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Consapevolezza per la sopravvivenza

di Franco Paolinelli - 06/12/2005

Fonte: Franco Paolinelli

 

 

Gli esperti di ecologia ci dicono che ogni essere vivente, uomo incluso, ha una certa nicchia nella natura e fa parte di un ecosistema. Ci dicono inoltre che i meccanismi ecologici ed evolutivi fanno in modo che gli ecosistemi tendano verso condizioni di equilibrio tra prelievo effettuato dagli esseri viventi e risorse disponibili, trovati anche grazie ad adattamenti progressivi delle specie al modificarsi dell’ambiente.

In questo processo ci possono essere fasi di crisi, ma la tensione di base è sempre verso la creazione degli ecosistemi più ricchi e diversificati possibile.

Anche la nostra specie fa, necessariamente, parte degli ecosistemi del pianeta e, per milioni di anni, ha dovuto vivere nei loro equilibri. Ma, diversamente dalle altre forme di vita superiore, finora, ad un certo punto della propria evoluzione, ha iniziato a manifestare capacità intellettuali ed emotive particolari. Queste hanno permesso l’aumento progressivo delle abilità dei gruppi umani, sia nello sfruttamento delle risorse, sia nella gestione dell’ambiente, decisamente oltre quanto possibile con le  unghie ed i denti del singolo individuo.

La crescita di queste capacità ha avviato un ampliamento macroscopico delle aggregazioni umane. Le grotte dei gruppi familiari sono diventate capanne e villaggi e poi città e metropoli ([1]).

Questo sviluppo non è stato omogeneo. Nel tempo, l’andamento iniziale è stato molto lento, poi  si è andato accelerando sempre più velocemente. E’ quindi stato, sopratutto in alcune aree del mondo, di tipo e esponenziale, con un decorso non diverso da quello di un’esplosione nucleare.

Il ritmo evolutivo, comunque, non ha impedito che, perlomeno fino a pochi decenni fa, anche in quelle aree, si configurassero degli equilibri duraturi, riconoscibili.

Erano basati sull’energia rinnovabile del sole e su tecnologie semplici. Il prelievo di risorse, con l’agricoltura, l’allevamento, l’artigianato, non poteva, necessariamente, superare le possibilità degli habitat di fornirle. C’è quindi stato il tempo perché si configurassero sistemi socio-ecologici stabili. Erano “villaggi assestati”, che, sul territorio, davano luogo a paesaggi riconoscibili.

Negli ultimi decenni, il processo evolutivo, grazie gli sviluppi della tecnologia, è diventato talmente rapido impedire la formazione di equilibri riconoscibili. Le comunità non si vanno assestando, ne quindi sembrano più configurarsi “paesaggi”, naturali, agrari, o socio-culturali.

Le dinamiche di investimento economico, l’estensione dei mezzi di comunicazione, il movimento mondiale di migranti dal secondo e terzo mondo verso il primo, la crescita della popolazione…..([2]), sono state tali da prefigurare l’arrivo ad un unica società, già definita il villaggio globale, necessariamente limitato, dal pianeta.

Mentre nei paesi sviluppati (PS) si procede all’occupazione di ogni nicchia ed allo sfruttamento di ogni risorsa, nei paesi in via di sviluppo (PVS) si portano nuove aspettative e nuovi consumi perché la corsa aumenti ancora di velocità.

Ma lo fa grazie alle riserve biologiche accumulatesi nelle ere geologiche precedenti, sia quelle vive, le foreste, le biomasse marine…., sia quelle fossili, idrocarburi e non solo, ambedue a lento o lentissimo rinnovamento. 

A questi squilibri i consumi umani associano impatti che riducono, ancor di più, la ricchezza, la diversità e la portanza biologica dei vari habitat. Definiamo tutto ciò “stress ambientale”.

 

E’ importante, a questo punto, ricordare che questi stress non sono drammatici per la “natura” in senso lato, che può vivere comunque nelle sue mille forme, eventualmente microbiche, ripartendo dopo ogni catastrofe, ma lo sono per noi, qui, ora, che abbiamo bisogno di questo ambiente naturale e non di un altro ([3]).

 

Ci si può quindi domandare: Che cosa succederà ?

Si può ipotizzare che l’evoluzione continui a spingere le società umane a comportarsi in modo “normalmente” animale, ad usare cioè le proprie capacità per predare il massimo possibile ed a subire le conseguenze di riequilibrio che, prima o poi, potrebbero arrivare.

Ovvero ci si può aspettare che, con l’aiuto della tecnologia, l’evoluzione porti l’umanità ad espandere ulteriormente i propri habitat, per continuare a predare, su scala più ampia, magari sottomarina ed extraterrestre.

Si può pensare invece che possa spingere le società umane ad imporre al mondo ed a se stesse, il controllo totale dei flussi di energia e risorse, necessario a garantire la sostenibilità dei sistemi. Potremmo scoprire che il prezzo di questo controllo, oltre i conflitti per costruirlo, è la modifica, radicale e repentina, dei caratteri biologici della nostra stessa specie.

Ci si può infine chiedere se la natura umana non includa in se una tale capacità di autogoverno che le permetta di scegliere, per difendere gli equilibri esistenti e costruirne, gradualmente, di nuovi, contenendo il disordine, lo stress e la perdita di diversità biologica e culturale, distinguendo tra qualità della vita e quantità del consumo.

La risposta non è semplice ([4]). E’ semplice invece capire che non ci aspettano anni facili. Ogni passaggio, incremento o destrutturazione, espansione o medioevo che sia, riguarda infatti noi e non è indolore.

Data questa situazione, la cultura della responsabilità esprime le sue perplessità e propone risparmio ed attenzione.

In opposizione a questo atteggiamento, il mondo del prelievo suggerisce di non preoccuparsi, gli spazi verranno ampliati, le risorse trovate, la scienza e la tecnologia troveranno una soluzione e comunque “chissenefrega”, io vivo qui, ora e “biologicamente” non mi interesso d’altro.

Il dibattito cresce, ma i consumatori ignari sono la maggioranza, vivono il “benessere” di oggi e non desiderano conoscere i problemi di domani. Forse hanno paura, ma reagiscono, per lo più, con l’incremento del superfluo, con l’ubriacatura dello spreco, rinunciando a scegliere. A volte la stessa qualità ambientale diventa, per loro, sfoggio, di sicuro valore etologico.

Ma, ai consumatori esistenti se ne vanno aggiungendo, anno per anno, a milioni, da quel terzo mondo che vogliamo complice, che diventa secondo e poi primo, forse per finire, tutti insieme, ultimo.

Per affrontare queste dinamiche non possiamo che proporre “consapevolezza”.

Ci si può infatti chiedere se un’ottica distaccata permetta di vedere la molteplicità dei fenomeni ecologici e sociali come parte di processi più semplici e naturali. Prenderne atto, capire la loro “ovvietà animale” e la loro natura, “quantitativa” prima ancora che qualitativa, potrebbe, forse, essere uno stimolo per riflettere, avviando i meccanismi necessari per il riequilibro e la sopravvivenza. 

 

 



[1] Secondo E. Ronchi (2003) la popolazione urbana salirà dall’attuale 50 % al 60 %, prevalentemente in condizioni di slums. 

[2] Secondo il Rapporto Popolazione Ambiente e Sviluppo del Dipartimento degli Affari Economici e Sociali, Divisione Popolazione, Organizzazione delle Nazioni Unite (2001) la popolazione mondiale tra il 1900 ed il 2000 è aumentata da 1,6 a 6,1 miliardi, ma si stabilizzerà interno al 2050 su 8,9 miliardi. Le stime fatte della quantità massima di popolazione sostenibile oscillano intorno ai 10 miliardi. La popolazione tende a crescere soprattutto nelle aree urbane, si stima che nel 2030 più di 3/5 della popolazione vivrà in aree urbane.

[3] Anche Gianni Mattioli, in “Pensare la Scienza (2004), dice qualcosa di simile: “il Pianeta una stabilità la trova comunque, ma in condizioni che non è detto che vadano bene a noi”.

[4] M. Cini, 2002, in “Manifesto della Sinistra Ecologista” dice: in questo processo si manifesta una contraddizione tra natura e cultura, tra la crescita del sapere e del potere dell’uomo e la capacità di modificare anche se stesso.