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Una società che si affida agli esperti ha perso la sua anima

di Antonio Catalano - 08/01/2022

Una società che si affida agli esperti ha perso la sua anima

Fonte: Antonio Catalano

Tradizionalmente, le questioni affliggenti la vita delle persone sono sempre state affrontate all’interno della famiglia e della comunità di riferimento. Famiglia che godeva di autonomia decisionale comunque relativa, essendo la comunità l’elemento gerarchico di riferimento. Comunità che si riconosceva in usi e costumi ben precisi, aventi la funzione di impedire pericolosi sfilacciamenti al suo interno.
Per quanto agli occhi di oggi possano sembrare opprimenti e “invasive”, le comunità esercitavano il proprio ruolo di controllo sugli individui per salvaguardare gli stessi ma più che altro per preservare esse stesse dalla corruzione (nel senso di disfacimento) e dal degrado. Faccio solo un paio di esempi. Quando ero bambino, nel mio centro di provincia – comunque una cittadina di 35mila abitanti – se un ragazzino faceva qualcosa di sbagliato (che ne so, provare a rompere un lampione o strappare fiori dall’aiuola) un qualsiasi adulto di passaggio esercitava il diritto/dovere di redarguire il minore senza temere che intervenisse mamma o papà per aggredirlo. Oppure, quando una famiglia era colpita da un lutto la comunità (quella prossima, naturalmente) interveniva per star vicino sia moralmente che materialmente ai parenti del defunto; mentre oggi impera la cosiddetta riservatezza, che per “rispetto” lascia soli a macerarsi nel dolore, che poi necessariamente bisognerà “elaborare”.
E questo avveniva nella scuola, dove il maestro o l’insegnante godeva del pieno appoggio dei genitori, per cui gli allievi o filavano dritti e studiavano oppure se le buscavano e nei casi peggiori andavano a lavorare. Ma pure il parroco aveva una funzione ben precisa: curare le sue anime della parrocchia, onde evitare che queste si “perdessero”: girava casa per casa, andava per le strade, nelle botteghe, nei luoghi di lavoro, ascoltava in sagrestia chi aveva da liberarsi di un peso insopportabile o chi viveva un periodo di crisi (problemi in famiglia, mancanza di lavoro, crisi coniugali). Insomma la comunità si stringeva intorno all’individuo per fargli sentire la sua presenza, il suo fiato, ma non lo faceva per generosità o per impicciarsi degli affari altrui, semplicemente perché attraverso il sostegno dei singoli sosteneva se stessa. La storia che porta alla separazione, e all’allontanamento, dell’individuo dalla comunità, parte da lontano, i miei ricordi d’infanzia sono già dento un processo da tanto tempo avviato, la strada per giungere all’annientamento della comunità era da tempo segnata.
Così l’individuo si è andato trovando sempre più solo, nella condizione di doversi arrangiare, incitato a sgomitare, a fottersene degli altri, e quando le forze non erano più in grado di sorreggere il peso soverchiante del malessere non gli rimaneva che lasciarsi andare alla disperazione, cadendo nell’abbrutimento (mentale e/o materiale) o addirittura nel suicidio. Oppure, nel caso di persone agiate, ricorrendo a figure specialistiche: psicologo, psicanalista, psicoterapeuta eccetera. Si è quindi andato affermando quel processo di terapeutizzazione sociale che è la cifra della nostra odierna condizione umana ed esistenziale. Terapeutizzazione naturalmente in sintonia con le caratteristiche della composizione sociale: i ceti benestanti (e “colti”) dal “giustamente” esoso psicanalista, i ceti popolari da psicologi passati dal sistema sanitario nazionale.
Questo è accaduto un po’ dappertutto: nella famiglia, nei luoghi di lavoro, negli asili, nella scuola, in generale nella società. Nella scuola – realtà che ben conosco – per esempio, l’adolescente in difficoltà è indirizzato allo sportello psicologico. Sempre più massivamente, tanto per accennare a un problema assai diffuso sempre nella scuola, semplici disturbi comportamentali, o quelli che definisco difetti di impostazione, sono classificati come patologie per le quali produrre certificazioni e conseguenti sostegni di “esperti”. Ma ciò accade anche sui luoghi di lavoro, dove l’individualizzazione, la separazione/competizione tra i lavoratori ha sostituito la vecchia solidarietà di classe.
A mano a mano, gli esperti hanno soppiantato tutte le figure che in una società di tipo tradizionale intervenivano per risolvere (o comunque provare a risolvere) i problemi dell’individuo. I parroci, per esempio, nella gran parte dei casi, ora assolvono semplici uffici amministrativi, con chiese chiuse e transennate che non invitano certamente a sentirle come luoghi di “cura”, oltre che di culto.
Qualcuno potrebbe obiettare: embè qual è il problema? le società si evolvono per fortuna, oggi abbiamo la possibilità di risolvere tante situazioni in modo “scientifico”, e oltretutto salvaguardando la “privacy” di ciascuno, senza cioè che si intrometta la comunità col peso del suo condizionamento e della sua invadenza. Ma è proprio così? Siamo sicuri che oggi il sistema di controllo tramite gli esperti eserciti le sue funzioni in un ambito di maggiore rispetto dell’autonomia dell’individuo?
E poi c’è un’altra questione, che ritengo assai importante. Gli “esperti”, proprio per come è avvenuta la loro formazione, cioè al chiuso di laboratori, di seminari, di dottorandi, di stage, insomma di ambienti e percorsi guidati e protetti, sono del tutto ignoranti in materia di questione sociale; non hanno quella sensibilità sociale (e umana) che nasce dal vivere le contraddizioni che riguardano la vita che si svolge giorno per giorno nelle strade, nei luoghi di lavoro, nei recessi più nascosti della società. Ciò di cui parlano gli “esperti” è ciò che hanno appreso in modo meccanico fuori dalle condizioni materiali di vita e fuori quindi dalla vita reale delle persone in carne e ossa. Non che sia per tutti così, ma in generale è così. Gli “esperti” spesso non ci capiscono un acca della materialità della vita, di solito seguono pedissequamente le mode “culturali” impulsate dal sistema, non solo per essere (ben) remunerati, ma anche per sentirsi della partita, il che vale acquisire maggiore prestigio sociale. Ecco perché, quando messi in contraddizione, nei loro camici bianchi spesso ti guardano con gli occhi sbarrati, incapaci di capire che cosa gli si dice. Non sono cattivi, sono solo pericolosi.