Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Sogni di un prigioniero

Sogni di un prigioniero

di Livio Cadè - 27/03/2022

Sogni di un prigioniero

Fonte: EreticaMente

“Un Dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando riflette”.
(Friedrich Hölderlin)
È detto nel Talmud che un sogno non interpretato è una lettera non aperta. In genere, è chiusa col sigillo dell’incomprensione. Ma l’interpretazione di un sogno è affatto marginale rispetto alla comprensione del sognare. Alcuni analizzano i sogni come fossero referti del sangue o delle urine, per stabilire diagnosi e terapie. Li trattano come scorie simboliche, evacuazioni di ansie o di desideri repressi. In realtà, il sogno ci consegna messaggi ben più essenziali. Non questo o quel sogno particolare, ma il sognare in generale pare affidarci un segreto metafisico.
A grandi linee, vi sono due tipi di sogni: quelli che si fanno dormendo e quelli che si fanno da svegli. I primi, i soli di cui vorrei parlare qui, sono le abituali rêveries, di solito notturne, che ci conducono in un mondo alternativo e bizzarro. I secondi sono i pensieri che ci accompagnano quando non dormiamo. Si potrebbe dedurne che tutta la vita sia sogno («è la medesima realtà il desto e il dormiente»), anche se una tale affermazione può apparire paradossale. Infatti, se tutta la realtà da noi percepita fosse illusione, l’illusione stessa sarebbe l’unica realtà, quindi non sarebbe illusione.
Dovremmo perciò postulare un’altra realtà, che non conosciamo, ma che crediamo reale. Tuttavia, non conoscendola come possiamo parlarne? Possiamo porla come ipotesi gnostica, immaginando che l’anima sia prigioniera nel buio carcere del corpo, e che quello che vediamo sia solo un corteo di ombre, come nella caverna platonica. Convinti da tale dottrina, potremmo venir presi  da una smania iniziatica di risvegli e di illuminazioni. Ma se anche ci svegliamo, come esser sicuri che il risveglio non sia un nuovo sognare? Chuang-Tzu sognò d’essere una farfalla e poi si svegliò, o era una farfalla che sognava d’essere Chuang-Tzu?
Il sogno stesso è una particolare forma di risveglio. Dalla totalità inconscia del non essere emergiamo alla coscienza di essere-questo. Ma tra la profondità del vuoto e la superficie delle cose v’è una zona intermedia, che raramente notiamo. È una sorta di nudo essere senza attributi, che serve da ponte tra il vuoto e la coscienza di esistere. Lì siamo senza sapere cosa siamo. Vi sostiamo brevemente, sospesi in una presenza senza nomi e senza forme. Infine, come per effetto di una condensazione, appare l’io-oggetto, e con lui l’intero universo, sognato o reale.
Posso dunque immaginare il mio Sé come una combinazione di tre stati: non essere (sonno profondo), essere (dormiveglia) e l’essere-questo (sogno e veglia). Ogni stato successivo incorpora il precedente e ne fa il suo inconscio fondamento. Il secondo stato si può cogliere anche da svegli, in certi momenti meditativi, di sospensione, volontaria o meno, del flusso mentale. Di altri stati non ho esperienza, ma questo ovviamente non ne esclude l’esistenza (e del non essere, a rigore, non ho esperienza ma conoscenza).
Il sogno resta dunque legato con un filo continuo alla verità dell’essere. Eppure, lo si reputa irreale. Come dice Descartes, dei “pensieri che possono venirci durante il sonno, non ve n’è alcuno che sia vero”. È strano che il filosofo, dopo essersi imposto di «di evitare accuratamente la precipitazione e la prevenzione (il pregiudizio)» liquidi le nozioni di chi dorme come totalmente false, incappando in quello che si era ripromesso di evitare, cioè un avventato pregiudizio. Più cauto è Orazio, secondo il quale solo dopo la mezzanotte i sogni son veritieri.
Cartesio, come gli altri filosofi, non vuol parlare di sogni, anzi, vuol essere certo di non sognare. La ricerca della verità – sull’uomo, Dio, la natura ecc. – par doversi riferire a circostanze e riflessioni diurne, soggette a una coscienza lucida e sobria. Chi dorme, come un ubriaco, sembra escluso a priori dalla conoscenza reale. Alcuni riconoscono di aver avuto in sogno profonde intuizioni, illuminazioni anche di carattere matematico o scientifico, ma in genere non si concede alle vicende oniriche valore di verità.
Questo disdegno contraddice una lunga tradizione. Nella Bibbia Dio spesso parla attraverso i sogni. In molte culture antiche il sogno era considerato canale di comunicazione con gli Dei, zona di contatto tra i vivi e i morti, porta che permetteva di uscire dai limiti della realtà ‘diurna’, legata ai nostri sensi grossolani, e di avvicinarsi ai misteri dell’anima. Era profezia, divinazione, rivelazione, via nottivaga alla conoscenza.
Oggi il sogno è decaduto da quell’alta stima e non gode di una buona reputazione. Forse perché non sembra favorire l’esercizio delle nostre virtù morali e razionali. Nella sua natura asociale e solitaria, nega quelle forme di dialogo e di relazione con gli altri che troviamo tanto preziose per la nostra umanità. È antitesi di una vita basata sul fare, su forme di controllo e di auto-determinazione consapevole. Chi dorme pare regredire a condizioni fetali. “I dormienti son simili ai tristi morti”, dice Leonardo.
Il sognare diviene così una banale espletazione fisiologica di cui un poco vergognarsi. Nel sogno, infatti, molte delle nostre nobili qualità ci lasciano, le nostre maschere sociali cadono. Solo perché non esiste un tribunale dei sogni persone apparentemente rispettabili non vengono condannate per furto, stupro o assassinio. Ciò non esclude la colpa, perché se tali azioni non le compiamo col corpo, nondimeno vi partecipa l’anima. «I sogni sono il momento in cui noi siamo più noi», e questo può turbare.
Quindi, è meglio credere che il sogno non esprima la realtà. La dignità del reale viene concessa solo a cose che esistono veramente fuori di noi, non ai prodotti della nostra immaginazione. Questa distinzione è ingenua. Qual è il confine tra il mondo e le nostre rappresentazioni? Se pensiamo che la nostra percezione afferisca a oggetti esterni, la coscienza diviene una duplicazione del reale, come in uno specchio. Benché questa dualità sia un dato ‘istintivo’, non ne vedo la necessità logica.
L’idea che le nostre sensazioni siano la copia interiore di qualcosa che sta fuori di noi è forse la più conveniente per il disbrigo delle faccende ordinarie, per le nostre transazioni con le cose, gli altri, Dio stesso. Se non immaginassimo una molteplicità di enti non avremmo nulla su cui applicare le nostre facoltà di conoscenza e di azione, nulla da desiderare o da temere. Se non esistesse ‘l’altro’ neppure noi esisteremmo. D’altro canto, è questo a creare una sostanziale identità tra “i desti e i dormienti”.
Anche nel sogno, infatti, ritroviamo questa dialettica di io e non-io. Siamo convinti di vedere realtà concrete, esterne e indipendenti dalla nostra volontà, anche se in forme più labili e sfuggenti. Solo svegliandoci comprendiamo che quei fatti erano un’effusione fittizia della mente, non cose reali e stabili come la nostra camera da letto e gli oggetti che contiene. Ma questo è solo un giudizio dato dalla comparazione di due rappresentazioni contrastanti. Considerando reale una – la veglia – giudichiamo irreale l’altra – il sogno.
Immaginiamo che il mondo ‘concreto’ sia formato di corpuscoli, di onde fisiche che ci raggiungono creando in noi altre onde, trasformandosi in messaggi nervosi che arrivano al nostro cervello, il quale li elabora e li trasforma in sensazioni e forme simboliche, e che questo mondo reale ci stia di fronte nella sua solida consistenza, mentre il sogno è un’ombra evanescente. Avremo così tre mondi, quello reale, quello mentale che si riflette nella nostra coscienza, e il riflesso di questo, nei sogni. Ma questa credenza è totalmente fantastica.
L’inconsistenza di tale distinzione si fa evidente soprattutto nei sogni ‘lucidi’. Chi ne ha esperienza sa che in essi la  presenza a sé stessi e la percezione delle cose hanno maggior intensità e chiarezza che nella veglia. Sono sogni iper-realisti e coerenti in cui si è perfettamente consapevoli di sognare. Si è accesi da un’illuminazione, improvvisa come un satori buddhista, e tutto si rivela come una proiezione del Sé. Questo determina una profonda crisi nel concetto di realtà.
Nel sogno lucido puoi vedere il pulviscolo danzare in un raggio di sole, sentire la morbidezza di un tessuto, ascoltare musica ecc., ma sai che ogni cosa – città, strade, persone, animali, alberi ecc. – pur apparendo dotata di una corporeità perfetta in ogni dettaglio e di una vita autonoma, è parte di una trama tessuta dalla tua immaginazione. Questo mondo molteplice appare spontaneamente e misteriosamente, come un incantesimo. Ma avendo capito “il sogno sono io” puoi imparare a plasmarlo, a evocare immagini, come creando un’opera d’arte. E se qualcuno dicesse che è solo immaginazione non avrei nulla da obiettare, a patto di considerare immaginaria tutta la mia vita.
Questi sogni dimostrano che possiamo vedere senza occhi, udire senza orecchie ecc., ossia che la coscienza non ha bisogno di organi fisici («l’uomo accende a se stesso una luce nella notte, quando è spenta nei suoi occhi», dice Eraclito). Ma come si forma l’universo del sogno, di quale sostanza è fatto, in quale spazio si trova?
La risposta è solo nell’evidenza intuitiva del nostro Io. La mente non ha forma, non ha dove. È lei stessa il Luogo. Tuttavia, non possiamo definirla uno spazio che contiene oggetti, perché in lei contenitore e contenuti coincidono. Nel film del sogno, la mente è lo schermo, la luce, il regista, lo sceneggiatore, gli attori, gli ambienti, lo spettatore e ogni altra cosa. Dunque è l’unica realtà, Uno e Tutto, rappresentazione di sé stessa.
Che le nostre rappresentazioni siano la replica più o meno fedele di ‘cose’ esterne al nostro io è un presupposto che non potrà mai essere dimostrato se non basandosi su altre rappresentazioni, e quindi in modo tautologico. Questo rende assurdo il tentativo di spiegare la coscienza come fenomeno neurologico, come se le presunte strutture o cause fisiche della coscienza – il sistema nervoso, le sinapsi ecc. – non fossero anch’esse rappresentazioni. Riducendo lo spirituale al corporeo si rende l’uomo e i suoi sogni prigionieri di una necessità chimico-fisica, senza capire che l’unica realtà è la mente. Perciò, se sogno d’essere una farfalla, i miei voli sono reali, e io sono realmente una farfalla.
Si dirà che le immagini dei sogni sono caduche. Basta un rumore, un tocco, per dissiparle, ed esse non tornano più. Ma una vita intera non è meno effimera di un sogno, né meno incostante e volubile. Ogni forma appare, muta e svanisce. La continuità del mondo fisico, il permanere delle cose in sé stesse, non è meno illusoria di quella di un mondo sognato. Tuttavia, la precarietà ha come fondamento una coscienza che permane.
Per capirlo bisogna uscire dai limiti di uno sguardo razionale (“dite ai credenti di chiudere i loro occhi”, è scritto nel Corano). Coloro che vedono nel sogno un’evasione diranno che la realtà sta solo nella storia, nella sua natura scientifica e concreta, e questo è in parte vero. La storia è infatti la prigione nella quale l’anima è rinchiusa, e da cui cerca di evadere. Le leggi dello spazio e del tempo ne sono i muri, i sensi fisici le sbarre, la ragione la porta massiccia, e il sogno è una chiave per uscirne.
Il sogno è una ribellione contro la storia e le sue teorie (perché «ogni teoria è grigia e verde è l’aureo albero della vita»). È un antidoto alla logica ottusa, è la poesia della notte contrapposta alla prosaicità del giorno, la libertà dell’incomprensibile, premonizione di un aldilà, presentimento di immortalità e libertà. È forse l’ultimo rifugio dell’ignoto in un mondo che vuole spiegare ogni cosa. Il sogno è un segreto che allude a un altro segreto.
Ogni forma vivente brama estinguersi, dissolvere i suoi limiti nella totalità di un’anima indivisa. Questo è il grande segreto. Un desiderio di morte. Ogni giorno, lasciandoci cadere nel sonno, noi colmiamo la separazione, adempiamo il rito del distacco e del ritorno all’unità. Il sonno ci attira con un’oscura nostalgia, rispondendo al richiamo di un’infinità vuota e silente. Così abbandoniamo le immagini di noi stessi e del mondo. E mi chiedo perché per tutta la vita ci si sforzi di costruire un’immagine di sé se poi è così piacevole liberarsene.
Dormire è tornare all’origine, là dove ancora non esiste la brama di esistere. Molli gli ormeggi e ti unisci agli Dei, nel nudo oblio di te stesso, cullato dal calmo respiro del nulla. Sei di nuovo libero, di quella libertà che solo l’inconscio può dare. Nel sogno partecipi del potere divino di creare mondi. Ma nel sonno torni a essere il vasto oceano del Sé e dimentichi d’essere questa piccola onda che s’increspa tra nascite e morti. È un’estasi quotidiana, ordinaria, offerta liberalmente a tutti, un’inconsapevole gnosi, ricordo dell’unità indifferenziata da cui veniamo.
Il sonno è un dono mistico che Dio fa all’uomo per preservarlo dalla follia. Se la realtà fosse solo quella che vediamo ad occhi aperti, dovremmo dedurne che l’uomo ha un assoluto bisogno di irrealtà. Privarlo del sonno è infatti più crudele che privarlo del cibo. Nessuno potrebbe vivere senza spogliarsi regolarmente del suo io, dei suoi abiti coscienti e volitivi. Dormendo possiamo uscire dalla prigione della storia e cullarci nella riposante ombra del non-essere.
Ma questa non è l’ultima parola. Il nostro compito è demolire la prigione della storia, versare nell’essere e nelle sue immagini la libertà del non essere; tessere trame di esistenze immaginarie tirandone consapevolmente i fili; lasciarci guidare dall’istinto della bellezza, ossia da un ordine interiore basato sull’amore. Contemplare ogni cosa abbandonati al nulla materno che ci crea.
Anche oggi, in questo incubo collettivo che ha costruito una prigione nella prigione, e in questa un’altra prigione, chiudendoci in scatole cinesi sempre più sordide e soffocanti, potremmo improvvisamente capire di trovarci in un sogno, e lucidamente trasformarlo. Niente potrebbe legarci a questo carico di pene, se solo ricordassimo che anche la storia è sogno, proiezione del nostro spirito, qualcosa di cui noi stessi siamo responsabili.