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Una classe dirigente che tradisce va processata

di Francesco Lamendola - 08/05/2020

Una classe dirigente che tradisce va processata

Fonte: Accademia nuova Italia

Possiamo e dobbiamo domandarci: perché ci siano ridotti così? Perché l’Italia, un grande Paese, che ancora una ventina d’anni fa era la quarta economia del mondo, è scesa tanto in basso ed è sull’orlo della schiavitù e della dissoluzione? Come è stato possibile che un grande popolo, che per secoli è stato faro di civiltà al mondo intero, imboccasse la via dell’auto-mortificazione, dell’auto-boicottaggio e, da ultimo, dell’auto-estinzione? La cattiva politica, si dirà; una pessima classe dirigente, traditrice della Patria e venduta a interessi stranieri. Benissimo. Ma la cattiva politica si può riformare, e i venduti e i traditori si possono sostituire con uomini capaci, onesti e leali. Dopotutto, almeno formalmente, l’Italia è pur sempre una democrazia, fino a prova contraria. Se davvero tutti i suoi mali hanno la loro radice in un difetto della classe dirigente, ciò non spiega perché gli italiani consentano a essere guidati da una simile classe dirigente, e perché non riescano ad esprimerne una diversa, e migliore. Non solo con il voto elettorale, che, lo sappiamo, è spesso una vuota formalità e non ha la forza di agire nel profondo del quadro politico e istituzionale; ma con la famiglia, la scuola, l’educazione, la cultura, l’intelligenza, il lavoro, la creatività, la responsabilità, il risparmio, la saggezza, il buon senso. Quale maledizione impedisce agli italiani di avere una classe dirigente che non li tradisca, non li inganni, non li venda a forze estranee in cambio di vantaggi personali? Questa è la domanda, e bisogna provare a rispondere. Altrimenti, tanto  vale rassegnarsi a sopportare questa situazione: un grande popolo che decide di suicidarsi, dando le chiavi della macchina a un autista folle, venduto e corrotto.
Per rispondere a questa domanda, è necessario fare una premessa di filosofia della politica e una constatazione di ordine storico. La premessa è che una classe dirigente svolge la sua funzione naturale, che è quella di far coincidere il proprio interesse con quello della nazione, se vi è la sovranità politica; in assenza di questa, la classe dirigente bada solo al proprio tornaconto e serve tranquillamente qualsiasi potere straniero, come è accaduto per secoli nell’Italia pre-unitaria. La constatazione storica è che la sovranità è la condizione indispensabile perché una classe dirigente possa assolvere al suo compito naturale nei confronti della nazione; e che la sovranità, per la nazione italiana, finisce irreparabilmente l’8 settembre 1943. E non finisce, si badi, per effetto della sconfitta militare, perché la Germania, che due anni dopo sarebbe stata sconfitta in maniera ben più dura, è riuscita a riprendersi quasi tutta la sua sovranità, perché la sua classe dirigente, lavorando con pazienza e tenacia, ha eliminato uno ad uno i vincoli posti dai vincitori, a cominciare dalla divisione politica in due Stati contrapposti.
L’Italia invece perde la sua sovranità nel 1943 sia per il modo in cui si è arresa, guadagnandosi il disprezzo di tutto il mondo e l’auto-disprezzo, sia pur dissimulato, del suo stesso popolo (si pensi al cinema degli anni successivi, con personaggi di anti-eroi come Totò o come Sordi, cioè figure da operetta, al posto di personaggi fieri e coraggiosi, come Amedeo Nazzari, nei quali il pubblico di prima poteva identificarsi), sia per la successiva guerra civile, ipocritamente ribattezzata Resistenza, che ha distrutto tutta l’opera del Risorgimento, della Prima guerra mondiale e del fascismo, cioè l’opera di effettiva unificazione del popolo italiano e di fondazione di un patto di mutua solidarietà fra popolo e classe dirigente. L’8 settembre 1943, con la logica premessa del 25 luglio, segna il ritorno alle Italie anteriori al 1861, coi loro particolarismi e i loro egoismi, e soprattutto con le loro classi dirigenti ben decise a reggersi in sella a qualsiasi costo, anche al prezzo del tradimento più ignominioso, accettando il ruolo sub-coloniale di chi governa, ma solo di nome, per conto di un potere estraneo, senza alcun riguardo per l’interesse effettivo del proprio popolo. La fuga di Pescara di Badoglio e Vittorio Emanuele III è la rappresentazione plastica di tale divorzio fra la classe dirigente e il popolo: l’una preoccupata solo di se stessa, l’altro abbandonato al peggiore dei destini.
 Questa premessa e necessaria per capire come siamo arrivati alla situazione attuale. La Repubblica del 1946 nasce su un colossale inganno e una sistematica mistificazione, per nascondere a tutti, ma specialmente al popolo italiano, che l’Italia ha perso la sua sovranità, e più precisamente che la sua classe dirigente l’ha venduta in cambio del privilegio di restare formalmente al potere, ma in conto terzi. Perciò, da quel momento, è stata fatta una capillare e incessante opera di falsificazione della storia: i peggiori sono diventati i migliori, e viceversa. Nel campo della cultura, per esempio, i più servi, i più invidiosi e meschini, come Benedetto Croce, sono assurti alla gloria dei libri di testo, e celebrati come grandi personaggi; i più fieri e originali, come Giovanni Gentile per la filosofia e Gioacchino Volpe per la storia, sono stati condannati alla damnatio memoriae o, nel migliore dei casi, all’oblio, perché avrebbero dato ombra ai vincitori. La stessa cosa è avvenuto nella politica, nella pubblica amministrazione, nella magistratura, nell’impresa statale, nella ricerca scientifica, ecc. Quelli che potevano vantare un pedigree antifascista, magari raffazzonato all’ultimo momento, sono passati a ruoli dirigenti; quelli che non hanno voluto rinnegare il loro passato fascista sono stati emarginati o esclusi. Per non parlare dell’ambito governativo.
Togliatti, che prendeva ordini direttamente da Stalin e se ne fregava sia dei comunisti rifugiatisi in URSS durante il fascismo, sia dei soldati dell’ARMIR caduti prigionieri, è assurto al rango di grande statista; i partigiani comunisti, ladri, assassini e stupratori, promossi a eroi senza macchia e senza paura, con tanto di canzoncina pseudo patriottica, Bella ciao, da insegnare ai bambini nelle scuole; e le vittime di quei massacri, di quegli stupri, coperte di disprezzo e storicamente condannate senza appello. Silenzio di tomba, poi, sulle foibe e sul dramma dei profughi giuliani (è curioso: oggi che i profughi, anzi i falsi profughi, sono africani, quella stessa sinistra che allora accoglieva a sputi e parolacce gli istriani, i  fiumani e i dalmati, oggi predica il dovere dell’accoglienza e dell’inclusione ad ogni costo). È stata una selezione all’incontrario: il servilismo al posto del merito, l’obbedienza canina al posto della indipendenza di pensiero e di azione. E così l’Italia si è trovato a essere governata da due poteri: uno apparente, la sua classe dirigente sempre più inefficiente, corrotta e ferocemente egoista, e uno reale, il potere politico e finanziario dei vincitori, che di quella classe dirigente si è servito, carezzandola nei suoi peggiori difetti e nei suoi vizi storici, per tenere l’Italia costantemente legata alla catena e con la museruola.
 Bisogna pur dire, a questo punto, che nonostante il suo peccato d’origine, nel complesso la classe dirigente italiana si è sforzata, per due o tre decenni, di recuperare spazi di manovra, se non proprio di sovranità, in modo da tornare a svolgere una funzione utile non solo a se stessa, ma alla nazione: sempre però da parte di outsider e non di personaggi radicati nelle istituzioni, gente come Mattei, ad esempio, e non come Andreatta, tanto per fare un paio di esempi, l’uno in positivo, l’altro in negativo. Questi margini di autonomia guadagnati assai faticosamente e dietro l’apparente sottomissione al potere effettivo, si sono però gradualmente ristretti nel corso del tempo; la classe dirigente si è stancata di condurre questa politica del doppio binario e a un certo punto, forse anche dopo aver visto che chi non si piegava del tutto al potere effettivo, finiva male, in un modo o nell’altro (vedi i diversi casi di Moro e di Craxi), è tornata allo stile di Badoglio e alla tradizione dell’8 settembre: tutti a casa, e ciascuno per sé.
 Ed eccoci arrivati agli anni ’90. L’Italia è diventata una grande potenza economica, ma priva di sovranità e priva di una classe dirigente che sappia o che voglia condurre la sua azione a vantaggio della nazione. Ecco il Britannia, ecco le privatizzazioni selvagge, ecco l’ingresso nell’euro: le tappe della svendita del Paese e del tradimento ai danni del suo popolo. Francia e Gran Bretagna, superate dall’Italia, sia pur di poco, sul piano economico, avendo però conservato delle classi dirigenti degne di questo nome, sono riuscite a riprendersi. Si pensi all’azione di risanamento dell’economia avviata da Margareth Thatcher, quando la Gran Bretagna pareva avviata a un inesorabile declino. Anche l’Italia avrebbe potuto riprendersi e tornare a giocare la grande partita, ma non ha avuto la minima chance, perché la sua classe dirigente aveva già deciso di tradirla e di badare solamente ai propri affari e soprattutto alla conservazione dei propri privilegi. Meglio un potere in conto terzi, che nessun potere: così essa ha ragionato, e così ragionano ancor oggi i Gentiloni, i Renzi, i Zingaretti, i Di Maio, i Grillo, e tutti gli altri che non vale neppur la pena di nominare tale è la loro inconsistenza e nullità sul piano della competenza, specialmente i ministri dell’Economia e dei dicasteri ad essa collegati di questi ultimi due decenni. La storia dell’Italia nell’euro è la storia di un suicidio assistito, di una eutanasia programmata. La prova del ruolo subalterno cui le classi dirigenti italiane si sono adattate è che ogni qualvolta un governo ha cercato di riguadagnare qualche margine di autonomia, è stato riportato all’ordine, o fatto cadere, da manovre speculative e ricatti finanziari, la salita dello spread e i giudizi impietosi delle agenzie di rating; ogni volta che al potere è salito un governo docile (preferibilmente non eletto dal popolo: vedi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni e, ora, il Conte Bis) i poteri forti della finanza hanno allentato un po’ la presa, distribuendo elogi a quei primi ministri e assegnando all’Italia lo zuccherino per essere stata buona e obbediente.
 Altro esempio. Come è possibile che un manager pubblico, dopo aver portato al disastro l’azienda che gli era stata affidata, venga liquidato con il massimo della buonuscita e degli onori? In un Paese normale, cioè dotato di sovranità, un simile signore verrebbe sottoposto a inchiesta e probabilmente processato. Evidentemente, quel premio e quelle gratifiche attestano che egli ha fatto bene il suo lavoro: che non era quello di far prosperare l’azienda a lui affidata, ma di affossarla. Altro esempio ancora. In un Paese sovrano, il governo non consente che i suoi più grossi imprenditori si trasferiscano tranquillamente all’estero, senza aver restituito un centesimo di quanto hanno ricevuto dallo Stato per anni e per decenni: eppure la FIAT ha fatto questo, e ora in Italia non paga nemmeno più le tasse, dopo aver licenziato tutti gli operai che non le servivano quando ha decisi di andarsene. Curioso, vero? Ciò accade quando la classe dirigente e l’interesse nazionale viaggiano su binari diversi e del tutto divergenti. Quel che è buono per la classe dirigente è cattivo per quella nazione. I magistrati che lottano seriamente contro la mafia vengono trasferiti o assassinati, quelli che fingono di non vedere i boss latitanti che girano per la strada a viso aperto, restano e fanno carriera. Una selezione all’incontrario, appunto: vince chi fa peggio. La cosa è tanto evidente che perfino i ciechi dovrebbero vederla.
 E tuttavia, il popolo italiano stentava a rassegnarsi: possedeva ancora una spina dorsale, quella eroica classe di piccoli imprenditori, artigiani e commercianti che nonostante tutto, benché spremuti da un fisco assurdamente rapace e ostacolati da normative europee tanto capziose quanto irrazionali, ha seguitato a lavorare, a produrre, a risparmiare. Bisognava abbatterlo, perché solo spezzando la spina dorsale del popolo italiano si sarebbe potuta realizzare l’agenda assegnata dai poteri forti della finanza internazionale alla classe dirigente italiana. L’emergenza sanitaria per il Covid-19 è servita a questo: a distruggere quell’ultimo nucleo di resistenza, quell’irriducibile zoccolo duro. Alcuni mesi di blocco pressoché totale del fatturato avrebbero piegato l’ultimo ostacolo: ed è quel che il signor Conte sta facendo, scientemente e deliberatamente, per conto e nell’esclusivo interesse dei suoi padroni e burattinai. Di nuovo, si obietterà: ma gli italiani non sono obbligati a votare per della gente di tal fatta. Vero. Però, a parte il fatto che gente di tal fatta non ha bisogno del voto degli italiani per arrivare a palazzo e chiudervisi dentro tutto il tempo che vuole, se non c’è la sovranità dello Stato, non ci può essere una classe dirigente capace di rappresentarli e interessata a farlo, ma solo una classe di servi che più o meno si equivalgono, a sinistra, al centro o a destra.
Prendiamo il caso del Movimento 5 Stelle: si è presentato come antisistema, è stato votato perché diceva di voler uscire dall’euro; e cosa ha fatto, non appena giunto a palazzo? Si è incollato alle poltrone e ha fatto esattamente il contrario di ciò che aveva promesso agli elettori. Questa è la situazione. E ci siamo arrivati per gradi, lentamente, partendo dall’8 settembre del 1943. Il merito è stato abolito e la carriera è stata assicurata ai mediocri, purché obbedienti e allineati. Migliaia di italiani colti, intelligenti, preparati, onesti, sono rimasti al palo, ignorati dal sistema: hanno fatto carriera gli altri, quelli che si sono messi in vendita sul mercato delle vacche. Lo stiamo vedendo anche nell’ambito medico e scientifico, proprio in questi giorni di emergenza sanitaria. Non parliamo del giornalismo e dell’informazione: è arrivato il momento della più grave crisi mai vissuta dal Paese dopo la Seconda guerra mondiale, e quasi tutti hanno mostrato il loro volto di mediocri, di servi, di mercenari pronti a vendersi. Si son messi a ragliare, a grugnire, a latrare secondo gli ordini del padrone. Padrone che, lo ripetiamo, non si trova in Italia, perché essa non è più uno Stato sovrano. Come ne usciremo? Male, malissimo, se non correremo ai ripari: fermando e processando i traditori. Ma per farlo ci vogliono fierezza e idee chiare. Dove trovarle, se non tornando al Dio dei nostri padri?