccia alla loro egemonia regionale); mentre, successivamente, hanno optato per una presenza regionale in pianta stabile (quella seconda aggressione all’Iraq che, tuttavia, ha rafforzato in modo decisivo l’altro concorrente regionale: l’Iran).
Ed è proprio con questa seconda aggressione all’Heartland mediorientale che inizia a prendere forma concreta l’Asse della Resistenza (e con esso la Dottrina Soleimani). E si badi bene che questo è anche il prodotto di una sorta di cecità geopolitica nordamericana (di una visione strategica obnubilata dall’influenza della potente lobby sionista), visto e considerato che l’Iran, sotto la presidenza Khatami, aveva a più riprese cercato di normalizzare i rapporti con gli Stati Uniti (stesso percorso che intraprese inizialmente la Siria di Bashar al-Assad, come già riportato).
Nel 2006 vi fu la sconfitta di Israele contro Hezbollah in Libano, che portò pure al rovesciamento dell’esito della “Rivoluzione dei cedri”. Un conflitto scatenato dallo sconfinamento di alcuni miliziani di Hezbollah in Israele, nonostante Tel Aviv avesse da tempo preparato un piano d’attacco contro il vicino. Più o meno il medesimo scenario osservato in diverse occasioni a Gaza (anche dopo il 7 ottobre 2023).
Ancora, l’Asse della Resistenza (sfruttando anche milizie di autodifesa territoriale di varie minoranze religiose, successivamente smantellate erroneamente da Bashar al-Assad) è riuscito a contrastare i piani occidentali sul destino della Siria (una parcellizzazione etnico-settaria in linea con il Piano Yinon degli anni ’80) almeno per un decennio. Lo stesso discorso vale per il contrasto all’azione terroristica dell’ISIS in Iraq, o per la piena opposizione ai cosiddetti “accordi di Abramo”. Solo con la morte di Soleimani si è assistito all’inizio di una nuova ondata perturbatrice: l’aumento delle violenze sioniste nei Territori Occupati e la piena legittimazione del terrorismo qaidista in Siria, ad esempio.
L’operazione “Tempesta di al-Aqsa”, in questo contesto, deve essere letta ed interpretata temporalmente in almeno tre fasi: una prima fase in cui Hamas (come parte dell’Asse della Resistenza – la sua ala militare è sempre rimasta in ottimi rapporti con l’Iran, anche a seguito del “tradimento” dell’ala politica in Siria) è apparsa vittoriosa sia sul piano militare che su quello mediatico; una seconda fase (ancora in corso) di evidente distruzione (genocidio strisciante), uso sproporzionato della forza e mire espansioniste su Gaza da parte di Israele (e pure degli Stati Uniti); una terza fase, alla quale si assisterà nei prossimi mesi (se non anni), in cui si dovranno valutare gli effetti della guerra sia sul piano del sostegno esterno ad Israele (iniziano a presentarsi le prima crepe in Occidente), sia sul piano delle fratture intestine (sempre più evidenti) all’interno dello “Stato ebraico”.
In questa “seconda fase” abbiamo assistito anche al pesante attacco contro Hezbollah ed all’uccisione della sua guida, Hassan Nasrallah: una perdita enorme per l’Asse della Resistenza. E sempre questa seconda fase è coincisa con un indebolimento diretto di alcuni rami dell’Asse (soprattutto Hamas, nonostante la strenua resistenza e le perdite, comunque notevoli, inflitte ad Israele, dovrà essere capace di reinventarsi per aver un ruolo nel futuro della Palestina). Hezbollah, invece, nonostante il rischio di accerchiamento che arriva dalla Siria (e l’impossibilità di ottenere rifornimenti via terra), ha dimostrato, proprio con i funerali di Nasrallah e Safieddine (dalla partecipazione oceanica), di avere ancora una prese notevole all’interno di un Paese, il Libano, che rimane un’entità politica assai complessa e dall’autonomia/indipendenza sempre più ridotta.
Nonostante l’apparente vittoria militare della “seconda fase”, Israele manifesta problemi sempre più palesi. È difficile immaginarsi quale possa essere la tenuta della società israeliana di fronte a quella che si sta cercando di presentare come una guerra totale e senza fine. Il sostegno occidentale, come già anticipato, comincia a scemare, sebbene siano ancora molti quelli che negano apertamente ii genocidio palestinese, utilizzando a difesa di tale tesi delle motivazioni piuttosto deboli (il fatto che la presenza araba “dal Giordano al mare” sia ancora numerosa non significa affatto che il governo israeliano non abbia intenzioni genocide, o di pulizia entica come confermato da molti suoi esponenti). Allo stesso tempo, nonostante la superiorità militare, le perdite (soprattutto economiche) subite lasciano un’ombra notevole sulle capacità israeliane di poter portare avanti il conflitto alla luce di una (ancora ipotetica) interruzione/riduzione dell’aiuto occidentale.
L’Iran, infine, rimane una potenza regionale che, oltre alle sue doti missilistiche, può utilizzare la presenza su entrambi i lati del Mar Rosso (Yemen e Sudan) ed il controllo sullo Stretto di Hormuz come forma di deterrenza ad un eventuale attacco diretto sul suo territorio (tra l’altro, mettere a rischio i flussi energetici globali significherebbe anche uno scontro interno agli USA tra la lobby sionista e la lobby petrolifera, entrambe assai vicine all’attuale amministrazione Trump).
In conclusione, pur essendo indebolito e necessitando di una lunga guarigione, l’Asse della Resistenza rimane un soggetto vivo che può continuare a giocare un ruolo di rilievo nel futuro della regione. Tuttavia, la Repubblica Islamica, vero e proprio Deus ex machina dell’Asse, deve essere capace di rinnovarlo in scopi e obiettivi: ovvero di sviluppare una sorta di “diplomazia della Resistenza” che, agendo in cooperazione con altre forze multipolari, assecondi un’integrazione eurasiatica capace di contrastare i tentativi degli Stati Uniti di salvare la loro declinante egemonia attraverso nuove forme di controllo sul Vicino e Medio Oriente.