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Troppa retorica sull'innovazione può nascondere il rischi di una società post-umana

di Luciano Lanna - 09/01/2020

Troppa retorica sull'innovazione può nascondere il rischi di una società post-umana

Fonte: Start Magazine

C’è un romanzo di Carlo Sgorlon, "La conchiglia di Anataj", che riesce a rappresentare una delle migliori metafore letterarie della modernizzazione. Il protagonista è un friulano che a fine Ottocento va in Russia a lavorare per la costruzione della Transiberiana. L’edificazione della grande ferrovia tende ad acquistare nelle pagine della narrazione un alone sempre più simbolico e profetico. Storicamente si trattò di una grande opera che comportò il superamento di enormi e apparentemente insormontabili difficoltà, con quasi quindici anni di lavoro ininterrotto. Vi lavorò uno sterminato esercito di uomini, settantamila persone e anche più, che venivano da ogni luogo, un vero e proprio melting pot: friulani, carnici, veneti, rumeni, tedeschi, balcanici, kirghisi, tartari, mongoli, coreani, cinesi, giapponesi… Un’avventura durata dal 1891 fino al 1900 e il cui risultato finale arrivò solo nel 1916. Vi furono infiniti ponti da costruire, terra e terra da spostare, gallerie da scavare, acquitrini da bonificare, foreste da abbattere, alture da appianare: una vera e propria epopea della modernizzazione spinta D’altronde, l’opera risolveva difficoltà e ritardi secolari. Il problema principale dei trasporti in Siberia era l’attraversamento dei fiumi che, scorrendo da sud a nord, impedivano da sempre un percorso agevole nella direzione da ovest a est. Ragion per cui l’economia, i traffici, lo sviluppo in tutta quell’area dell’Asia centrale erano praticamente fermi. I trasporti a trazione animale erano estremamente lenti, e i viaggi da Mosca a Vladivostok duravano anche quattro mesi. Figurarsi il trasporto delle merci. Il problema fu esaminato per molti anni e la soluzione per lo sviluppo venne negli anni Ottanta dell’Ottocento con la proposta concrete di costruire una grande linea ferroviaria che attraverso la Siberia collegasse Mosca a Valivostok. Ovvio che la sua realizzazione avrebbe trasformato tutto, rendendo agevoli il commercio, gli scambi, i trasporti, la crescita. Ma di fronte a tutto ciò c’erano anche opinioni e reazioni avverse, sulla base della considerazione che la messa in opera sarebbe stata troppo costosa e lunga, che la ferrovia non era necessaria, che per molti anni avrebbe funzionato in grande perdita e che, soprattutto, la realizzazione avrebbe modificato l’ambiente, le abitudini secolari delle comunità e avrebbe fatto sparire lavori e mestieri tradizionali. Sgorlon ci fornisce la sensazione precisa di questi stati d’animo e di queste reazioni, attraverso l’opinione di chi considerava l’opera della ferrovia una violenza alla natura, una deturpazione di essa e del Creato provocata dalle esigenza devastatrici di una modernità finalizzata solo al profitto, e anche la fine di modalità di vita e di occupazioni tradizionali che sarebbero scomparse per sempre. Così, dà voce al monaco Nichanor, il quale gira per la Russia e la Siberia cercando di boicottare l’opera, i suoi costi, la sua devastazione ambientale, il suo togliere spazi ai cacciatori e agli allevatori, il suo annullare la vita quotidiana di tante persone. Considerazione che a tratti fa suoi anche il protagonista del romanzo, che pure sta dedicando la sua esistenza alla costruzione della ferrovia: “Certe volte provavo un guizzo di pena per gli alberi abbattuti, e per quel modo di devastare e mutilare la foresta. Così, per pochi istanti, il pensiero della ferrovia si velava di un’ombra, e mi pareva di schierarmi dalla parte dei contadini e dei cacciatori, che la ritenevano un’opera inutile e senza costrutto”. È un fatto che questi stessi stati d’animo accompagnino, sin dalla prima rivoluzione industriale, tutti i processi di innovazione tecnologica e modernizzazione. Rivoluzioni delle macchine ci sono state nelle società europee e occidentali sin dall’Ottocento e poi, ancora più dirompenti nel Novecento. E queste, se prima hanno ridotto, poi in tempi ragionevoli hanno comunque assorbito e sostituito con nuove modalità di lavoro le vecchie occupazioni e i vecchi mestieri. Ma oggi con la rivoluzione digitale il quadro è un po’ diverso e più complesso. La “marcia trionfale” dell’intelligenza artificiale, degli algoritmi e dei robot percorre infatti incontrastata tutti i domini dell’esistente a partire dalle tecnologie, passando all’economia, per arrivare agli aspetti più comuni e quotidiani della nostra esistenza. Come ha annotato Giulio Tremonti – nel suo saggio Le tre profezie, tutto dedicato a questo fenomeno – “come un tempo erano la filosofia e l’umanesimo a guidare la tecnologia, oggi serve cautela per evitare che la tecnologia ci allontani dall’umanesimo e da quel che resta della filosofia, portandoci a qualcosa di post-umano”. D’altronde, per molti secoli lo sviluppo tecnologico era stato impedito dagli stessi regnanti i quali temevano che innovando gran parte della popolazione avrebbe perso il posto di lavoro. Una mentalità di mantenimento dello status quo tecnologico che, diffusa fin dall’impero romano, è stata superata solo dopo la prima rivoluzione industriale la quale ha permesso di comprenderne fino in fondo i benefici. Allora fu possibile spostare la produzione dalle piccole botteghe artigiane alle grandi aziende nelle quali, grazie all’introduzione della macchina a vapore e successivamente della catena di montaggio, fu possibile ridurre i tempi di produzione ed aumentare notevolmente la complessità dei prodotti finiti. Ma oggi lo scenario è diverso: quasi fosse una scherzo del destino per l’uomo occidentale e delle società tecnologizzate, mentre per effetto dello sviluppo e del progresso egli vede allungarsi la durata della propria vita, vede di contro ridimensionarsi la possibilità di realizzarla nel lavoro. In Europa, negli Stati Uniti e in Giappone l’innovazione viene ormai presentata come “ineluttabile” e coincide sostanzialmente con digitalizzazione e industria 4.0. Certo, se l’impatto del cambiamento tecnologico sull’economia presenta molte opportunità in termini di aumento della produttività, dal punto di vista dell’occupazione lo scenario è quello di un esercito di disoccupati all’orizzonte. Se per alcuni anni i posti di lavoro erano stati minacciati da globalizzazione e delocalizzazione, oggi lo spettro è quello della progressiva automazione del settore manifatturiero, con l’introduzione sempre più massiccia di robot. Oltretutto, il trend appare irreversibile. L’introduzione di nuove tecnologie ha costi fissi elevati ma costi variabili estremamente bassi. Pertanto, una volta sostituite le braccia con i robot, la convenienza aumenta col passare del tempo molte produzioni da labour intensive stanno diventando capital intensive. Insomma, dietro la spesso troppo facile retorica dell’innovazione si traduce la necessità sistemica della digitalizzazione nella produzione, nell’amministrazione e nell’intero assetto sociale. Un dato che impone, per senso di responsabilità, la domanda su quanta innovazione possa digerire una realtà come quella odierna già stressata da cambiamenti troppo repentini e invasivi. Perché in sostanza digitalizzazione significa tante cose quando si tiene presente il famoso “fattore umano”. Innovazione significa, come abbiamo visto, scomparsa di profili e ruoli oggi occupati dalle macchine, significa emarginazione delle fasce anziane non preparate agli automatismi della rivoluzione digitale, significa modificazioni della abitudini nella vita sociale e relazionale. E se è vero che solo con l’innovazione i paesi avanzati potranno mantenere il loro benessere generale anche nei prossimi decenni, è anche vero che parallelamente si pone la questione dell’indebolimento del legame sociale al loro interno. Il rischio, in conclusione, sarebbe l’affermazione di una modernizzazione estrema dell’economia in assenza di un contesto umano correlato. Lasciamo ancora la questione, che resta aperta, alle parole di Giulio Tremonti: “In presenza di masse senza lavoro ma anche senza reddito, chi comprerà i nuovi prodotti e i nuovi servizi che l’industria digitale produce e produrrà su scala crescente, e per i quali ci sarebbe l’offerta, ma non più la domanda? Non solo: chi terrà in equilibrio i conti pubblici, il Welfare State, e con questi la pace sociale, dato che la fiscalità necessaria per finanziarla incide come un cuneo sui salari pagati ai lavoratori, ma questo solo basandosi sul presupposto che i salari ci siano davvero?”.