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Apocalisse. Ira del mondo e pazienza divina. È l'Ora della battaglia finale

di Massimo Cacciari - 29/04/2007

 
Apocalisse è Rivelazione, definitivo strappo del velo che ci impedisce di leggere il «libro» dove tutto sta scritto ab aeterno, il Vangelo Eterno (espressione presente qui soltanto in tutto il Nuovo Testamento): esso rappresenta «la corona della vita» (Ap. 2,10), il «rotolo della vita» (Ap. 3,5). Esso darà finalmente da mangiare l'Albero della Vita! (Ap. 2,7). La «storia» iniziata nel Giardino necessariamente «trasgredito» mostra la sua conclusione. Il tempo è «perfetto»; i «fatti» del tempo hanno esaurito la propria energia e si rivelano, come un tutto, compiuti. «Guarda, viene!»: ora viene. Ora è parousia, presenza, cioè, di Colui che rivela il compiersi del tutto, che formula sul tempo il giudizio definitivo. Il tempo si contrae in quella esclamazione: ecco, vedi, viene. E la sua parousia in atto è perfetta rivelazione.
In un colpo d'occhio l'apocalisse abbraccia cielo e terra, gioia celeste e furore e lamento quaggiù, abbraccia come momenti, come un solo movimentum le tragedie che hanno avvinghiato re, mercanti, marinai, servi di Satana a testimoni dell'Agnello. Ma questo sguardo è possibile perché la parousia del Signore, la sua Visita è. L'Agnello tiene nel suo pugno ogni «divenire». La parola di questa Apocalisse erompe dalla voce del Logos che si è fatto carne e ha annunciato salvezza grazie alla fede in Lui. Salvezza dal «fiume immondo della storia» (Nietzsche): questa è la grande visione dell'Apocalisse: la storia è giudicata, la storia si è «arresa». Ma se il Regno è del Signore e del suo Messia (Ap. 11,15) perché queste lotte, perché Satana dovrebbe ancora essere rimesso in libertà (Ap. 20,2)? Ogni fatto è segnato dalla Croce dell'Agnello. Ogni fatto è fatto. Facta sunt. Tutto è già compreso in quel Segno, nessun evento può produrre qualcosa che in esso non sia già saputo.
Il tempo dell'apocalisse è il paradosso del tempo- che-si-fa-spazio. Il tempo, nello sguardo apocalittico, nello sguardo sulla totalità dei fatti «a partire» dall'Ultimo, non è che un «caso» dello spazio. La totalità degli eventi è disposta sulla Grande Scena e
in uno questo sguardo li abbraccia. La sofferenza è realissima, il sangue dei martiri scorre realmente, come reale è la Croce e il grido dell'Uomo che vi sta appeso, reali le grandi crisi e le storie degli imperi di questo mondo, ma ecco l'Annuncio: di tutto ciò è ora evidente ( phaneròn: Mc. 4,22) la fine. Si badi: non l'annuncio che finirà ma che ora si compie. E ciò in perfetta coerenza con il Senso dei Sinottici ribadito da Giovanni: Sei tu il Messia? Ego sum.
L'Apocalisse contrae il tempo nel «luogo» onnicomprensivo della totalità degli eventi, celesti e terreni, e scopre il nesso che ab aeterno li collegava indissolubilmente. Che cosa «rimane»? Questo soltanto: cambiate subito mente e cuore, trasformatevi, credete; anzi, che la fede sia per voi metamorphosis. Sottilissimo, pressoché istantaneo «nondum»: il perfetto «aderire» di chi ascolta il Messaggio all'essere-perfetto del tempo.
Non vi è più tempo per l'alternanza di veglia e sonno, non v'è più tempo per «stare a vedere». L'attesa è compiuta. Ego sum. Il segno della Croce domina e comprehende. Vi è «tempo» solo per decidere. Il tempo apocalittico è quello della decisione ultima, che ognuno, ogni singolo deve assumere. «Naturalmente» ognuno cerca di sottrarsi a questa stretta; ognuno spera che i propri atti possano sempre essere rimediati, possano risultare «reversibili». Ora, non più. Vigilate, poiché ora viene. Decidete; è necessario ormai che ognuno sia-per-la-Sua-venuta, che avverrà in un colpo d'occhio, che ci coglierà come un ladro di notte. Ma così già vi è stato detto, perciò «estote parati», siate pronti. Il «lungo» tempo dei rinvii, delle incertezze, delle contraddizioni appare un unico «spazio», il cui senso è presente. Ora, è necessario decidere: o Suoi testimoni-martiri e con Lui «dove» non è più tempo assolutamente, o divorati come meri servi di questo mondo e del suo tempo nel Giudizio. Questa la krisis ultima che comprende in sé ogni possibile dramma. Da un lato, pistis, nomos, soteria, fede, obbedienza al Mandatum novum neo-testamentario che invera, compie, non abolisce un solo iota di quel mosaico, e perciò salvezza. Dall'altro, già giudicate, le potenze dell'apostasia, dell'anomia,che portano, anzi: che già vediamo aver portato all'apoleia, alla distruzione. Da un lato, Cristo; dall'altro, l'Anti-Cristo. Aut-aut.
Certo, qui l'essenziale non consiste nel «quando», bensì nel «come» ognuno, ogni singolo si rapporta all'Ora. Essenziale è essere-per-la-fine, il decidersi per essa. E tuttavia qui non si tratta affatto di vivere ogni istante «come se» fosse l'ultimo, «come se» dovessimo rispondere in questo istante della totalità del nostro esserci. Il «tempo» apocalittico è la realtà dell'Ultimo, rivelazione perfetta del significato escatologico dell'Agnello. L'essenziale non può consistere nel «quando» per la ragione fondamentale che ogni «quando» è trapassato, divenuto,
sta sull'altare dell'Agnello: promessa e Venuta, attesa e compimento, sacrificio e resurrezione.
Chiediamoci seriamente: come corrispondere a una tale visione? Il nostro tempo non è tutto storico, da parte a parte? Non interpretiamo ogni accadimento sulla base della sua genesi storica e «aperto» alla sostanziale imprevedibilità del futuro? E non vediamo nel tempo futuro il «deposito» pauroso e affascinante del Novum? E non è del Nuovo, dell'ancora non visto, non rivelato, del Nondum, che abbiamo nostalgia? Questo tempo è l'esatto opposto di quello apocalittico, del tempo-spazio della Rivelazione contenuta nel Vangelo-Eterno. Il tempo del «progresso» indefinito può dar vita a una serie di crisi-e-decisioni, si dispiega in un fiume di «anni decisivi», ma per definizione non può essere pensato al suo compimento. La sua «insecuritas» non potrà mai essere definitivamente «curata», e cioè giudicata e «risolta». E tuttavia come non vedere che le decisioni che costituiscono la nostra storia assumono una forma che è «simia», che è a imitazione, diabolica forse, della Decisione cui ci chiama il Logos dell'Apocalisse? Si, ogni nostra decisione la imita, rovesciandola: vorrebbe presentarsi come «risolutiva», pretenderebbe di disvelare il senso del divenire fino a quel punto rimasto nascosto, di «scontare» in sé l'imprevedibilità del futuro. È come se ogni nostra decisione pretendesse di occupare lo spazio della Fine, o comunque tendere ad esso, ad «innalzarsi» fino ad esso. E hyper-airomenos, colui che vuole su tutto innalzarsi, è precisamente il nome dell'Avversario.
Con ciò vogliamo dire che l'Apocalisse, l'Annuncio che «la misura del tempo è colma», apre a una nuova storia, a un nuovo senso della storia. E che tale possibilità rimane confitta nel suo stesso segno, non ne rappresenta affatto un semplice «tradimento». È l'Apocalisse a spezzare ogni idea che la Fine possa ripetere l'Inizio, che «conversio» possa significare il ritorno a uno stato originario. Il divenire storico è segnato dall'irrompere di Novità radicali, anzi: dalla Novitas del Cristo. L'Adamo che essa produce è del tutto nuovo. È l'Apocalisse a rivelare che la miseria dell'esserci umano è ora figlia di Dio: «voi siete figli di Dio...», per quanto possiate ancora compiere le opere del diavolo. E quanto questa fiducia contraddistingue ancora i nostri atti! La fiducia, cioè, che qualsiasi distruzione apportiamo, qualsiasi violenza perpetriamo, saremo sopportati... che l'ira del mondo contro Dio mai potrà vincere la pazienza divina... L'Apocalisse certamente è la Rivelazione ultima che il Regno di Dio è «entos hymon» (Lc. 17,31), ma la «nostra» storia non solo ha inteso l'«entos» esclusivamente nel senso del «dentro» noi, «nell'intimo» di noi, ma questa radicale «intimità» nel senso di un possesso, di un'acquisizione definitiva, nel senso che il Regno è «nostro» e ora si tratta di realizzarlo, di portarlo a compimento «fuori» di noi.